“Il mondo come teatro. Storia e storie nelle narrazioni di Ernesto Ferrero” di Luciano Curreri

Prof. Luciano Curreri, Lei è autore del libro Il mondo come teatro. Storia e storie nelle narrazioni di Ernesto Ferrero, edito da Olschki; un amarcord saggistico, come lo definisce, un ritratto del Ferrero ‘narratore’: quale stile caratterizza la produzione dello scrittore torinese?
Il mondo come teatro. Storia e storie nelle narrazioni di Ernesto Ferrero, Luciano CurreriNella prima risposta all’intervista che chiude il librino, Ernesto Ferrero parla quasi subito di «Maestri» che «insegnano con le opere, con i comportamenti, con la sobrietà dello stile con cui lavorano, con la capacità d’ascolto, perfino con la modestia e possibilmente con il sorriso». E aggiunge: «Tra i pochi maestri tuttora in esercizio vedo, ad esempio, Claudio Magris, che si mette continuamente in discussione, continua a vedersi come un cantiere aperto e non come dispensatore di verità e di filosofie prêt-à-porter». In un altro luogo dell’intervista, poi, suggerisce: «La vera provocazione è la sobrietà, lo stile basso, l’understatement» (miei i grassetti). Ecco, lo stile di Ferrero è, innanzi tutto, sobrietà. Come si ottiene, tale sobrietà espositiva, curata, elegante ed equilibrata, e mai ‘esagerata’? Occupandosi soprattutto della qualità della scrittura in sé e cercando di ‘tenere la barra’ su quelli che da sempre Ferrero sa essere gli autori-maestri più vicini: Italo Calvino e Primo Levi, ma anche Leonardo Sciascia e Beppe Fenoglio, e pure Lalla Romano, che lo ‘seduce’ per la nervosa rapidità della sua prosa, così asciutta ed essenziale. Detto questo, come scrivo nel volumetto, c’è di più: l’asciuttezza, in Ferrero, non è mai la mimetica e perentoria imitazione di un insieme editoriale vincente, legato, magari solo come tale, a un ricordo paradigmatico e sublime, quello dell’entusiasta apprenti che a venticinque anni, nel 1963, entra all’Einaudi, come responsabile dell’ufficio stampa. La quête di Ferrero – ‘saltimbanco’ che si muove sulle frontiere tra generi e linguaggi differenti – era ed è più larga e distesa, à rebours soprattutto, tra Ottocento e Settecento, con approssimazioni a Gustave Flaubert e ai grandi moralisti francesi, cultori della forma breve, come quel Joseph Joubert che non a caso invitava a concentrare una pagina in una riga, e una riga in una parola. E tuttavia, questo approdo, settecentesco, epigrammatico e aforistico, iperconcentrato, economo, non evade un sapiente gusto del raccontare. E se da un lato questa colta disponibilità al racconto lascia magari trasparire una certa noia nei confronti di troppi dettagli e dialoghi, traducendosi preferibilmente in una sobria eleganza d’antan, dall’altro mette in scena una specie di esplorazione-esplosione di un «mondo-teatro», di cui demistifica diversi inganni strumentali – e strutturali – cui tanto spesso si riduce la Storia ufficiale, specie attraverso casi estremi di uomini eccessivi, nel male e nel bene: il mostruoso Gilles de Rais-Barbablù e Francesco d’Assisi in un Medioevo allucinato, l’orco Napoleone e il buon Salgari, e l’imbroglione americano che incanta gli italiani del 1924… E queste ‘scorribande’ demistificatorie sono sostenute anche da altre letture, che sono altrettanto importanti per Ferrero: gli studi storici in assoluto e quelli di Marc Fumaroli per esempio, ma anche la saggistica più ‘scritta’ alla Garboli, alla Macchia, alla Debenedetti, la linguistica intesa come memoria di una passione giovanile, quella per i gerghi, e i gerghi della mala (della malavita), che è passione per la retorica e le metafore che si ‘sprigionano’ attraverso l’incontro con l’antropologia e le scienze dell’uomo tutte – insieme alle quali, peraltro, non è desueto né inutile contemplare il lavoro, la ricerca di altri scrittori apprezzati: da Corrado Alvaro a Raffaele La Capria.

Quali temi emergono tipicamente dall’analisi della produzione ferreriana?
Come si può intuire abbastanza facilmente da quanto si è detto poc’anzi, temi tipici del suo ‘narrato-saggistico’ sono il rapporto tra il volto e la maschera, l’arte e la vita, l’individuo e la massa, ovvero anche il confronto serrato (quasi intimo) con il potere: quel potere, che è anche finto sapere e che, in varie epoche e forme, affascina gli uomini e li fa vivere in un mondo di bugiarda e ingiusta, malvagia, terribile inconsapevolezza, tutti contro tutti e tutti schiavi, siano essi diventati personaggi leggendari o restati solo anonima folla, massa. E poi c’è, come dico sempre nelle prime pagine del libricino, la sfida e la fatica di scrivere, di confrontarsi con la vita, la storia e tutto quello che in esse ritorna (e non sempre e solo alla luce) in seno alla gratificazione del racconto, della «condivisione», del piacere di comunicare quanto ci ha stupito, ma anche sconcertato e scosso: un manoscritto, un disegno del mondo, un sadico assassino, un truffatore birichino, un generale-imperatore, un editore-imperatore, uno ‘scrittore-scribacchino’ che disegna anche lui, col bastone da passeggio, quelle poche volte che non è incastrato tra sgabello e tavolino, come un amanuense, come un artigiano, come un ‘ciabattino’ delle lettere, seguito magari dai segni lasciati in un orto di montagna da una talpa-antagonista, o in un campo di calcio da una squadra da ricordare in bianco e nero, o in una tenda nel deserto da un santo da riapprezzare senza troppe invenzioni narrative e pittoriche. E su tutto questo ampio orizzonte tematico una grande «compassione», nutrita di umorismo e tenerezza, a dire sia San Francesco che la talpa, la piccola entità del creato: quella «compassione» che forse Ernesto Ferrero trovava anche e soprattutto in due altri autori cui guardava con affetto: Franco Lucentini e Carlo Fruttero.

Con N. per Ferrero arriva, con la vittoria del Premio Strega, la consacrazione di narratore; «un romanzo complesso, fin dal titolo, e filosofico», come lo definisce: in che modo il mondo come teatro di Ernesto Ferrero è anche in questo «guazzabuglio» di N puntate?
A chi appartiene quella N. che campeggia nel titolo del lavoro di Ferrero? Cerco di dirlo subito, nel librino, senza tanti giri di parole. A Napoleone I, sicuramente, in prima istanza, ma fors’anche a quella «nullità», a quel signor Nessuno, «oggi vile assassino e traditore, domani eroe libertario», che sogna ad occhi aperti di uccidere l’Orco, il Tiranno, l’Imperatore che ha sacrificato nelle sue tante – troppe – battaglie e campagne centinaia di migliaia di più o meno giovani sudditi, soldati, uomini (come lui, come Martino Acquabona). E sempre in questo orizzonte paratestuale trova un suo ‘meta-impiego’, assai efficace e tagliente, la dedica «A Giulio Einaudi, l’Imperatore che ho servito con gioia», specie nella prospettiva di I migliori anni della nostra vita, pubblicato da Ferrero nel 2005 per Feltrinelli. Perché? Ma perché servire con gioia, come ha fatto Ernesto Ferrero all’Einaudi per anni e Martino Acquabona nella biblioteca dell’Imperatore nei mesi elbani, non impedisce di pensare con la propria testa né di pensare a Giulio Einaudi come a un altro più che potenziale N. Ecco, il mondo come teatro di Ernesto Ferrero è anche in questo «guazzabuglio» di N. puntate, in questo «pasticciaccio» narrativo di identità, di rapporti irrisolti fra le stesse, tra la carismatica azione del capo, che si esprime pure nella lettera dettata, e il diario di Martino Acquabona: un diktat contro una rêverie. E in questo ‘confronto-scontro’ resiste comunque sempre una briciola d’autonomia. Quale? L’idea che di N. ha Martino e anche il suo essere – condividere, partager – una N. puntata. E dietro c’è un arrovellarsi più o meno divertente, certo esorcistico, sulla maschera, sull’identità, sulla socialità come recita truffaldina, sul rapporto tra capi carismatici e cittadini anonimi, tra duci e folla, massa, sul difficile rapporto tra arte e vita, come risulterà ancora evidente nel romanzo salgariano uscito sempre per Einaudi nel 2011, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari.

Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del Capitano Salgari offre un «grimaldello» utile ad esperire la realtà vissuta e taciuta dal romanziere ottocentesco: come affronta, Ferrero, il tema del difficile rapporto tra arte e vita?
E qui, per rispondere, produrrei semplicemente una citazione dal romanzo. Perché davvero Emilio Salgari è da un lato un «modesto badilante della penna» ma dall’altro anche un «grimaldello» per tentare di capire parte di quel difficile rapporto tra arte e vita che è il collante – o il filo di refe – di un libro che è sempre metaletterario e che subito fa scrittura parlando della scrittura e degli scrittori e delle ragioni per cui si scrive: «Si scrive per vivere molte vite. La tua non ti basta, già decisa com’è dal principio alla fine. Si scrive perché ti senti stretto. Perché vuoi essere un altro. Perché vuoi essere considerato e stimato. Perché hai bisogno di qualcuno che ti dica bravo. Perché sei povero. Perché ti vergogni della casa dove stai. Perché non vuoi fare il mestiere che fa tuo padre. Perché non hai i soldi per viaggiare. Per pagarti le donne che vuoi, quelle che vorresti portare al ristorante o all’opera. Perché vuoi fargliela vedere a qualcuno, ai prepotenti, agli invidiosi». Insomma, si potrebbe quasi dire, con Carlos Liscano, e fatte, certo, le debite differenze, che scrivere e scrivere sulla letteratura è una scusa, per non scrivere sulla vita; specie su una vita fatta di solitudine e reclusione, con più o meno sporadiche ansie d’infinito.

Francesco e il Sultano testimonia l’attenzione di Ferrero verso il tema della falsificazione storica: quale lettura dà, lo scrittore torinese, del santo di Assisi?
Ferrero affronta ancora, nel taglio particolare che dà alla sua (ad oggi) ultima narrazione, quella vita che si risolve in teatro, con i relativi inganni e le più o meno affascinanti e seducenti falsità che ai nostri giorni chiamiamo fake news. Lo racconta peraltro molto bene nell’Intervista che chiude il volume e che cito di nuovo per dare giustamente la parola a quel grande narratore che è Ernesto Ferrero: «Francesco d’Assisi, nel pieno di una Crociata sanguinosa, va in Egitto per incontrare il Sultano. Il quale non lo martirizza ma anzi, lo accoglie amabilmente, lo ascolta, lo apprezza. Anche Francesco rimane molto colpito dalla spiritualità dell’Islam, e ne riporta a casa «pezzi» importanti. Ma quello che mi interessava evidenziare era come Francesco sia stato pesantemente strumentalizzato dalla Chiesa, che ha dato di quell’incontro una rappresentazione molto diversa, «politica», interessata, e in definitiva falsa. Alludo a quella prova del fuoco cui Francesco avrebbe sfidato il Sultano, secondo l’invenzione del suo biografo ufficiale, Buonaventura da Bagnoregio. Ma quando Giotto, su precisa committenza della Chiesa, dipinge l’episodio negli affreschi della Basilica di Assisi, ecco che la prova del fuoco diventa vera. Quella che noi chiamiamo Storia è spesso una narrazione seriale di menzogne ben costruite. Il romanzo può efficacemente lavorare proprio su quelle, specie in un’epoca in cui le narrazioni artefatte diventano verità per masse incapaci di esercitare un minimo di giudizio critico».

Luciano Curreri (1966), ordinario di Lingua e letteratura italiana all’Université de Liège dal 2008, è attivo come saggista e narratore: Le farfalle di Madrid. L’antimonio, i narratori italiani e la guerra civile spagnola (2007, tr. sp. 2009), D’Annunzio come personaggio (2008), Pinocchio in camicia nera (2008, 2011), L’elmo e la rivolta (2011, con Palumbo), L’Europa vista da Istanbul. Mimesis e la ricostruzione intellettuale di Auerbach (2012, 2014), Solo sei parole per Sciascia (2015), La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? (2019), Tutto quello che non avreste mai voluto leggere – o rileggere – sul fotoromanzo (2021, con Delville e Palumbo); Volevo scrivere un’altra cosa (2019); Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine (2021). Ha animato puntate di «Il Tempo e la Storia» (2013-2016) e «Passato e presente» (2019-2020) della RAI.

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