
La definizione di “organica” applicata da Gramsci alla crisi è segno di cambiamenti sistemici profondi ma non necessariamente catastrofici. A differenza della concezione terzinternazionalista, secondo cui la crisi organica si distingue dalla crisi congiunturale perché attiva la tendenza “catastrofica” dello sviluppo capitalistico, Gramsci ritiene che con la guerra si è resa manifesta l’asimmetria tra politica ed economia. Si è prodotta una crisi di egemonia che ha investito la capacità degli Stati, delle loro classi dominanti, di mediare e di “governare” nazionalmente le logiche di sviluppo del mercato capitalistico mondiale. Egli la interpreta nei termini della contraddizione tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica. Le linee di frattura si determinano nel conflitto sempre più acuto tra gli intensi processi di nazionalizzazione delle masse (che comportano l’allargamento delle basi dello Stato con una conseguente massiccia politicizzazione di nuovi strati sociali) e la dinamica globalista del capitale (inteso come relazione storico-sociale) che si dispiega oltre le frontiere nazionali. La conseguenza è che, mentre nell’epoca dell’ascesa e dello splendore degli Stati nazionali, il cosmopolitismo rappresentava una sopravvivenza del passato medievale, tanto che per Gramsci il legame degli intellettuali italiani con il Papato e con l’Impero aveva costituito l’elemento principale di freno allo sviluppo moderno dell’Italia e della sua marginalità nel contesto degli Stati europei, nella fase dell’inarrestabile declino della sovranità nazionale il cosmopolitismo muta di segno, acquista ai suoi occhi un valore altamente positivo che apre all’Italia nuove, inedite chance di futuro.
Come si sviluppa la revisione gramsciana del marxismo e con quali esiti?
Quando entra in carcere Gramsci è già persuaso che la prospettiva rivoluzionaria imperniata sull’espansività dell’Internazionale comunista si stia chiudendo. E gli eventi successivi glielo confermeranno: l’esperimento sovietico rimane bloccato sul terreno economico-corporativo, il comunismo russo si territorializza, provocando nello stesso tempo la torsione dell’egemonia del proletariato in comando autoritario sul mondo contadino e la crisi irreversibile dell’internazionalismo.
Gli era divenuto chiaro che il modello duale proletariato/borghesia non reggeva più. L’alleanza degli operai e dei contadini faceva emergere la fondamentale mediazione degli intellettuali che rendeva politicamente improduttivo quel modello. Occorreva, dunque, ripensare la figura dello Stato e la stessa idea della politica, così come intraprendere una drastica revisione della trama concettuale che prima lo aveva portato ad abbracciare un internazionalismo classista e poi, soprattutto, l’internazionalismo comunista.
Il tradizionale impianto marxista ‒ fondato sul rapporto “abbreviato” produzione/politica ‒ andava radicalmente rivisto. Approfondendo il tema degli intellettuali, Gramsci rimette in discussione lo schema dicotomico economia/politica, nonché l’immagine riduttivamente marxista dello “stato macchina”, mero strumento di oppressione e di dominio. Lo Stato viene invece assumendo, nelle sue note carcerarie, il carattere di soggetto par excellence della egemonia borghese mentre il versante critico si disloca dal terreno dell’ideologia a quello storico-politico della crisi e delle trasformazioni dello Stato: i due terreni su cui procederà la ricerca dei Quaderni.
Questa concezione porta in primo piano il nesso filosofia-politica che spinge alla rielaborazione del marxismo nei termini della filosofia della prassi al fine di elevare lo “spirito di scissione”, insito nei gruppi sociali, dall’economico-corporativo all’egemonia, ovvero a un’autonoma concezione della storia e a una costituzione politico-processuale del soggetto protagonista .
La linea di sviluppo del suo pensiero tende ad abbandonare la metafora architettonica di struttura e sovrastruttura, che alimentava una visione deterministica dei rapporti tra l’economia e le altre sfere della vita sociale, giustificando l’accusa crociana al marxismo di approdare a un esito metafisico (il “dio ascoso”). E si orienta verso una sempre maggiore sottolineatura della mobilità e interconnessione dialettica di realtà, blocco storico, rapporti delle forze, fino al concetto della traducibilità dei linguaggi scientifici, che considera il più adeguato a rendere, sul piano teorico, la novità della filosofia della prassi e della processualità che caratterizza il nuovo soggetto storico e i suoi istituti, a cominciare dalla teoria del partito e degli intellettuali organici.
La novità ha un che di “scandaloso” perché non solo afferma l’integrale storicità di ogni filosofia ma applica questa “verità” alla stessa filosofia della prassi che, nonostante ciò, non cessa di essere filosofia.
Se gli uomini prendono coscienza di sé e del mondo sul terreno delle ideologie, ne consegue che nessun ambito è sottratto al condizionamento ideologico e non esiste una coscienza depositaria della verità. La dilatazione dell’ideologia attuata dalla filosofia della prassi esige, a evitare una drammatica caduta nel relativismo senza principi, di essere controbilanciata dall’ancoraggio a una qualche obiettività. Il solo criterio individuato da Gramsci è il principio di universalizzazione, che presuppone che si abbia come principio e come finalità l’idea della progressiva unificazione del genere umano. Per essere qualcosa di più di un richiamo retorico o ipocrita, l’umanesimo immanentistico, come è formulato da Gramsci, postula un diverso fondamento della politica rispetto a tutta la tradizione occidentale (e non solo): richiede che sia la pace a fondarla e non la guerra.
La filosofia della prassi appare dunque la via maestra per affrontare la questione per lui fondamentale: come formare intellettuali organici, ovvero intellettuali (organizzatori, tecnici, politici) permanentemente legati alla “vita” dei subalterni, al mondo della produzione e della riproduzione, del lavoro in tutte le sue varie forme. Una filosofia quindi che non destini la politica a una sfera separata, in quanto professione particolare accanto alle altre (i distinti crociani o il politeismo dei valori weberiano), ma la intenda organicamente connessa al ciclo riproduttivo. Sta nel circolo filosofia-politica-storia il solo antidoto sia contro la burocratizzazione dei tempi normali (Sorel) che contro il “tradimento” dei dirigenti (il passaggio in massa dall’altra parte) nei periodi di crisi.
Quali evoluzioni semantiche e concettuali accompagnano, nei Quaderni, la sostituzione del termine «internazionalismo» con «cosmopolitismo di tipo nuovo»?
Le amare valutazioni, presenti nelle prime note dei Quaderni, sulla sconfitta del movimento operaio e il “tradimento” degli intellettuali subiscono, tra il 1931 e il 1932, una sorta di accelerazione che culminerà nella sostituzione di termini canonici della teoria marxista con un nuovo lessico: da materialismo storico (o marxismo o filosofia marxista) a filosofia della prassi, da internazionalismo a cosmopolitismo di tipo nuovo, da classe a classi e gruppi sociali subalterni. Si tratta di segnali difficilmente equivocabili: Gramsci cerca di delineare una diversa costituzione del soggetto politico che possa superare i limiti sempre più evidenti del “marxismo ufficiale”.
La conclusione che Gramsci trae dalla piena storicizzazione delle categorie, eliminando ogni residuo sia ideale che materiale attraverso la doppia critica a Croce e Bucharin, è l’incongruità del lemma “materialismo storico”. Diventa ineludibile trovare un nuovo nome che esprima questo passo teorico. Al riguardo Gramsci cita una frase di Napoleone:
«Se date nuovo significato a un vecchio vocabolo, per quanto professiate che l’antica idea attaccata a quella parola non ha niente di comune coll’idea attribuitagli nuovamente, le menti umane non possono mai ritenersi affatto che non concepiscano qualche somiglianza e connessione fra l’antica e la nuova idea; e ciò imbroglia la scienza e produce poi inutile dispute»[1].
Per non favorire l’imbroglio delle idee Gramsci procederà al recupero dell’espressione labriolana di “filosofia della prassi”, che ora gli appare più aderente alla sua concezione del marxismo.
Un problema analogo gli si presenta a proposito del lemma internazionalismo che correggerà in cosmopolitismo. Non è una correzione né transitoria né di poco momento. Si tratta nientemeno di eliminare dal suo lessico il termine distintivo che ha segnato la nascita dell’Internazionale dei lavoratori, e di sostituirlo con un vocabolo che richiama, per un verso, la République des lettres di settecentesca memoria e, per l’altro, evoca la storica tradizione degli intellettuali italiani che egli ha ripetutamente stigmatizzato.
Questa sostituzione difficilmente si spiega con le cautele imposte dal suo stato di prigioniero.
In effetti, ancora nel settembre-novembre del 1932 annota «Il popolo italiano è quello più interessato all’internazionalismo»mentre tra il febbraio del 1934 e il febbraio 1935 (quando già si erano fortemente allentati i controlli della censura) nel riprendere il passo nel Quaderno speciale 19 lo riscrive così: «il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo»
Applicando lo stesso criterio utilizzato da Gramsci per il passaggio dal lemma materialismo storico al lemma filosofia della prassi, se ne deve dedurre che egli sta elaborando qualcosa di così nuovo dal punto di vista concettuale che non se la sente più di utilizzare la vecchia parola, pena l’“imbroglio” delle idee. Gramsci sostituisce il termine “internazionalismo” spinto dalla stessa esigenza che lo ha portato a non utilizzare più l’espressione “materialismo storico”. Intende sfuggire al peso di una concezione e di una politica meccanicistica e di impianto economico-corporativo incapaci di produrre egemonia, incapaci cioè di creare quel legame tra intellettuali e “il lavoro come insieme” che costituisce la vera sfida della democrazia postliberale. il programma di ripensamento radicale della teoria in vista di una differente costituzione del nuovo soggetto storico.
Segnalo infine che Gramsci, negli scritti degli anni tra il 1922 e il 1926, transita dall’uso del termine classe negli articoli tra guerra e primo dopoguerra a quello di masse per giungere poi nelle tarde note dei Quaderni al concetto di “classi e gruppi sociali subalterni”. Si tratta di mutamenti linguistici che segnano il progressivo spostamento da una semantica economico-sociologica a una politica, fondata sulla mobilità delle relazioni di potere, dei “rapporti di forze” e ordinata intorno alle categorie di egemonia, di rivoluzione passiva, di Stato “integrale” , di moderno Principe.
Francesca Izzo ha insegnato Storia delle dottrine politiche e Filosofia della politica all’Orientale di Napoli, svolgendo ricerche intorno al pensiero filosofico e politico del Seicento e del Novecento e occupandosi con continuità di teoria femminista. È stata tra le fondatrici del movimento Se non ora quando?. Tra le sue pubblicazioni: Religione e antropologia: da Marx a Gramsci a De Martino in Marx in Italia (Treccani Libreria, 2020); Maternità e libertà (Castelvecchi, 2017); Le avventure della libertà. Dall’antica Grecia al secolo delle donne (Carocci, 2016); Democrazia e cosmopolitismo in Antonio Gramsci (Carocci, 2009); Forme della modernità. Antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes (Laterza, 2005).
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[1] Q. 4, pp. 452-3