
L’accusa di irrazionalità ha cominciato a farsi largo allorché il regime nordcoreano ha preso sfidare la comunità internazionale attraverso una serie di provocazioni di diversa natura, tra cui i vari test nucleari sotterranei (dal 2006 ad oggi ne sono stati effettuati sette, di crescente intensità) e gli infiniti lanci missilistici di vario genere, da quelli a corto raggio a quelli intercontinentali. Questo comportamento – in particolare in alcuni frangenti – ha convinto alcuni che la leadership di Pyongyang, a partire da Kim Jong Un, sia popolata da persone altamente instabili. Citerei ad esempio l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Nikki Haley, che dichiarò che Kim non era un attore razionale e non si comportava razionalmente; o il Senatore John McCain, il quale etichettò Kim come un “ragazzo pazzo e grasso”; o, ancora, il repubblicano Bradley Byrne, il quale, al ritorno da un viaggio in Asia, affermò che era molto difficile avere a che fare con qualcuno che è irrazionale.
La questione sostanziale sta probabilmente nell’accezione del termine “razionalità”, che, in questo caso, dovrebbe assumere il significato secondo cui il governo di un certo paese è nelle condizioni di fare dei calcoli logici in considerazione dei propri obiettivi e interessi e determinare come raggiungerli basandosi sulle risorse – economiche, militari, diplomatiche, ecc. – a propria disposizione. Gli Stati in genere hanno molti interessi diversi, ma il principale è quello dell’auto-conservazione. Un leader razionale può naturalmente compiere delle azioni rischiose ma non potrà mai fare qualcosa che possa portare la nazione a un totale annichilimento. Di conseguenza, sostenere che Kim non sia razionale equivarrebbe a dire che egli sarebbe eventualmente pronto – accecato dallo zelo ideologico – a lanciare un attacco nucleare, magari ai danni degli Stati Uniti, senza minimamente curarsi del fatto che immediatamente dopo una rappresaglia potrebbe cancellare il proprio paese. La questione sostanziale, invece, sta nel fatto che nei decenni successivi alla fine della guerra di Corea (1950-53) la Corea del Nord ha costantemente “provocato” la comunità internazionale – e specificatamente gli Stati Uniti – sapendo bene che dalla parte opposta vi è comunque il timore di un intervento militare, che potrebbe costare la vita di migliaia di sudcoreani e far sprofondare l’intera regione nel caos più assoluto. D’altronde, Seoul – una delle città più densamente popolate al mondo – dista solo una cinquantina di chilometri dal confine e, in caso di guerra, rappresenterebbe un bersaglio sin troppo facile. Le azioni di Pyongyang, quindi, non devono essere ridotte a semplici atti di isteria; si tratta, al contrario, di gesti deliberati che trovano origine nell’osservazione attenta delle modalità con cui il mondo potrà rispondere. Per di più, ogni volta che il regime pone in essere una di questa azioni, che agli occhi dei più testimoniano la follia della leadership nordcoreana, ottiene un ritorno eccezionale sotto forma di legittimazione interna e proietta all’esterno una immagine di estrema pericolosità che rende un’azione militare contro di esso sempre più rischioso. In questo senso, le armi nucleari, di cui la Corea del Nord si è progressivamente dotata, hanno rappresentato la classica “ciliegina” sulla torta, dato che schermandosi dietro di esse Pyongyang ritiene di poter assumere un atteggiamento ancor più provocatorio senza incorrere in alcuna ripercussione. D’altronde, chi si prenderebbe la responsabilità di andare militarmente contro un paese che possiede la bomba atomica e che ha dimostrato di saperne fare buon uso? Del resto, negli ultimi decenni Pyongyang ha guardato con attenzione a ciò che è accaduto ad altri regimi, come quello di Qaddafi in Libia, per esempio, che non sono riusciti – pur avendone l’intenzione – a dotarsi di armi nucleari e che, successivamente, sono stati spazzati via. Il programma nucleare, insomma, è usato come una sorta di schermo che impedisce che un crollo del regime si concretizzi; una sorta di garanzia di sopravvivenza del regime.
Programma nucleare a parte, il medesimo ragionamento può essere fatto per spiegare altre azioni compiute da Kim Jong Un, come, per esempio, il già ricordato assassinio dello zio, nel 2013, o l’uccisione del fratellastro, avvenuto nel 2018 all’aeroporto di Kuala Lumpur ed effettuato ricorrendo al gas nervino VX, catalogato dalle Nazioni Unite come arma di distruzione di massa. L’avvenimento ha profondamente disturbato l’opinione pubblica occidentale, ma anche questi non sono segnali di irrazionalità, ma piuttosto tentativi di consolidare il potere ed eliminare qualunque minaccia. Una pratica, peraltro, sempre in voga nei regimi totalitari. Ciò non significa, naturalmente, che queste azioni non siano moralmente abbiette, ma semplicemente che esprimano una grande lucidità.
Come si è evoluta storicamente la politica estera nordcoreana degli ultimi tre decenni?
Durante il periodo della guerra fredda la Corea del Nord ha potuto contare sull’appoggio della Repubblica Popolare Cinese e dell’Unione Sovietica, dalle quali Pyongyang riceveva assistenza di tipo militare, economica e diplomatica. Ciò, tuttavia, non significava che non ci fossero frizioni di alcun genere: in particolare dopo lo scisma sino-sovietico, sul finire degli anni Cinquanta, la Corea del Nord ha anzi attuato la “strategia del pendolo”, avvicinandosi maggiormente a Mosca o a Pechino a seconda delle sue esigenze.
Tra il 1989 e il 1991, quando lo scenario internazionale mutò sensibilmente, il senso di protezione costantemente avvertito dalla Corea del Nord in virtù proprio della sua vicinanza a Mosca e a Pechino si sgretolò, trasformandosi in un sentimento di tradimento vero e proprio quando queste ultime, agli inizi degli anni Novanta, procedettero al riconoscimento diplomatico della Corea del Sud. In quel momento, la stessa sopravvivenza del regime nordcoreano, crescentemente isolato, sembrava essere a rischio: il crollo di regimi comunisti di rilievo, infatti, sembrava preludere a una più pronunciata pressione esercitata dalla comunità internazionale per l’attuazione di riforme sostanziali, anche di tipo politico, che Pyongyang, ovviamente, non aveva alcuna intenzione di implementare.
Già a partire dalla seconda metà del 1991, tuttavia, il regime nordcoreano modificò il proprio atteggiamento in politica estera, passando dalle accuse alla collaborazione con le potenze regionali. Ciò, per esempio, fu dimostrato dall’ingresso all’Assemblea delle Nazioni Unite, contestualmente alla Corea del Sud, proprio nel 1991; se fino a quel momento Pyongyang si era costantemente rifiutata di unirsi all’organizzazione simultaneamente a Seoul, i profondi cambiamenti internazionali, la possibilità di venire ulteriormente isolati e l’automatica delegittimazione conseguente all’ingresso della sola Corea del Sud convinse il regime nordcoreano ad accettare tale sollecitazione. Nel 1992 il nuovo posizionamento della Corea del Nord, più prona alla collaborazione con i paesi capitalisti e perfino con gli Stati Uniti, era diventato palese, come comprovato dalla disponibilità mostrata dalla crescente disponibilità verso Seoul, con cui si aprirono delle consultazioni di alto livello che portarono all’importante Accordo sulla riconciliazione, non-aggressione e scambi e cooperazione tra i due paesi, ratificato nel dicembre del 1991 ed entrato in vigore nel febbraio dell’anno successivo. Passi in avanti furono compiuti anche nel rapporto con gli Stati Uniti, dato che il 21 ottobre del 1994 fu siglato l’importante Accordo Quadro, che pose fine alla prima “crisi nucleare”, cioè alla scoperta che la Corea del Nord aveva effettivamente proceduto all’estrazione e al riprocessamento di plutonio. L’Accordo Quadro rimane una pietra angolare della distensione tra Pyongyang e la comunità internazionale – in particolare gli Stati Uniti – che, se avesse trovato piena implementazione avrebbe probabilmente condotto alla costruzione di un rapporto meno conflittuale. L’accordo prevedeva la fondazione di un consorzio – il Korean Energy Development Organization, a cui avrebbero preso parte Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e altri – la cui responsabilità principale sarebbe stata quella di installare due reattori “puliti” in sostituzione di quello che i nordcoreani avevano usato per la produzione di armi nucleari. Fu questo, comunque, il periodo in cui la Corea del Nord cominciò a puntare decisamente sulla costruzione di un programma nucleare al fine di ridurre al minimo le minacce nei confronti della sicurezza del regime. Nonostante ciò possa sembrare una contraddizione, il programma nucleare risultò un importante complemento che permise alla Corea del Nord di perseguire più efficacemente una strategia di tipo relazionale. Quando lo sviluppo del nucleare per scopi militari divenne universalmente noto, infatti, Pyongyang ebbe vita facile nel trascinare gli altri paesi al tavolo negoziale; allo stesso modo, nessuno avrebbe più potuto consentirsi semplicemente di ignorare la Corea del Nord o attendere il crollo del regime. L’opzione nucleare, quindi, era il modo rintracciato da Pyongyang per trasformare la propria vulnerabilità in una leva diplomatica al fine di prevenire l’emarginazione geopolitica. Dal punto di vista interno, peraltro, questa proiezione di forza risultò fondamentale per la legittimazione della leadership e per il rafforzamento dell’ideologia di base – la cosidetta juche, cioè autosufficienza – che enfatizzava l’indipendenza e il nazionalismo. Venuto a mancare il sostegno da parte dei propri alleati, la Corea del Nord si trovò costretta a fare delle concessioni ai propri vicini e ciò stava indebolendo l’ideologia juche, che rappresentava un fattore critico nel mantenimento del regime. Almeno tre grandi motivazioni stavano quindi dietro allo sviluppo del programma nucleare: la deterrenza contro le minacce esterne, l’acquisizione di legittimazione a livello internazionale e il rafforzamento della legittimazione interna.
Negli anni Novanta, nonostante la transizione al potere in Corea del Nord (la morte del fondatore della patria Kim Il Sung, nel 1994, fece sì che il potere passasse nelle mani del figlio Kim Jong Il), ci fu un ulteriore riavvicinamento tra le due Coree; ciò avvenne anche a causa della tremenda carestia che si verificò in Corea del Nord e che mieté milioni di vittime. La Corea del Sud fu uno dei paesi che concesse immediatamente il proprio aiuto. Negli anni a seguire, la presenza di Kim Dae-jung – il primo progressista alla guida della Corea del Sud – costituì un altro fattore di rilevante importanza per la distensione: questi, infatti, era persuaso della necessità di creare un’atmosfera più rilassata tra le due Coree, un senso di comunità e una più pronunciata integrazione. Egli fu anche il primo presidente sudcoreano ad avere la possibilità di recarsi in visita al Nord per un summit con il leader Kim Jong Il, che rappresentò un elemento prodromico a un ulteriore riavvicinamento.
Questi importanti sviluppi furono però frustrati dalla cosidetta seconda “crisi nucleare”, scoppiata nel 2002, e che contribuì a esacerbare le relazioni tra Pyongyang e la comunità internazionale, a causa del fatto che la Corea del Nord avesse continuato a perfezionare il proprio arsenale nucleare, riuscendo addirittura a riprocessare l’uranio.
Da quel momento in avanti, la politica estera della Corea del Nord si è mossa costantemente tra il consolidamento delle relazioni con la Repubblica Popolare Cinese, che è naturalmente diventata il primo partner commerciale per Pyongyang e la sua vera fonte di sussistenza, almeno in ambito economico, e le continue minacce nucleari e missilistiche nei confronti della comunità internazionale, che si sono fatte ancora più pronunciate da quando, sul finire del 2011, Kim Jong Un ha assunto il comando a seguito della morte del padre. Proprio per questo motivo, un pesantissimo regime sanzionatorio è stato imposto ai danni di Pyongyang da parte delle Nazioni Unite e individualmente da alcuni paesi, come gli Stati Uniti, la Corea del Sud, l’Australia e perfino dall’Unione Europea; le sanzioni sono state formalmente adottate anche con il benestare di Cina e Russia, anche se queste – in particolare la prima – continuano ad aggirare questi provvedimenti senza alcuna difficoltà. A causa dell’adozione delle sanzioni, tuttavia, l’economia nordcoreana è stata assalita da enormi difficoltà, subendo un contraccolpo che è stato ulteriormente esacerbato dal Covid-19; una delle richieste, probabilmente la più importante, avanzate da Kim Jong Un nel corso degli storici incontri con il presidente americano Trump (a Singapore nel giugno 2018 e ad Hanoi nel febbraio 2019) è stata proprio quella di ammorbidire il regime sanzionatorio. La richiesta degli americani di procedere, in cambio, a un progressivo smantellamento del programma nucleare non ha trovato, però, alcun accoglimento a Pyongyang, dato che il regime resta convinto che nel caso accettasse tali richieste potrebbe poi in futuro trovarsi completamente sguarnito in caso di attacco, come accaduto alla Libia.
Come vanno dunque intesi alcuni comportamenti provocatori da parte della Corea del Nord?
Da quanto detto sinora dovrebbe apparire chiaro come molteplici siano le giustificazioni della condotta aggressiva – basata sul continuo sventolio dell’arsenale nucleare e dei missili – della Corea del Nord in politica estera.
Il primo è relativo alla sopravvivenza del regime, e quindi della inossidabilità della famiglia Kim. L’aggressività, quindi, viene presentata come una forma di risposta alla minaccia che storicamente incombe sulla Corea del Nord, rappresentata dall’ostilità degli Stati Uniti;
il secondo è dato dalla legittimazione interna da parte della leadership, il cui prestigio è direttamente legato, in modo propagandistico, alla capacità di reagire alle sollecitazioni degli attori esterni (da qui, solo per fare un esempio, discendono le numerose immagini che ritraggono Kim Jong Un sul sito dei test missilistici; egli, fondamentalmente, viene ritratto come l’unico ad avere la qualifica di difensore estremo del suo paese);
il terzo è rappresentato dal lustro che gli armamenti danno al regime stesso. Questi fondamentalmente dimostrano come la Corea del Nord abbia raggiunto un livello tecnologico considerevole e, quindi, il paese deve essere preso tremendamente “sul serio”; ciò, inoltre, costituisce una sorta di immunità nei confronti di qualunque risposta di qualsiasi altro attore e una fonte di pressione verso la comunità internazionale.
Qual è il modo migliore per raggiungere i propri obiettivi?
Una delle metodologie preferite dai Kim, visibile peraltro anche da ciò che sta accadendo in queste ultime settimane, con la ripresa dei lanci dei missili balistici, è quella definita brinkmanship, che in italiano potrebbe essere tradotto più o meno come “tiro alla fune”. Questa strategia, in cui i nordcoreani sembrano essersi specializzati, prevede un sostanziale innalzamento della tensione, a seguito di un test nucleare o del lancio di missili balistici a medio o lungo raggio, e la creazione di una crisi al fine di attrarre l’attenzione dei principali attori regionali e mondiali, che, come si diceva in precedenza, si rendono conto del fatto che sia molto più conveniente tentare di intavolare una qualche forma di dialogo o fare delle concessioni piuttosto che rischiare di scatenare un conflitto su larga scala sulla penisola coreana. Normalmente, quindi, dopo aver contribuito al vertiginoso innalzamento della tensione, la Corea del Nord pone delle precondizioni, che rappresentano il vero obiettivo del regime, facendo richiesta di una qualche compensazione o di maggiori concessioni prima di tornare, eventualmente, al tavolo delle trattative. Queste aperture, tuttavia, sono normalmente solo “artificiali” e servono a far sì che gli altri attori rimangano “agganciati”. Nel caso si intavoli realmente una trattativa, per la Corea del Nord è molto semplice rintracciare una via di fuga – normalmente procedendo ad accusare la Corea del Sud o gli Stati Uniti di aver in qualche modo alimentato nuove tensioni – e il ciclo, magari dopo un periodo di quiescenza, tenderà a riproporsi nuovamente. È ovvio che, nonostante la pericolosità di questa spirale, gli attori siano meno desiderosi di entrare in una situazione di conflitto, dato che i costi sarebbero più alti di qualunque altro esito. Ciò nonostante, per alcuni, in un dato momento, le richieste della controparte potrebbero rivelarsi talmente inaccettabili da preferire un conflitto a qualunque forma di negoziato. Questo ovviamente è un pericolo che incombe costantemente sulla penisola coreana.
Antonio Fiori, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, ha dedicato una parte significativa dei suoi studi alle relazioni intercoreane e alle dinamiche interne al regime nordcoreano. Da oltre un decennio insegna stabilmente in varie università della Repubblica di Corea. Tra le sue pubblicazioni più recenti: The Routledge Handbook of Europe-Korea Relations (2022) e The Korean Paradox: Domestic Political Divide and Foreign Policy in South Korea (2019), entrambi pubblicati da Routledge, e Dallo sviluppo economico alla solidarietà sociale. Sanità e Pensioni in Corea (Mimesis, 2018).