
Qual è il profilo dell’editoria italiana del primo Novecento?
È nel segno della metamorfosi, di un cambio di pelle. Guardiamo alla saggistica: i cascami della tradizione positivista si intrecciano alle suggestioni, non univoche, che arrivano da altre correnti filosofiche. D’altra parte la Laterza, quando nasce nel 1901, dà il “la” all’editoria di cultura di buona parte del Novecento. Coordinate principali: il rapporto organico con le fila degli intellettuali (mentore Benedetto Croce) e l’impulso a quell’operazione che, proprio muovendo le leve dell’editoria libraria e periodica (pensiamo al ruolo delle riviste), imporrà l’egemonia del neoidealismo, emarginando quanti stavano lavorando in altre direzioni. Con tutte le conseguenze del caso.
La metamorfosi riguarda anche l’editoria “di larga circolazione”: siamo all’apogeo del modello forgiato da Treves e Sonzogno, ma anche al principio del suo declino: e il cambio di testimone è simbolicamente segnato dall’avvio dell’attività di Arnoldo Mondadori. Non solo. Si affacciano i sintomi di una nuova – nuova per nomi, per formati, per distribuzione – editoria “popolare”: a Hugo, Dumas, Verne, Xavier de Montépin, Prevost, Invernizio, Guerrazzi, si affiancano cinelibri, fascicoli seriali, giallo anglosassone, racconti del mistero, romanzi d’avventura, dime novels, romanzi piccanti… E nella diffusione del materiale a stampa, l’edicola affianca la bancarella. Insomma, dal punto di vista delle strategie produttive e distributive, così come da quello degli immaginari e dei gusti, i processi di modernizzazione del Novecento si mettono in moto qui, ai suoi primi passi.
Come attraversò l’editoria italiana gli anni del regime?
Nel segno di un’ambivalente sintonia con i vertici del regime. Da una parte la costruzione di una “atmosfera” censoria e poi di un vero e proprio apparato di censura, dall’altra una crescente visibilità del mondo dei libri e gli interventi a favore del commercio librario. Da una parte le piaggerie e il sostegno alla propaganda, dall’altra le strategie per vendere a prescindere dalla propaganda. Da una parte l’adesione, a parole, alla politica autarchica, dall’altra la tendenza alla internazionalizzazione (non per caso gli anni trenta sono noti come il “decennio delle traduzioni”). Si potrebbe continuare. Il ventennio fascista è un periodo molto articolato, e non si capisce nulla di rapporti tra mondo della cultura – e dunque dell’editoria – e regime se lo si considera come un monolite: bisogna avere la pazienza di seguirne il corso. Le leggi antisemite sembrano segnare uno spartiacque, alzando l’asticella dell’impegno richiesto agli editori, anche qui, però, sullo sfondo di un’ambigua e complessa implicazione: un sordo silenzio accompagna quelle disposizioni – icasticamente rappresentato dal silenzio che accompagna il suicidio “gridato” di Angelo Fortunato Formiggini – anche se poi intellettuali ebrei continuano a lavorare per gli editori. Proprio l’editoria libraria, d’altro canto, è il canale grazie al quale iniziano a circolare quei titoli – tra romanzi e saggi – che presto costituiranno un’ideale biblioteca antifascista.
Quali tendenze caratterizzarono l’editoria del dopoguerra?
Innanzitutto, la messa a punto della proposta di alta cultura nella cornice democratica appena conquistata: questa è la grande stagione dell’Einaudi, sono pubblicati i Quaderni del carcere di Gramsci, si impostano collane fondamentali come la List (Letteratura italiana Storie e Testi) della Ricciardi, le Edizioni di Comunità esplorano territori ancora ignoti alla cultura italiana… Certo, la guerra fredda ha i suoi effetti: ci sono iniziative editoriali ispirate da perentorie linee ideologiche, che tendono a dettare assi e paradigmi dell’azione culturale, non mancano casi di prona compiacenza, o di incalzanti pressioni, o di soffocanti ortodossie. Ma questo non esclude un largo spettro di proposte animate da una volontà di aggiornamento e di ricerca che guarda ben al di là delle strette contingenze politiche. Valga su tutti l’esempio della collana “Viola” seguita da Pavese e De Martino: controversa, ma seminale….
E poi il dopoguerra è, per l’editoria, il tempo del lavoro sulle collezioni “universali”, la “Bur” su tutte; dello sfruttamento del romanzo per un mercato interclassista, come dimostrano le strategie di un Mondadori, o di un Garzanti; della ripresa della narrativa seriale. In definitiva: pur nei limiti tracciati da condizioni di mercato stagnanti, da rigidità e asprezze del dibattito culturale, da zavorre ideologiche, un fervido laboratorio per formule e prospettive che decolleranno negli anni del “miracolo”.
Cosa significarono, per l’editoria italiana, gli anni del miracolo economico e della contestazione?
Innanzitutto la possibilità di sfruttare una fetta di mercato nuova: le enciclopedie a dispense e i tascabili venduti in edicola, gli “Oscar” Mondadori in testa, ne sono il più clamoroso esempio. La contestazione stessa può essere letta – anche sul piano internazionale – come uno degli effetti di questo vigoroso e veloce ampliamento delle “maglie” del discorso culturale. Lo stesso si può dire per gli spiragli offerti dai processi di secolarizzazione: sono anni in cui si moltiplicano i sequestri dei libri, ma non a caso, visto che questi sussulti censori sono risposte alle spinte libertarie sempre più forti e diffuse. Ultimo ma non meno importante: al tramonto dello storicismo fa da contraltare l’apertura a discipline e correnti “nuove” – sociologia, psicoanalisi, filosofia della scienza, semiotica, strutturalismo, antropologia culturale, linguistica, e via dicendo. È una stagione aurea per l’editoria di cultura, da Einaudi al Saggiatore, da Laterza a Feltrinelli, da Bompiani a Boringhieri, solo per citare i pesi massimi. E la saggistica si vende, anche grazie alle collane economiche. Il Sessantotto si nutre di questo fermento, e a sua volta lo alimenta. D’altra parte i Settanta sono un decennio controverso, un decennio “cerniera”, un’incubatrice di istanze inedite, di tendenze future: ci sono le sigle militanti, c’è l’editoria femminista, c’è il fiume di collane “politiche” e d’attualità, c’è il rinnovamento dei libri per i bambini; ma questo è anche il decennio di Adelphi, che propone materiale – l’irrazionale, l’esoterico, il sacro, il fantastico, la letteratura della crisi, l’etologia – alieno a una cultura che vede nella Storia, nella razionalità, nella società delle classi e nella politica i suoi schemi di lettura del mondo.
Per non parlare della struttura del sistema editoriale: siamo alle prime battute del processo di concentrazione, siamo al passaggio, non indolore, dal “romanticismo” dissipatore al professionismo al servizio dell’“economia di mercato”. Va in crisi anche il ruolo dei letterati e dunque delle case editrici come soggetti egemoni nella sfera culturale: il potere che l’editoria ha esercitato sugli orientamenti culturali e del gusto – attraverso i suoi dirigenti, i suoi intellettuali, le sue riviste – sembra vacillare.
Quali vicende hanno segnato l’età “postmoderna” dell’editoria?
Il commissariamento e il passaggio di mano dell’Einaudi, la crisi delle case editrici di sinistra, la sempre più accentuata tendenza alle concentrazioni. Sullo sfondo c’è il mutamento del quadro culturale: vengono meno modelli gnoseologici ed ermeneutici consolidati, si sfarina la geografia del sistema; e c’è il mutamento del quadro politico: declinano, si attenuano, si trasformano le categorie ideologiche tipiche del Novecento per lasciare campo a una nuova costellazione della vita civile. Ma questo è anche il momento dell’affermazione di nuovi soggetti editoriali: da Sellerio a e/o, da minimum fax a Iperborea, da Bollati Boringhieri a Quodlibet. E tutta la saggistica si giova di un rimescolamento delle carte che lascia spazio a ricerche e direttrici feconde.
Quali nodi restano ancora attuali?
Quello del mercato. Il vero, grande problema dell’editoria italiana è il suo mercato.
Come sta affrontando l’editoria nostrana la sfida della rivoluzione digitale?
Forse con meno coraggio rispetto a quello che richiede una sempre più veloce trasformazione dei gangli e della semantica della circolazione del sapere, soprattutto (ma non solo!) se si pensa alle frange più dinamiche delle giovani generazioni, che masticano con sicurezza pratiche e linguaggi digitali. L’universo dei blog sta imponendo un ambiente e paradigmi nuovi, una nuova mappa e una nuova gerarchia della produzione e del consumo di cultura. A quell’universo si deve guardare con più decisione e sistematicità. Non solo: c’è voluta la pandemia per accelerare il lavoro sulle edizioni e-book, un sollievo e una gioia per molti lettori. E, a proposito di e-book, molto si deve ancora lavorare su questo fronte: perché non raccogliere con più convinzione la sfida della lettura digitale, interattiva e multimediale?
Come interpreta il proprio ruolo e le proprie responsabilità l’industria editoriale italiana, in un Paese nel quale solo il 40% dei suoi abitanti dichiara di leggere almeno un libro all’anno?
L’industria editoriale italiana ha molte responsabilità quando si parla di progetti di espansione dell’area guadagnata stabilmente alla lettura, ma non quante ne hanno la scuola, le famiglie, le politiche governative e gli investimenti nella promozione dei consumi culturali e nella formazione. Altrimenti qualsiasi iniziativa che provenga dal mondo editoriale – festival, rassegne, premi, soluzioni invitanti, strategie indovinate – tende a ricadere solo sui “già lettori”, e sui lettori “forti”.
Quali scenari futuri, a Suo avviso, per l’editoria italiana?
Il “libro” (cartaceo, digitale, audio) rimarrà il veicolo cruciale della produzione e della diffusione di idee, conquiste della ricerca, indagini, testimonianze, narrazioni, storie, tanto più in un’epoca liquida e veloce, tanto più di fronte alla frammentazione del discorso pubblico e al pulviscolo dei messaggi in rete. Vedo promettenti prospettive nella caduta delle barriere che portano i lettori ai libri e i libri ai lettori: digitalizzazioni, e-commerce, blog di lettura, scrittura, recensioni, informazioni. La speranza è che si rinvigorisca una “politica della cultura” che affermi l’atto del leggere come il perno di una cittadinanza piena e di una esistenza “interessante”, e che l’editoria ne sia motore e protagonista.
Irene Piazzoni è docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano. Studiosa di storia della cultura e dei media nell’Ottocento e nel Novecento, ha pubblicato numerosi saggi e monografie, tra le quali Valentino Bompiani. Un editore italiano tra dopoguerra e fascismo (Led edizioni, 2007) e Storia delle televisioni in Italia (Carocci, 2014)