“Il museo del mondo” di Melania Gaia Mazzucco

Melania Mazzucco, Lei è autrice del libro Il museo del mondo, uscito in edizione rinnovata per Einaudi: se dovesse identificare un fil rouge che lega tra loro le opere da Lei raccontate, quale potrebbe essere?
Il museo del mondo, Melania Gaia MazzuccoUn museo, e ancor più una collezione, come il Museo del mondo, rispecchiano prima di tutto il gusto di chi li compone. Quindi la sua storia, l’epoca in cui vive, la sua formazione, le sue esperienze di vita e le sue scelte artistiche: in questo caso, avendo scelto di includere solo opere da me viste di persona coi miei propri occhi, anche i miei viaggi e i miei incontri. Inoltre il Museo del Mondo è un museo sognato, non posseduto: dunque nasce dal ricordo che le opere hanno lasciato in me, e dal desiderio di rivederle. Col passare degli anni, si tende a dimenticare o confondere tra loro le opere d’arte che abbiamo visto – così come si dimenticano e sbiadiscono le letture che abbiamo fatto. Ciò che sopravvive al setaccio del tempo, che resta indelebile nella memoria, è ciò che conta – ciò che ci riguarda profondamente, perché ha toccato la nostra sensibilità, incrociato gli interessi più segreti e stimolato domande o risposto ad alcune che ci assillano. Che possono essere tematiche (come si rappresentano la bellezza, il desiderio, la malinconia, oppure il brutto, l’insignificante, il triviale), ma anche formali. Perché privilegiare un determinato colore, o tono, oppure come combinare colori diversi.. O ancora l’invenzione, l’inquadratura, la profondità di campo, la pennellata, e così via. Può essere un particolare indimenticabile (penso al piede sulla staffa di san Giorgio del Pisanello, alla nuvola antropomorfa di Correggio), o l’audacia del tentativo di rappresentare ciò che non è rappresentabile, l’infinito, il passaggio nella morte, Dio. Ma solo dopo aver composto tutto il Museo del Mondo mi sono resa conto che molte di queste 52 opere si richiamano, a volte si citano o sembrano rimare tra loro (penso all’orizzonte basso del Monaco sulla riva del mare di Friedrich e alle strisce di Marc Rothko), che gli artisti che io ho scelto amavano le stesse opere che amavo io (Soutine considerava la Sposa ebrea di Rembrandt il quadro più bello del mondo). Insomma, tutto si tiene, e più che un filo c’è una rete di fili che si intrecciano. Si può seguire il filo del corpo, il filo della luce, quello dell’ombra, quello della rivelazione (il momento in cui un artista diventa ciò che è), o della vecchiaia dell’artista, oppure il filo della direzione. Kandinsky mi ha insegnato che i quadri che hanno un movimento verso sinistra aprono al futuro e alla vita. Se guardate i quadri del Museo del Mondo, scoprirete, come ho scoperto io, che quasi tutti vanno proprio verso sinistra…

Nel Suo libro Lei cita Edvard Munch secondo cui «il racconto è lo scopo di ogni arte»: quando pittura e letteratura si incontrano?
Letteratura e pittura, parola e immagine, logos ed eidos non sono mai state in opposizione. La tradizione classica ci ha insegnato che la pittura è poesia muta, e la poesia pittura parlante, e questa concezione complementare e dialettica delle arti è sopravvissuta per millenni. Gli artisti si sono sempre ispirati a testi scritti, sacri o profani, e gli scrittori alle immagini. Inoltre spesso gli artisti stessi sono stati scrittori notevoli – sia come teorici (penso a Klee e Kandinsky), sia come poeti, drammaturghi, saggisti o narratori veri e propri. Penso a Michelangelo, forse il nostro più grande lirico del Cinquecento. A Leonardo, i cui fogli dei famosi codici sono palinsesti di disegni numeri e parole. O a Munch: ha lasciato un’eredità di testi che rivelano un poeta e uno scrittore degno dei suoi contemporanei Ibsen e Strindberg. Anche Kiefer, che pure lavora con i detriti della materia e con l’alchimia della trasformazione, interroga di continuo le parole dei poeti. Non dovrebbe stupire che uno scrittore si occupi d’arte o un artista di letteratura.

Quali tracce hanno lasciato in Lei le opere d’arte di cui racconta?
Al di là dell’esperienza estetica in sé, mi hanno insegnato a farmi delle domande sulla composizione di un’opera, di ogni opera e perciò anche della mia, che pure utilizza altri codici e altri linguaggi. Come selezionare il materiale avendo a disposizione uno spazio limitato, come scegliere cosa mostrare, alludere a ciò che è nascosto, o ignorare ciò che distoglierebbe l’attenzione. Come decostruire la cronologia della narrazione, immaginare la simultaneità, o utilizzare la memoria collettiva… Insomma, a essere più consapevole quando scrivo.

La presentazione di Maria al Tempio di Jacopo Tintoretto ha per Lei un valore speciale.
La Presentazione di Maria al Tempio di Tintoretto rappresenta per me qualcosa più di un quadro, ed è sicuramente l’opera che ha influenzato di più non solo il mio approccio all’arte, ma la mia vita stessa. La prima volta che l’ho visto, tanti anni fa, non sapevo neppure cosa raffigurasse, perché non conoscevo l’episodio dei Vangeli apocrifi che ne costituisce il soggetto, e in fondo sapevo poco del suo autore: qualche formula arida appresa sui libri al liceo (un pittore della Controriforma, un manierista…). Eppure la composizione ideata da Tintoretto (la scala, la donna di spalle, la bambina, il controluce) era così innovativa, così limpida e potente che il significato dell’opera era evidente persino a me. Quella visione primaria ha avuto due conseguenze. Da una parte sono stata spinta a studiare per capire meglio il pittore e la sua opera; dall’altra a cercare un modo nuovo di parlare e scrivere d’arte. Non col linguaggio iniziatico e vagamente esoterico degli specialisti, che mi ha sempre fatto sentire esclusa, come penso capiti a molti di noi; ma nemmeno con l’impressionismo sentimentale dei profani, che in fondo è altrettanto poco rispettoso degli artisti, del loro sapere e delle loro capacità. Che era insomma necessario trasformare la verginità dello sguardo in un’opportunità di conoscenza. È stato proprio ammirando il telero nella chiesa della Madonna dell’Orto che ho iniziato un percorso di ricerca verso il maestro Tintoretto e verso l’arte tutta che non si è mai concluso.

Artemisia Gentileschi, insieme a Suzanne Valadon e Georgia O’Keeffe, sono le uniche donne presenti nel Suo libro, 3 su 52 artisti: nell’arte vive più del resto l’oltraggio al genere femminile?
È vero, vi sono pochissime artiste nel mio Museo del Mondo. Ma non è un caso. La presenza così limitata di pittrici, pur nel Museo immaginato da una donna, non rispecchia tanto un gusto personale quanto la realtà storica del mondo dell’arte. Nel quale, più ancora che in quello della letteratura o della musica, le artiste hanno faticato ad essere accettate e riconosciute. Delle pittrici del mondo antico sono sopravvissuti solo nomi senza opere. In epoca moderna, con rare eccezioni, solo le figlie, le mogli o le sorelle dei pittori hanno avuto la possibilità di una formazione professionale e di raggiungere esiti qualitativamente rilevanti. Ma le loro opere spesso sono imitative, in quanto erano costrette a dipingere alla maniera del padre, del marito o del consorte. La stessa Marietta Tintoretta, figlia di Tintoretto, da me prediletta e cui ho dedicato il romanzo La lunga attesa dell’angelo e molti studi, è ricordata per copie delle opere del padre, o quadri che dall’opera del Maestro non si distinguono – tanto che oggi sono tutte perdute, o confuse nella generica produzione che va sotto il nome di “scuola di Tintoretto” o “bottega di Tintoretto”. Per questa ragione, fra le “old masters” ho incluso solo Artemisia Gentileschi, l’unica che sia riuscita a costruirsi un’identità autonoma e riconoscibile. Un criterio analogo (originalità, potenza espressiva, segno individuale) mi ha spinto a privilegiare Susanne Valadon tra le artiste attive nel tardo Ottocento. Quanto al Novecento, mi dispiace aver rinunciato a Sonia Delaunay, Meret Oppenheim e Marlene Dumas: ma una “collezione privata” non è un canone né un’antologia. Deve e vuole essere solo uno squarcio, un’ipotesi. E soprattutto una proposta, un laboratorio, uno stimolo per ogni lettore-visitatore a immaginare la propria collezione.

Tra le opere Lei spazia anche nell’arte sacra, come nel caso dell’Acheropita “non fatta da mano umana” o, come la definisce Lei stessa, l’«autoritratto di Dio».
Il Museo del Mondo non è stato concepito come esaustivo: non si proponeva di rappresentare tutti i generi di pittura, tutti i soggetti, tutte le scuole, eccetera. Si noterà per esempio la predilezione per i quadri di nudo – sia maschile che femminile. Ma è inevitabile che i vari generi siano quasi tutti rappresentati. Penso al ritratto, alla natura morta. Vi sono perciò anche svariate pitture di soggetto religioso. Come la Crocifissione di Issenheim, di Grünewald, che ho scelto perché, oltre a essere la più sconvolgente rappresentazione pittorica della morte di Cristo, ha una nobile tradizione letteraria: ne hanno scritto alcuni autori da me molto amati, come Elias Canetti, e sono state proprio le loro pagine a indurmi a viaggiare fino a Colmar per vederla. Ma il soggetto sacro che forse mi interessa di più è l’immagine di Dio. Conservo dozzine di fotografie e cartoline di affreschi, statuette, e miniature che raffigurano un Dio giovane, a volte glabro, molto diverso dal Vecchio Padre barbuto che ha finito per dominare la pittura e l’immaginario dei fedeli. È un Dio a immagine a somiglianza della sua creatura, Adamo. Ma tra tutte, la più perturbante è quella del Santissimo Salvatore dell’Acheropita. Benché l’icona si trovi a Roma, nel Sancta Sanctorum, uno dei luoghi più visitati della Capitale, e sia il Palladio della nostra città, pochi la conoscono (ed è stato per me motivo di gioia che molti lettori del Museo del Mondo mi abbiano scritto di essere andati a vederla, incuriositi, proprio dopo averne letto). Sarà l’antichità veneranda dell’oggetto, sarà la leggenda che vuole quel volto dipinto da Dio stesso (e dunque sia il suo autoritratto), sarà la distanza, imposta dalla cancellata, da cui ti è concesso contemplarlo, sarà il sarcofago d’argento che lo custodisce e il luccichio delle pietre preziose nella penombra, saranno gli occhi di Cristo spalancati su te che guardi: per me l’icona del Santissimo Salvatore è uno dei pochi manufatti artistici capace di trasmettere il brivido del Mistero della presenza divina, insomma il senso del sacro.

Quale segreto nasconde l’“Isola dei morti” di Böcklin che Hitler volle comprare a tutti i costi?
In questi mesi vivo in Svizzera, perché insegno letteratura italiana al Politecnico di Zurigo. Ho così avuto modo di tornare in alcuni musei elvetici. Fra questi, lo straordinario Kunstmuseum di Basilea, che conserva la versione del 1880 dell’Isola dei Morti di Böcklin, che avevo inserito nel Museo del mondo. Osservando di nuovo il quadro dopo molti anni, mi sono confermata nell’idea che il suo segreto sia molto semplice. E’ la rappresentazione della morte più consolante mai dipinta. Del resto Böcklin l’aveva immaginata proprio per questo – per far “sognare” una giovane donna che aveva appena perduto il marito. Il quadro, più grande di come lo ricordavo, è una superficie che attira come uno specchio. In perfetto equilibrio fra oscurità e luce, tra il mistero dell’acqua e l’inquietudine della tenebra. Tutto parla della morte, ma la luce bianca che emana il fantasma (o il morto) sulla barca è un riverbero della vita che finisce, e impedisce alla notte di vincere. E poi ci sono l’isola, la solitudine, l’infinito. Hitler aveva scelto Böcklin come campione della pittura germanica, ma al di là dei motivi nazionalistici, immagino che guardasse questo quadro come un qualunque spettatore, e lo volesse proprio per le ragioni per cui tutti lo amiamo. Era come possedere un talismano contro la morte.

A quali opere, tra quelle da Lei raccontate, si sente più legata?
Della Presentazione di Maria al Tempio di Tintoretto ho detto sopra. A quel telero – che peraltro è ancora a Venezia, nella stessa chiesa per cui Tintoretto l’ha dipinto, il che gli conferisce un valore inestimabile, di monumento al Tempo e alla Durata – devo tutto ciò che so dell’arte e del modo di raccontarla. Ma tutti i quadri del Museo del Mondo hanno un significato che oltrepassa il loro valore artistico, e li ho scelti proprio per questo. Tuttavia, se devo elencarne solo qualcuno, ricordo il Cane di Goya, le Aringhe affumicate di van Gogh, la Morte di Procri di Piero di Cosimo, e poi i quadri delle tre K – Kandinsky, Klee e Kiefer.

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