
Cosa significò il movimento del ’77 nella politica italiana?
Per quanto numericamente contenuto, il radicalismo nelle parole d’ordine e nei comportamenti esplicitò – accanto ad altri segnali, emersi già con il referendum sul divorzio del 1974 e in successive occasioni – la crisi di rappresentanza, e in parte di legittimità, che aveva investito il sistema politico italiano. Adesso essa non riguardava soltanto la Democrazia cristiana e i partiti di centro, la cui relativa stabilità elettorale non poteva nascondere la debolezza di prospettive politiche e l’incapacità di governare la crisi del paese. Riguardava anche i partiti della sinistra, e in particolare il Pci, che alle aspettative nei suoi confronti, manifestatesi nel suo crescente successo elettorale, pareva rispondere anzitutto con un accordo politico di vertice, che peraltro lo metteva in una posizione subordinata e finiva per tradire proprio quelle aspettative di cambiamento invece assai diffuse nella società civile, nel mondo del lavoro e in parte dei ceti medi cosiddetti “riflessivi”. Il ’77 segnalò con la forza della disperazione questa crisi, aprendo un clamoroso conflitto a sinistra, senza peraltro a sua volta mostrarsi capace di costruire nuove forme di rappresentanza, ma anzi, al contrario, manifestando la tendenza a eludere la questione e a rinchiudersi in se stesso.
Negli anni Settanta esplosero la violenza politica e i fenomeni eversivi, sia di destra che di sinistra.
La storia della violenza politica e dell’eversione neofascista, stragista e golpista, così come del consolidarsi di organizzazioni della sinistra radicale dedite alla “propaganda” e poi alla lotta armata o al terrorismo che dir si voglia, è lunga e ha molteplici radici, che risalivano in parte agli anni Sessanta e ripresero vigore nei primi anni del nuovo decennio. Cause, motivazioni, pratiche presenti ben prima del 1977. La ripresa di una larga mobilitazione giovanile nel ’77 fu l’occasione perché quei progetti di violenta trasformazione riprendessero forza e alimentassero in parte il movimento, nel tentativo di imporre la propria egemonia. Il movimento non prese le distanze dalla violenza, considerata in varie sue modalità una legittima forma di azione politica, di contro alla violenza dei neofascisti e più genericamente alle costrizioni del potere istituzionale e sociale diffuso. Peraltro, la competizione tra i progetti affidati alla violenza di massa, di gruppo o clandestina e l’evidenza dei limiti intrinseci a quegli stessi progetti, oltreché la risposta delle forze dell’ordine, finirono per svuotare il movimento dall’interno e per dividerlo tra quanti ‘tornavano a casa’, quanti aprirono una seria riflessione sul significato della violenza e quanti invece imboccarono la strada breve, ma drammatica, del terrorismo diffuso.
Quali diverse articolazioni territoriali ebbe il movimento?
Anche se siamo portati a identificare il ’77 anzitutto con la realtà bolognese, il movimento fu eminentemente policentrico. Non solo perché molta della sua cultura arrivò anche nelle piccole città di provincia, dove però non ci fu una consistente mobilitazione. Ma perché – come e forse più di quanto era già avvenuto nel ’68 – assieme a molti tratti comuni, nelle diverse città in cui si articolò il movimento del ’77 (oltre a Bologna ricordiamo almeno Torino, Milano, Genova, Padova, Firenze, Roma, Napoli) diverse furono sia le esperienze di partenza, e dunque il peso delle diverse componenti e delle relative culture e progettualità, sia i contesti che esprimevano le figure sociali che confluivano ed erano protagoniste del movimento stesso. Una diversità che solo in parte rimanda al diverso peso, peraltro declinante, del mondo operaio, e che piuttosto chiama in causa le tradizioni politiche locali, il rapporto tra università e città, la presenza di aggregazioni giovanili nei quartieri, e altre variabili ancora.
In che modo il movimento seppe anche fare ricorso all’ironia e al paradosso?
La pratica diffusa e talora l’insistita ricerca dell’ironia e del paradosso erano la manifestazione di uno spirito dissacratore profondamente radicato nel movimento. Non era solo l’emergere della vitalità della cosiddetta controcultura, rimasta sottotraccia negli anni precedenti e ora divenuta strumento diretto di azione politica a fronte del declino di modalità più istituzionalizzate. Era l’espressione immediata della distanza che si percepiva e che si intendeva ancor più approfondire nei confronti dell’avversario e del mondo cui esso apparteneva. Era il manifestarsi di un sentirsi altrove rispetto a quel mondo. Era il tentativo di costruire, anche solo con le parole, un altro mondo, qui e ora, un mondo che si voleva, si pretendeva, immediatamente diverso. L’ironia e il paradosso erano la scorciatoia per dichiararsi altri e incompatibili con il sistema politico e sociale presente. Erano la scorciatoia per far intravedere un sistema socio-culturale destinato – ne si era ben consapevoli – a manifestarsi necessariamente in forme fugaci ed estemporanee.
A distanza di oltre 40 anni, quale bilancio storico si può trarre di quell’esperienza?
Nonostante i decenni trascorsi, forse è ancora presto per trarre un bilancio complessivo di quell’esperienza. Della quale sappiamo molto, ma non ancora abbastanza, soprattutto riguardo alla pluralità dei suoi protagonisti, ai diversi luoghi nei quali si manifestò, ai temi più lontani da quelli che sovente ne dominarono una tragica ribalta. Certo, possiamo senz’altro dire che non fu soltanto una esplosione di rabbia, un mero incunabolo del terrorismo, un gesto di disperazione. Fu tutto questo, ma fu anche molto di più. Fu la conclusione del lungo ’68, fu in certo qual modo espressione del declino della politica novecentesca, quella fondata sulla mobilitazione e sui partiti di massa, fu il tentativo di dare dimensione collettiva e politica ad un disagio sociale ed individuale, giovanile ma non solo, che si sarebbe poi espresso in altre forme, e con tutt’altri valori, nelle culture dei decenni successivi.