
Soprattutto a partire dal discorso dell’ascensione del maggio 1927, il regime esprimeva apertamente la volontà di dare una valenza politica ai comportamenti privati, cercando di modellare la mascolinità, così come la femminilità, in base alle esigenze dello Stato. Da questo punto di vista la prima necessità era quella di favorire in ogni modo la crescita demografica e di adeguare la morale tradizionale all’etica fascista. La virilità andava dunque dimostrata attraverso la capacità procreativa e combattiva.
Con l’accelerarsi della spinta totalitaria al completo rinnovamento del popolo italiano, l’intento di realizzare questa rivoluzione antropologica diventava sempre più assillante. Lo stile di vita era ritenuto a tal fine un elemento indispensabile, come risulta evidente dallo sforzo maniacale con cui il segretario del partito Achille Starace cercava di uniformare ogni aspetto della vita dei cittadini, attraverso l’imposizione di un costume fascista. L’obbligo di cimentare la propria virilità con prove ginniche, l’introduzione del voi, del saluto romano, del passo d’oca e delle uniformi per i dipendenti pubblici, erano tutti strumenti per colpire la mentalità borghese e dare una tempra virile e marziale ai maschi italiani. La tassa sul celibato, l’impossibilità di ottenere avanzamenti di carriera in assenza di un passato da combattente, o persino il rischio di incorrere in provvedimenti disciplinari per chi assumeva comportamenti sessuali non conformi alla norma, servivano dunque a delineare un modello ideale di uomo. I prestiti matrimoniali e i premi di natalità, gli onori e le promozioni erano invece utili incentivi per indurre i cittadini a conformarsi a questo modello, che del resto in molti casi era già stato interiorizzato a prescindere dagli sforzi fatti dal partito.
Con l’inasprirsi delle tensioni internazionali, la necessità di creare un popolo di guerrieri si faceva impellente, dando all’estetica della politica una connotazione ancor più marziale. Gli esempi in tal senso sono numerosi: dal recupero dello squadrismo alla promozione del cameratismo militaresco, dal culto dello sport all’esibizione di forza fisica. Era soprattutto Mussolini a veicolare quest’immagine virile dell’uomo nuovo, o per meglio dire del nuovo Cesare. Una rappresentazione del duce che dalla guerra d’Etiopia in poi era sempre più incentrata sulla rigidità del corpo, dai tratti aggressivi e truci, con lo sguardo dritto, la mascella volitiva, il petto in fuori, le mani sui fianchi e le gambe divaricate. La figura del leader politico sportivo si legava a quella del soldato, mostrando anche nelle situazioni comuni tratti di forza e potenza.
Bisogna però tenere in considerazione anche un altro aspetto estremamente importante per comprendere il fascismo, vale a dire il suo legame con la rispettabilità borghese. È stato lo storico tedesco George Mosse a mettere in evidenza questo stretto rapporto, alla cui base vi è l’intento nazionalista di conformare e disciplinare i corpi e i comportamenti. Mosse ha efficacemente utilizzato il concetto di «rivoluzione antiborghese fatta da giovani borghesi», per mettere in risalto la critica ad alcuni valori della borghesia e il tentativo al tempo stesso di addomesticare lo spirito rivoluzionario, richiamandosi proprio alla rispettabilità borghese. Il modello di uomo nuovo fascista, e anche nazista, coincide del resto solo in parte con quello dello squadrista, il cui ribellismo deve essere ricondotto all’ordine per trasformarlo in una persona rispettabile, senza però costringerlo a dismettere la camicia nera a rinunciare del tutto al suo attivismo guerriero. Quello che a mio avviso è l’elemento più caratteristico del fascismo in rapporto alla morale sessuale e all’immagine dell’uomo è proprio questa compenetrazione tra rivoluzione e conservazione, e questa duplice connotazione della rispettabilità e della mascolinità che permette di ottenere il consenso in fasce distinte della popolazione e di modulare in modo pragmatico e strategico il proprio messaggio politico a seconda dei diversi interlocutori e delle differenti contingenze. L’immagine stessa di Mussolini ci mostra chiaramente questa ambivalenza di fondo: da una parte il giovane ribelle in camicia nera, l’impavido condottiero in divisa e l’insaziabile amante, e dall’altra il borghese in bombetta, l’accorto statista e il buon padre di famiglia. Una sintesi dunque problematica tra il modello idealtipico del guerriero forte e coraggioso, assetato di sangue e in preda al proprio ardore virile, e quello del borghese frugale, laborioso, attento al decoro e al controllo delle passioni. Questa duplicità di modelli è infine dovuta anche alle difficoltà incontrate dal regime nel realizzare quella rivoluzione antropologica degli italiani, capace di sostituire la rispettabilità borghese: prosaica, domestica, civile e pacifica, con quella in uniforme: eroica, marziale, militare e violenta.
Quale atteggiamento ebbe, nei confronti dell’omosessualità, il regime?
Il modello di uomo nuovo voluto dal fascismo veniva edificato anche attraverso la rappresentazione corporea dei suoi militanti, e in quest’ottica la contrapposizione politica con i rivali assumeva una connotazione antropologica, che finiva per fare del corpo del nemico l’emblema di una diversità inconciliabile tra tipi umani contrapposti (magro/grasso; soldato/imbelle; giovane/vecchio; dinamico/sedentario; virile/effeminato; forte/debole; sano/malato). Tipo e controtipo diventavano elementi indispensabili di appartenenza e al tempo stesso di codificazione delle norme, attraverso la stigmatizzazione e repressione di ogni comportamento non conforme all’ideologia e attraverso l’imposizione omologante di rigide asimmetrie di genere tra uomo e donna, tra comportamenti sessuali leciti e illeciti, normali e anormali.
Chiunque si allontanava dal modello ideale di uomo proposto dal regime era dunque ritenuto un individuo pericoloso e meritevole di essere escluso dal consorzio civile. La matrice razzista di questo approccio era evidente, in quanto portava alla esclusione e persecuzione di chi veniva sotto qualunque aspetto (politico, morale, sociale, sessuale, religioso e razziale) considerato diverso. Tant’è che, già a partire dal 1926, con l’entrata in vigore del confino di polizia, si attuava in Italia la discriminazione verso quei gruppi di persone tristemente noti perché nei campi di concentramento nazisti erano identificabili da triangoli di diversi colori, cuciti sulle loro divise di prigionieri. Politici, mafiosi, omosessuali, prostitute, testimoni di Geova, rom, sinti, iugoslavi erano destinati nelle colonie e qui tenuti separati e facilmente distinguibili. Ad essere puniti non erano gli autori di determinate azioni criminali, ma alcune persone specifiche, assunte a simbolo vivente di un tipo umano particolare da eliminare dal contesto civile.
Nel caso dell’omosessualità, proprio il canone di mascolinità, totalmente incentrato su una rigida divisione dei generi e sull’esaltazione della marziale e aggressiva potenza virile, portava a circoscrivere l’azione repressiva solo ai pederasti passivi, i “femminella”, con movenze e ruolo sessuale di donna; non sanzionava invece gli attivi il cui comportamento era ritenuto del tutto normale e conforme al cliché dell’uomo che conquista e possiede. Insomma, le forze di polizia identificavano il pederasta come un individuo sessualmente passivo; non a caso, per accertare l’omosessualità degli incriminati, diversi questori ricorrevano all’esame rettale, così da avere una prova “oggettiva” della loro «abitudine al coito anale». L’impronta lombrosiana, secondo la quale il corpo non era altro che lo specchio dell’indole e dell’anima delle persone, continuava ad essere profondamente radicata, e portava alla codificazione di tutta una serie di caratteristiche fisiche necessarie per individuare l’omosessualità delle persone. Per il fascismo non era dunque tanto importante l’orientamento sessuale degli individui, quanto la loro passività ed effeminatezza: più che l’omosessualità a destare preoccupazione era l’assenza di virilità. Questa rigida divisione di genere era talmente radicata nella società da essere interiorizzata dagli stessi omosessuali; anche per la maggior parte di loro la sessualità doveva configurarsi inevitabilmente nei due ruoli prestabiliti: quello dominante e attivo del maschio e quello subalterno e passivo della femmina.
In quale contesto culturale l’omosessualità assunse i connotati di una vera e propria categoria repressiva?
Proprio il maggior controllo sulla sessualità, unito alla rigida determinazione dei ruoli di genere e del canone di mascolinità, tendeva inevitabilmente ad allargare la categoria della devianza, facendo diminuire la tolleranza verso coloro che non si conformavano all’immagine dell’uomo imposta dal regime. Le istituzioni totali – dal carcere al manicomio, dal confino all’istituto correzionale – dovevano servire ad allontanare dalla società e a rigenerare gli individui “anormali”, costretti a subire l’emarginazione per la loro diversità sessuale. L’omosessuale era del resto considerato un pericoloso perturbatore dell’ordine nazionale: metteva in discussione i valori fondamentali della morale fascista; ledeva il prestigio della nazione con atti universalmente considerati perversi; svolgeva una pericolosa opera di corruzione nei confronti di chi lo avvicinava; minacciava la potenza e l’avvenire della patria, sottraendosi al dovere della procreazione; attentava all’unità della famiglia; minava la coesione interna del paese con la confusione dei ruoli sessuali. Un intervento troppo vistoso contro coloro che violavano il canone di virilità rischiava però di sortire un effetto negativo, dando visibilità a un comportamento così disdicevole. Non a caso la proposta di introdurre nel Codice Rocco un articolo (art.528) contro le relazioni omosessuali veniva cassata in quanto «per fortuna ed orgoglio dell’Italia, il vizio abominevole, che vi darebbe vita, non è così diffuso, tra noi, da giustificarne l’intervento del legislatore». Quella fascista risulta quindi un’attività volta a colpire ogni “anomalia” sessuale, senza suscitare scandalo e senza dare visibilità all’azione intrapresa. Questa strategia dell’occultamento era molto efficace nel reprime la “pederastia” (come era definita al tempo) perché ricalcava in qualche modo l’atteggiamento cattolico in base al quale l’ignoranza del vizio è il miglior mezzo per combatterlo. Gli strumenti impiegati variavano perciò a seconda delle circostanze e andavano dalla condanna alla censura, dalla derisione all’emarginazione, dall’esclusione alla negazione dell’omosessualità. L’azione diretta, tramite i provvedimenti di polizia, veniva invece riservata soprattutto a quegli omosessuali il cui comportamento risultava uno scandalo per la società e per il regime. È poi significativo che persino al confino gli omosessuali tendessero ad essere emarginati e separati dagli altri confinati, o mandati a Son Domino alle Tremiti, in un’isola riservata appositamente agli «arrusi».
Insomma, la preoccupazione del fascismo di tutelare la morale pubblica e di mantenere dei rigidi canoni di rispettabilità, portava ad essere estremamente severi contro ogni persona che esprimeva apertamente la sua omosessualità; mentre vi era molta più tolleranza verso coloro che, attenti a salvaguardare un’immacolata immagine pubblica, non facevano trapelare le proprie inclinazioni sessuali. Solo chi manifestava la sua “depravazione” era ritenuto un pericolo nazionale e una minaccia per l’avvenire della patria. Per gli omosessuali i problemi causati dalla propria “diversità” dipendevano dunque dal rifiuto o dall’incapacità di uniformarsi all’unica linea di condotta possibile per essere accettati: evitare scandali, vivere in modo appartato, oppure esibire un’apparenza di maschia virilità.
In che modo la repressione dell’omosessualità si tradusse in una copertura per moventi politici?
L’omosessualità era un crimine così discrezionale da favorire il ricorso più strumentale alla repressione o all’indulgenza. L’accusa di pederastia, vera o presunta, costituiva perciò un’utile arma per la battaglia politica, da utilizzata per destituire personaggi politicamente scomodi, anche, come nel caso di Augusto Turati, se ai massimi gradi della gerarchia di partito. Insinuazioni del genere non erano d’altronde infrequenti, dal momento che, soffocato il libero confronto politico all’interno del Pnf, l’arma della diffamazione si allargava a macchia d’olio. La critica alla politica liberal-democratica, paralizzata dalla contrapposizione tra partiti e correnti, non aveva eliminato i conflitti tra i gerarchi che si combattevano però con altre modalità. La necessità di non fare emergere gli scontri favoriva infatti il ricorso a lettere anonime, documenti segreti e trame occulte, dietro le quali si celavano le vecchie contrapposizioni tra fazioni. Insomma, la battaglia politica si trasformava da dibattito pubblico su programmi, orientamenti e valori in accuse sotterranee sulla vita privata; il confronto tra le idee politiche lasciava posto allo scontro sulla condotta morale. Rappresentare il proprio avversario con un’immagine opposta a quella del perfetto gerarca fascista era perciò utile per vincere una disputa, scalzare un rivale, screditare un possibile antagonista. In questa cornice l’omosessualità diventava un’importante arma politica da utilizzare nelle competizioni personali per i posti di comando, contro chi si discostava dal canone di mascolinità prescritto dal regime. Tanto che, in alcune circostanze, persino Mussolini si serviva di dossier e di segnalazioni anonime, scrupolosamente compilati grazie alle informazioni ricevute dalla Polizia Politica, per destituire o rendere più malleabile un gerarca.
Al tempo stesso, portato ad attribuire priorità assoluta alle considerazioni di ordine politico, il fascismo chiudeva un occhio sulla condotta non ortodossa di qualche funzionario con ruoli vitali all’interno dell’organizzazione dello Stato fascista. Chi riusciva a condurre una vita apparentemente integerrima poteva tranquillamente evitare problemi per il suo orientamento omosessuale. Esemplare il caso di due esponenti ai vertici della gerarchia fascista, il capo della polizia Carmine Senise e il responsabile della censura teatrale Leopoldo Zurlo. I due, vivevano insieme ed erano uniti sin dall’infanzia da un legame che andava al di là dell’amicizia. Continue erano le insinuazioni sulla natura del legame tra Senise e Zurlo. Soprattutto nel 1943, quando aumentavano i sospetti sulla fedeltà al regime del capo della polizia e si intravedeva ormai in modo sempre più evidente l’esito catastrofico della guerra e l’imminente caduta del fascismo, le dicerie si trasformavano in aperte accuse. Nonostante le tante insinuazioni sulla condotta particolare di questi due importanti funzionari, celibi, conviventi e lontani dallo stereotipo maschile allora diffuso, nessun provvedimento veniva preso nei loro confronti. All’aspirazione totalitaria a trasformare gli italiani in un popolo virile si contrapponeva l’utilità di continuare a usufruire della collaborazione di funzionari così utili al regime. I sospetti sulla presunta omosessualità del responsabile della censura teatrale e del capo della polizia si infrangevano sul muro della loro intoccabilità politica, confermando ancora una volta quanto i precetti morali del fascismo potessero essere evasi a seconda dell’estrazione sociale e del ruolo politico delle persone.
Chi furono le maggiori vittime dell’uso politico dell’accusa di pederastia?
L’episodio più famoso di uso politico dell’accusa di omosessualità per ricattare e condizionare un personaggio illustre è sicuramente quello del principe ereditario Umberto di Savoia. La vicenda merita particolare attenzione, non tanto per le indiscrezioni scandalistiche sulla vita sessuale del figlio di Vittorio Emanuele III, ma per far luce sui delicati rapporti tra monarchia e fascismo. Mussolini aveva infatti incaricato la polizia politica di sorvegliare il principe e di riservare particolare attenzione alle sue abitudini sessuali, per poter utilizzare queste informazioni al momento opportuno, in modo da screditare la monarchia e costringerla ad accettare le richieste del fascismo. Alla morte di Vittorio Emanuele III, l’omosessualità di Umberto poteva inoltre risultare un’arma utile per una successione dinastica più favorevole al regime o per liquidare definitivamente la monarchia. Il dossier dell’erede al trono era perciò così importante da indurre il duce a custodirlo nella sua borsa di cuoio nella precipitosa fuga verso la Svizzera, dopo la liberazione di Milano, probabilmente con la convinzione di usarlo per delegittimare il nuovo re d’Italia o per vendicarsi del “tradimento” subito. Al momento della cattura di Mussolini il fascicolo, contenente «il rapporto dell’agente di P.S. Vincenzo Beneduce sul tentativo di Umberto di commettere con lui atti di invertimento sessuale», cadeva nelle mani dei partigiani. Nel periodo della luogotenenza, finita la guerra e con il referendum istituzionale ormai alle porte, la monarchia, già da tempo a conoscenza dell’esistenza di questo compromettente dossier, cercava quindi di venirne in possesso. La delicata questione veniva risolta da Falcone Lucifero, il ministro della Real Casa, che riusciva ad ottenere i fascicoli dell’Ovra sui membri della famiglia reale e su Umberto di Savoia. Era lo stesso ministro degli Interni, Giuseppe Romita, a mostrare a Lucifero «le due voluminose cartelle» sull’erede al trono, una delle quali conteneva le notizie più importanti e compromettenti sulle abitudini sessuale del luogotenente. Il 4 aprile del 1946 la vicenda poteva dunque dirsi finalmente conclusa, perché il dossier sulla presunta omosessualità di Umberto veniva inviato dal capo della polizia al ministro della Real Casa che si affrettava a bruciarlo nel suo caminetto.
Lorenzo Benadusi, dopo aver insegnato negli Stati Uniti alla Brown University e all’Università di Bergamo, è attualmente titolare della cattedra di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Roma Tre. Membro della Royal Historical Society e del comitato scientifico di diverse collane editoriali di storia, si è dedicato in particolar modo agli studi di genere. Le sue ricerche hanno riguardato la storia della sessualità, la storia militare e la storia del giornalismo, con particolare attenzione all’Italia liberale e fascista. Oltre a numerosi saggi e articoli, ha recentemente pubblicato: Respectability and Violence: Military Values, Masculine Honor, and Italy’s Road to Mass Death, University of Wisconsin Press, Madison 2021 [traduzione di Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia, 1896-1918, Feltrinelli, Milano 2015]; insieme a Daniela Rossini e Anna Villari, 1917, L’inizio del secolo americano. Politica, propaganda e cultura in Italia tra guerra e dopoguerra, Viella, Roma 2018; insieme a Paolo L. Bernardini, Elisa Bianco e Paola Guazzo, Homosexuality in Italian Literature, Society, and Culture, 1789-1919, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge 2017; insieme a Giorgio Caravale (eds.), George L. Mosse’s Italy. Interpretation, Reception, and Intellectual Heritage, Palgrave, New York 2014.