
Chi furono i maggiori esponenti delle due scuole di pensiero?
Il nazionalismo di stampo protezionista poté contare sull’opera di Alfredo Rocco: benché giurista, egli attaccò frontalmente l’economia pura, spingendo il movimento nazionalista a crearsi un linguaggio economico proprio. Tra gli economisti in senso stretto o anche solo scrittori di economia, si annoverano autori come Gino Arias, Filippo Carli, Corrado Gini, destinati a grandi fortune scientifiche durante il ventennio fascista. Un ruolo di primo piano svolse una rivista finanziata dal grande capitale italiano: La rivista delle società commerciali, che poi diventerà la Rivista di politica economica. Per quanto riguarda il nazionalismo liberista vanno menzionati economisti di caratura mondiale come Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni ed Enrico Barone. Essi misero a punto quella logica economica che ancor oggi prevale a livello didattico ed accademico, ma furono anche economisti militanti, impegnatissimi sul piano politico. Mussolini amava definirsi allievo di Pareto e fece nominare Pantaleoni al Senato del Regno, da cui venne difeso in occasione del delitto Matteotti. Questi economisti, insomma, appoggiarono prima il nazionalismo e poi il fascismo. Certo: scomparvero quando il fascismo era agli esordi, tra il 1923 e il 1924. Ma gran parte degli economisti che si ispiravano al loro pensiero appoggiarono il regime, cercando di tenerlo ancorato a quella che possiamo definire, e si autodefinì, la “destra fascista”: cioè quel pensiero economico e politico che guardava con estrema diffidenza qualsivoglia aspirazione sociale del fascismo stesso.
Quali elementi di convergenza e quali invece di divergenza è possibile ravvisare tra le due correnti di pensiero?
I motivi di divergenza erano di natura teorica, perché i protezionisti tentarono di creare una nuova dottrina economica, precipuamente fascista: la dottrina corporativa. L’altra scuola, invece, fu recisa nel negare qualsivoglia fondamento a questo tentativo. Come non esiste una matematica o una fisica fascista, così dal loro punto di vista non poteva esistere una scienza economica fascista. Per quanto il rapporto tra Stato e mercato avesse subito e stesse subendo profonde trasformazioni, la scienza economica era perfettamente in grado di analizzare questo passaggio epocale, senza alcun bisogno di rifondazione e di rinnovamento. Inoltre indugiava assai meno dell’altra scuola di pensiero nella retorica volta a magnificare il fascismo come incarnazione degli interessi della nazione: non aveva insomma timore nel mostrare con precisione le classi sociali che avevano trovato nel fascismo un baluardo del loro potere. Sarebbe un errore pensare che la lotta di classe fosse una chiave di lettura della contemporaneità propria ai soli marxisti: essa pervase tutta la letteratura economica del tempo, anche quella nazionalista e liberista. I corporativisti cercarono così di dimostrare come il fascismo curasse interessi generali e interclassisti.
I motivi di convergenza erano moltissimi: l’interventismo e il bellicismo imperialista; la lotta senza quartiere alla democrazia politica e al movimento socialista, sia esso quello riformista o quello rivoluzionario; la critica dello Stato liberale italiano e del suo precipuo statalismo; la radicale opposizione a qualsivoglia politica volta a redistribuire ricchezza, come la progressività delle imposte; la ferma opposizione a qualsivoglia tentativo di democratizzare l’azienda dando potere ai lavoratori; il pieno appoggio dato allo squadrismo fascista. Condivisero anche l’idea di una trasformazione corporativa delle istituzioni statali. Anche la Carta del lavoro costituì un momento di convergenza: mentre formalmente essa sanciva la libertà sindacale, difesa dai nazionalisti liberisti, dall’altra parte solo il sindacato fascista controllato dallo Stato poteva firmare i contratti collettivi. Naturalmente, entrambe le scuole negavano il diritto di sciopero.
Come si espresse il nazionalismo corporativista?
Il nazionalismo corporativista si cimentò in ogni aspetto della vita intellettuale: da quella scientifica, a quella divulgativa e militante. Fu un poderoso tentativo di costruire una cultura e una dottrina precipuamente fascista. E non a caso questo tentativo ebbe larga eco internazionale. Certo, scontava una difficoltà enorme sul piano scientifico: poiché insisteva nel presentarsi come sistema politico-statuale in grado di salvare il capitalismo (significativa in proposito la voce “fascismo” scritta da Mussolini per la Enciclopedia Treccani), era poi difficile avere un punto di vista scientifico del capitalismo stesso per davvero autonomo dalla economia liberale. Difficoltà che, come notarono gli economisti ancorati alla scuola liberista, il socialismo e il comunismo non avevano, avendo come punto di riferimento il pensiero di Marx. Una seconda difficoltà era di natura pratica e storica: la nascita dello Stato imprenditore che si realizzò durante il fascismo fu dettata da contingenze esterne, non certo da propositi ideologico-programmatici e fu attuata secondo una logica che nulla aveva a che vedere con le teorie corporative. Anzi, la possibilità che lo Stato imprenditore potesse costituire le basi per un salto di sistema spinse tra i più significativi esponenti del corporativismo a valorizzare gli insegnamenti di Pantaleoni.
Quali politiche propugnò il nazionalismo liberista?
Per essere sintetici ed utilizzare termini attuali, potremmo dire che il nazionalismo liberista propugnava il trinomio: austerità, privatizzazioni, fine della inefficiente democrazia parlamentare. Quando il rapporto tra Stato e mercato subirà un profondo mutamento, in conseguenza della Grande Crisi, il liberismo si farà guardiano della libera iniziativa.
Quale eredità lasciò la dialettica tra corporativisti e liberisti?
La dialettica tra liberismo e protezionismo contraddistingue gran parte della storia delle idee e dei fatti economici dell’Otto e del Novecento: essa assume una forma particolare tra le due guerre mondiali e soprattutto in Italia. Guardiani dell’ordine borghese nei confronti dei pericoli della rivoluzione proletaria, i corporativisti cercarono di assorbire le spinte del movimento operaio all’interno dell’intelaiatura politica e sociale del regime. Come scriveva Pareto, il fascismo doveva porsi l’obiettivo non solo della repressione, ma anche della costruzione del consenso. I liberisti si batterono perché queste forme fossero le più effimere possibili e affinché i capisaldi del capitalismo non venissero indeboliti aprendo la strada ad una qualche forma di salto di sistema. La dialettica tra queste scuole insegna invita, dunque, a non avere una idea astratta e manualistica del nazionalismo e del fascismo, appiattendoli a un generico statalismo protezionista e dandone una definizione statica e dottrinaria.
Luca Michelini è professore ordinario di Storia delle dottrine economiche presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Dirige la rivista Il pensiero economico italiano.