
Il cavallo di Troia è rimasto emblematico tanto da cristallizzarsi nell’uso comune: che ruolo ebbe l’inganno nella guerra fra Greci e Troiani?
Il cavallo di Troia non è solo rimasto emblematico, è tuttora emblematico; non a caso la bravissima disegnatrice gli ha voluto dedicare la copertina del libro. Pensiamo a un ambito tanto lontano dalle scienze umane come l’informatica. Come chiamiamo i malware più insidiosi, quelli che si insinuano nel nostro sistema operativo senza che ce ne accorgiamo? Trojan, appunto in riferimento al cavallo di Troia. Non ricordo quando per la prima volta abbia sentito parlare di Ulisse e del cavallo di Troia; sarò stata molto piccola, perché ho l’impressione di averlo saputo da sempre. Questo per dire quanto la storia del cavallo di legno con i guerrieri greci che prendono Troia di sorpresa, di notte, sia celebre. Lo era anche per i Greci, tanto è vero che l’episodio non è descritto nell’Iliade e nell’Odissea, dove si trovano soltanto dei riferimenti, segno evidente che era già noto a tutti e non c’era bisogno di raccontarlo, bastava richiamarlo. Anche a Roma lo stratagemma del cavallo era notissimo, fu per esempio uno degli argomenti del teatro latino arcaico: due grandi poeti tragici, Livio Andronico e Nevio, dedicarono due dei loro drammi al cavallo. Purtroppo non sappiamo molto altro. L’Eneide di Virgilio, che è la fonte più dettagliata della presa di Troia, mostra dettagli molto istruttivi, dai quali apprendiamo che la costruzione del cavallo di legno – che tutti attribuiscono a Odisseo, ma che in realtà fu opera di Epeo, cugino di Odisseo (ovviamente su ispirazione di Atena) – non sarebbe mai potuta essere efficace da sola, ma che fu solo l’anello, il più importante è chiaro, di una serie di astuzie che insieme produssero l’effetto desiderato, la presa di Troia. Per essere chiari: i Troiani non erano poi tutti sprovveduti e creduloni, molti ebbero dubbi su quell’enorme marchingegno che si parava loro davanti in un momento preciso della guerra, dopo ben dieci anni; e tra questi sappiamo che Laocoonte, con il suo timeo Danaos et dona ferentes, fu fiero avversario della decisione di introdurre il cavallo sulla rocca di Ilio, il cuore di Troia. Fece una brutta fine, perché, si sa, gli dèi volevano che Troia cadesse e probabilmente preferivano stare dalla parte dei più furbi e dei più intelligenti. Nel grande stratagemma che ingannò i Troiani, poi, un posto di primo piano ebbero le bugie del prigioniero Sinone. Potrei continuare, ma non vorrei togliere al lettore il gusto della scoperta.
Anche il nodo di Gordio è rimasto proverbiale: in che modo Alessandro ricorse all’inganno?
È vero, l’espressione «nodo di Gordio» è nota a tutti, ma non tutti sanno esattamente cosa significhi. Accontentiamo i più dubbiosi o ignari: «sciogliere il nodo di Gordio» significa risolvere una situazione di difficoltà con un atto di fermezza e risolutezza, in modo drastico e anche inatteso. Questo perché, secondo parte della tradizione, Alessandro sciolse il nodo di Gordio tagliandolo con la spada. Esiste però un’altra versione dell’episodio, se vogliamo molto più verosimile e fondata, secondo cui Alessandro non utilizzò la spada ma ricorse a un altro mezzo, più ingegnoso. Per comprenderlo, dobbiamo prima sapere cosa questo nodo legasse. Si trattava del timone di un carro, lasciato sull’acropoli della città di Gordio come dono votivo a Zeus, che era legato al giogo con un nodo di scorza di corniolo in modo così stretto e complicato che non si intuiva né capo né coda ed era assolutamente impossibile scioglierlo. Era un’impresa difficilissima, a tal punto che, secondo un oracolo, chi fosse stato in grado di sciogliere il nodo sarebbe diventato padrone dell’Asia. Molti prima di Alessandro ci avevano provato, invano, e non dubitiamo che anche Alessandro provò a scioglierlo, ma non vi riuscì; per cui secondo alcuni prese la spada e lo tagliò di netto, secondo altri tirò fuori dal timone del carro la chiavarda (un marchingegno di collegamento, diciamo una specie di bullone) che attraversava tutto il timone; tolta la chiavarda, il timone si separò facilmente dal giogo. Secondo la prima versione del fatto, che ha avuto più eco nella tradizione moderna, Alessandro risolse il problema con forza e determinatezza, virtù che gli erano proprie; secondo l’altra lo fece con accortezza, riflettendo sul rapporto tra mezzo e fine e sul valore da dare all’uno e all’altro. Qual era il fine della sfida lanciata dall’oracolo? Non tanto sciogliere il nodo quanto liberare il timone dal giogo. In qualunque modo si fosse raggiunto questo risultato, l’oracolo sarebbe stato pienamente soddisfatto, ed ecco che liberare il timone togliendo la chiavarda o eliminare il nodo tagliandolo invece che sciogliendolo erano solo dei dettagli pratici e di esecuzione, che tuttavia miravano allo stesso risultato, quello che Alessandro ottenne. Chiaramente la posta in gioco che quel successo implicava era molto alta: permettere all’oracolo di avverarsi e quindi conquistare l’Asia, che era proprio quello che Alessandro si accingeva a fare. Ma c’è anche un’altra questione non di poco conto da tenere a mente, e che dimostra l’intelligenza strategica di Alessandro. Riuscendo in quella impresa, Alessandro dimostrava ai suoi uomini che gli dèi erano dalla loro parte, istillando in uomini che l’indomani sarebbero andati a combattere (e a morire) per il loro capo un’iniezione di fiducia, coraggio e valore militare non di poco conto.
Se esaminiamo l’episodio secondo rigidi criteri di classificazione, a rigore non ci fu inganno, perché Alessandro non ingannò nessuno, se non l’oracolo. Ci fu però un vero e proprio stratagemma, nel senso proprio e originario del termine, cioè «attività svolta da un generale con astuzia e accortezza», in quanto Alessandro superò il problema di fatto non risolvendolo, ma aggirandolo. E questo è tanto più importante se pensiamo al mito che ancora oggi il personaggio di Alessandro alimenta: un uomo di guerra, un eroe, che a poco più di trenta anni aveva praticamente conquistato il mondo, e che si vantava di farlo con lealtà, coraggio, determinazione, sangue freddo. E che alla vigilia della battaglia di Gaugamela, quando i suoi ufficiali gli proponevano di prendere i nemici di sorpresa, di notte, rispondeva: «non sono un ladro e non rubo la vittoria».
Anche i Romani ricorsero all’inganno; la vicenda del ratto delle Sabine ne è un chiaro esempio: come risolse, Romolo, il problema della discendenza dei Romani?
Al tempo dell’imperatore Tiberio, Valerio Massimo scriveva nei suoi Detti e fatti memorabili che una parte dell’astuzia greca (usava il termine calliditas), del tutto lontana da ogni tipo di giudizio morale, si estrinseca in azioni che si chiamano strategemata, cioè con un termine greco, perché il latino non ha una parola corrispondente per definirle. Questo la dice lunga sull’atteggiamento dei Romani nei confronti di tutte quelle azioni compiute con dolo e inganno. La valutazione della condotta di Annibale in guerra ne è la prova. Eppure anche i Romani ricorrevano a quelle azioni che ritenevano moralmente disdicevoli. Il ratto delle Sabine ne è la prova, tanto più significativa in quanto si colloca nel passato mitico di Roma, quello reinterpretato in funzione di propaganda, e che dava al popolo di Roma un passato glorioso di cui vantarsi, accanto a un insieme di valori in cui identificarsi. Certo, Romolo non fu proprio un esempio di specchiata virtù, se pensiamo anche alla storia del fratricidio e del modo in cui assunse il potere, ma evidentemente i suoi meriti di fondatore di Roma compensavano ampiamente, nell’immaginario che i Romani si crearono nel corso dei secoli, le sue malefatte. Difficilmente possiamo credere che sussistessero a Roma problemi di discendenza, il vero problema era il rapporto con le popolazioni limitrofe e l’intento di stringere alleanze funzionali ad accrescere sempre più l’espansione della nuova città. Il racconto del rapimento delle fanciulle nelle fonti sopraggiunge proprio nel momento in cui registrano il fallimento dei tentativi di parte romana di condurre un sistema di alleanze che permettesse ai Romani di condurre una politica di integrazione. Romolo non ci riuscì e ricorse alla forza, al rapimento delle fanciulle sabine e del Lazio; ma prima ancora della forza ricorse all’astuzia perché suscitò con l’inganno la curiosità e l’interesse dei vicini organizzando i Consualia, dei giochi solenni in onore di Nettuno, e spargendone la voce. I popoli vicini, e i Sabini tra tutti, effettivamente accorsero, non solo perché attirati dalla festa ma soprattutto per ammirare la nuova città e il lavoro di organizzazione urbanistica che Romolo aveva avviato. Romolo si dimostrò un eccellente comunicatore e un fine conoscitore della psicologia delle masse, tanto da dimensionare nell’immaginario successivo – e direi anche in quello dei moderni – la triste realtà di un crudo atto di violenza. Anche per noi l’episodio del rapimento delle fanciulle che sono poi costrette a sposare i Romani con la forza (e senza neanche scegliere ciascuna il proprio marito, va detto) rientra nel nebuloso passato mitico di Roma contraddistinto da eventi di eccezionale eroismo. Non dimentichiamo, invece, di cosa il mito effettivamente parlava e in cosa i Romani credevano, questo soprattutto quando amiamo accostare in maniera un po’ troppo affrettata gli antichi a noi. Non lo dimentichino le spose del nostro millennio, quando verranno sollevate dal neo-marito per essere portate nella camera nuziale: questo uso deriva da quell’episodio, un episodio di violenza perpetrata ai danni di giovani donne indifese. Nel rinnovare questo rito, non dimentichino la sua origine.
Imma Eramo è ricercatrice di Filologia classica nell’Università di Bari, dove insegna Esegesi delle fonti di storia greca e romana e Letteratura latina. Ha curato i Discorsi di guerra di Siriano (con una nota di Luciano Canfora, Dedalo) e gli Stratagemmi di Frontino (con una premessa di Giusto Traina, Rusconi).