
Tuttavia, questa nuova prospettiva “culturale” fa fatica a imporsi. Pochissimi storici hanno cercato di studiare come l’esperienza del fascismo abbia cambiato la stessa esperienza cattolica. La discussione storiografica ha continuato così a polarizzarsi attorno a due visioni contrapposte: quella che chiamerei del “matrimonio di convenienza”, cioè di un’alleanza difficile tra protagonisti sospettosi, e quella dell’esistenza di un vero accordo che finì per dare al regime una connotazione sostanzialmente clerico-fascista. Quello che cerco di suggerire, con questo libro, è di cercare di compiere un salto di qualità, di guardare alla correlazione tra fede e nazionalizzazione delle masse, di porsi il problema di come il rapporto tra nazione, cattolicesimo e regime abbia profondamente modificato i modi profondi di pensare e di identificarsi degli italiani. Ho cecaro di farlo seguendo due piste fondamentali: da un lato, quella del rapporto tra nazione, religione e cattolicesimo nell’Italia fascista; dall’altro, quella della percezione o meno da parte cattolica che gli aspetti nuovi della prassi politica fascista (la sacralizzazione dello Stato, della nazione, del capo) fossero in contrasto con l’identità religiosa degli italiani. In questa nuova ottica, la contrapposizione che domina la storiografia può, forse, essere superata. Non ho alcun dubbio che la prima delle due spiegazioni, quella che parla di una convivenza difficile che lasciò intatta l’autonomia dei due soggetti, sia quella convincente. Non ho nemmeno dubbi sul fatto che questo rapporto giovò potentemente ai fini totalitari del regime. Tuttavia, credo occorra ammettere che lo stesso utilizzo politico della religione effettuato dal fascismo contribuì potentemente alla politicizzazione e ideologizzazione di quest’ultima con conseguenze importanti. Esso aprì al cattolicesimo uno spazio di presenza, anche se uno spazio sempre all’ombra dei miti potentissimi del fascismo e del suo capo. Al momento, lo spazio sarebbe stato difficile e privo di qualsiasi conseguenza politica. Quando quei miti avrebbero cominciato a offuscarsi, esso avrebbe cominciato a contare, e non poco.
Quale ruolo svolse il cattolicesimo nel processo di nazionalizzazione degli italiani durante il “ventennio”?
Io credo un ruolo tutt’altro che secondario. Sin dagli anni del Risorgimento il mondo cattolico aveva ripetuto agli italiani che l’unificazione nazionale si basava su un equivoco. Il “paese legale”, quello delle istituzioni, e il “paese reale”, quello del popolo, erano lontani e antitetici: liberale e secolarizzato il primo, pienamente cattolico il secondo. Ai miti del progresso, della libertà o della scienza, alla religione civile della patria, i cattolici erano così venuti contrapponendo il loro mito di un’”Italia cattolica” che legava indissolubilmente religione e patria, che contrapponeva l’ordine politico transeunte a una nazione cattolica perenne e spesso accennava a un “primato” nazionale in questa chiave. Per questo i cattolici, che avevano contestato vivacemente la politica liberale di separazione tra Stato e Chiesa basata sull’equidistanza rispetto alle confessioni religiose, guardarono con compiaciuta sorpresa alla nuova politica ecclesiastica del governo fascista che, proprio nel nome del riconoscimento della “religione nazionale”, poneva fine a quella neutralità e concedeva al cattolicesimo una serie di privilegi.
Così, il fascismo ebbe un ruolo decisivo nello spingere alla nazionalizzazione dei cattolici. L’identificazione tra nazione e cattolicesimo proposta dal regime poteva difatti portare anche a un modello cattolico di “italianità”, per certi versi comune, ma per altri alternativo e concorrenziale rispetto a quello fascista. Grazie al favore governativo, la Chiesa acquistò una visibilità e una presenza sempre maggiori e accentuò una strategia volta a dare un significato sempre più nazionale ad essa. I congressi eucaristici presero il carattere di grandi cerimonie pubbliche, le manifestazioni per l’anno santo del 1925 e le celebrazioni del centenario francescano del 1926 assunsero caratteri nazionalistici, persino il movimento antiblasfemo denunciò la bestemmia come una vergogna nazionale, come una macchia nel prestigio della patria.
Certo, l’entusiasmo dei cattolici per la nuova convergenza tra fede e patria aveva continuato a essere accompagnato da non poche preoccupazioni: si temeva che il fascismo nascondesse una sorta di propria religiosità, che promuovesse un culto pagano dello Stato, che fosse portatore di un nazionalismo esagerato. Tutti questi dubbi sembrarono però superati nel febbraio del 1929 con la firma dei Patti Lateranensi, quando cattolicesimo e italianità poterono essere messi trionfalmente insieme nella chiave della raggiunta unità spirituale del popolo italiano. Il papa stesso proclamò “di avere ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. Neppure le discussioni post-concordatarie sul carattere della nuova nazione “fascista e cattolica”, o le lunghe polemiche sulla laicità dello Stato e nemmeno il conflitto drammatico che sfociò nella chiusura dei circoli dell’Azione Cattolica del 1931 riuscirono a disperdere l’eco di questo clima. Ristabilita l’intesa tra Chiesa e regime, il mito dell’”Italia cattolica” trionfò: i grandi santi italiani vennnero proposti come espressione di tutto un popolo; le missioni o la presenza cattolica nel Mediterraneo orientale, e in particolare in Palestina, furono presentati come strumenti di espansione italiana nel mondo; le campagne contro la presenza dei protestanti guardarono non all’eresia ma all’estraneità all’identità nazionale; le missioni religiose promosse dai vescovi si risolsero spesso in cerimonie patriottiche davanti ai monumenti ai caduti o nelle cappelle votive dedicate ai martiri fascisti dei palazzi del Littorio; i santuari divennero “autarchici”; Mussolini, a cavallo, fece la sua comparsa negli affreschi di qualche chiesa accanto al Cristo crocifisso; le organizzazioni giovanili cattoliche fecero propri modelli educativi che recepivano un modello di nazione «forte», direttamente derivato dalla “modernità” fascista, e nel quale azione, virilità, dinamismo, volontà, anti-intellettualismo divenivano parole chiave.
Negli anni del regime, dunque, la «cultura della nazione» entrò pesantemente nel mondo cattolico. Allo stesso tempo, però, anche il cattolicesimo entrò pesantemente nella «cultura della nazione». E a lungo non ne sarebbe più uscito.
Quando e come il mito dell’“Italia cattolica” finì per imporsi in alternativa a quello risorgimentale e laico della “Terza Roma”?
Sia il mito del “primato” italiano in chiave cattolica che quello della “terza Roma” sono risorgimentali. Nel 1843, in una pagina celebre del primo volume del suo Primato morale e civile degli italiani, l’abate Vincenzo Gioberti sostenne che non si poteva “essere perfetto Italiano […] senza essere cattolico”. Sei anni dopo, nel 1849, Giuseppe Mazzini, in un discorso fiorentino in favore della proclamazione della repubblica romana, salutava il sorgere della “terza Roma”, la Roma del popolo, che avrebbe sostituito quella dei cesari e dei papi. Il mito proposto da Gioberti avrebbe influenzato profondamente il liberalismo moderato perché presupponeva un incontro tra cattolicesimo e patria nel contesto di una separazione collaborativa tra la Chiesa e lo Stato. Quello laico e anti-clericale di Mazzini avrebbe influenzato la sinistra liberale, il republicanesimo, il radicalismo.
Il fatto straordinario fu che il fascismo, che riprese esplicitamente il mito mazziniano, proponendo la nuova Italia di Mussolini come la sintesi dell’Italia degli antichi romani e di quella dei papi, finì per tentare una fusione di esso con quello neo-guelfo, insistendo, come fece più volte Mussolini stesso, sulla natura cattolica del paese e sulla necessità di rispettarla. Il mito dell’«Italia cattolica» fu così alimentato in modo convergente e, assieme, sottilmente concorrenziale dal regime fascista e dai cattolici, finendo per rappresentare un elemento non secondario nelle vicende del “ventennio”. Esponenti del regime e uomini di chiesa, giornalisti fascisti e dirigenti delle associazioni cattoliche sottolinearono in coro la forza che “l’unità religiosa” conferiva a un paese e come quest’unità religiosa costituisse l’identità stessa dell’Italia fascista, perché era il cattolicesimo a farne un blocco compatto. Entrambe le parti sapevano che si trattava di un mito: nessuno poteva ignorare la realtà, confermata dai primi dati di una nascente sociologia religiosa, che parlava di una ormai avvenuta scristianizzazione dell’ambiente urbano e di un avvio dell’erosione di quello rurale. L’idea di un paese compattamente stretto attorno alla Chiesa era dunque una leggenda. Tuttavia, buona parte della stampa (da quella colta a quella popolare, da quella fascista a quella cattolica) a questo mito diede largo credito e fece continuamente riferimento. Perché i miti sono spesso più importanti della realtà. Quello del mito nazionale divenne quindi per tutto il “ventennio” un terreno sul quale la convergenza e insieme la strumentalizzazione reciproca tra regime fascista e Chiesa si intrecciarono profondamente. Il regime tentò di inserire sincreticamente il cattolicesimo nella sua ideologia e nella sua religione politica; i cattolici cercarono di usare gli spazi aperti dal regime e dal suo apparato simbolico in favore della riaffermazione della loro Italia confessionale. Il risultato fu che, attorno al mito dell’”Italia cattolica”, venne costruita una koinè ideologica nazional-cattolica che si diffuse, a livello popolare, assieme ai temi più propriamente fascisti e totalitari. Naturalmente, questo aspetto della nazionalizzazione degli italiani non rappresentò alcuna alternativa alla pedagogia totalitaria di massa del fascismo. Tuttavia, contò non poco sia nel consenso al regime che, in seguito, nel favorire la successione cattolica ad esso.
In che modo e per quali fini il fascismo sostenne il mito dell’“Italia cattolica”?
L’approccio fascista alla questione cattolica fu essenzialmente politico. Mancava ogni riconoscimento ideale dei valori del cristianesimo, ma vi era un semplice apprezzamento storico di una tradizione incarnata dalla Chiesa romana. Per Mussolini, il cattolicesimo rappresentava un superamento, in chiave di romanità, del cristianesimo e, proprio (e solo) in quanto tale, costituiva parte integrante del patrimonio nazionale. Il fascismo, inoltre, si sentiva portatore di un elemento religioso in sé e aveva della politica una concezione religiosa. L’incontro venne così spesso proposto nei termini di una rivolta spirituale contro le vecchie ideologie che corrompevano i sacri principi della religione, della patria e della famiglia. La intima fusione di potere religioso e potere civile, e dunque l’unità religiosa della nazione, le avrebbe permesso la grandezza futura. Il mito dell’”Italia cattolica” permise al fascismo di rompere frontalmente il blocco politico cattolico: se la nazione era cattolica, e se ora finalmente lo riconosceva, la funzione politica dei cattolici italiani non poteva più essere rappresentata da un partito ma doveva sciogliersi all’interno del nuovo orientamento delle migliori forze nazionali. Inoltre, l‘apertura ai cattolici aveva per il fascismo anche una evidente ricaduta in termini di opinione pubblica internazionale.
Il mito dell’”Italia cattolica” fu dunque un elemento importantissimo nel consenso degli italiani al regime. L’idea che il fascismo fosse stato il primo soggetto politico a saper rispettare e valorizzare l’identità cattolica profonda del paese fu il principale argomento che sostenne, e con effetti decisivi, il consenso dei cattolici, intrecciandosi, nella propaganda di entrambe le parti, con quello di una natura provvidenziale del movimento fascista (e del suo capo). Nel corso degli anni trenta, dopo la comparsa del nazismo e dopo il profilarsi di un suo avvicinamento al fascismo italiano con una conseguente alleanza politica e militare e l’introduzione di una legislazione razziale, il quadro divenne, per i cattolici molto più cupo e preoccupante. Ma anche allora il mito dell’”Italia cattolico” favorì il permanere di un consenso al regime, talvolta pienamente convinto, talvolta come semplice male minore. Se si fosse stati onesti, non si sarebbe potuto negare che il fascismo era stato l’anticipatore totalitario del nazismo e che Hitler considerava Mussolini come il proprio maestro. E invece, la convinzione dell’esistenza di un’ineliminabile e indistruttibile natura cattolica dell’Italia impedì (o comunque ritardò) una precisa presa di coscienza della reale natura del fascismo. Guardata alla luce della situazione tedesca, l’Italia mussoliniana “fascista e cattolica” non poteva non essere apprezzata. Inoltre, – lo ripetettero sia sostenitori del regime come “La Civiltà Cattolica” o l’arcivescovo di Milano, cardinale Schuster, sia sui critici convinti come Alcide De Gasperi o l’allora giovane giornalista Federico Alessandrini (ai cui commenti sul principale quotidiano cattolico questo libro dedica particolare attenzione) – l’equilibrio “cattolico” della mentalità italiana e la presenza di una “nazione cattolica”, con tutta la sua forza, avrebbero frenato, impedito, moderato, annullato tutti i rischi peggiori. Ogni aspetto integralmente totalitario o «pagano» del regime finì così per apparire pericoloso ma marginale, preoccupante ma superficiale e, alla fine dei conti, destinato ad essere riassorbito, se considerato alla luce della natura di «gens catholica» degli italiani.
In che modo la sua eredità continuò a pesare nella storia dell’Italia democratica?
Direi, molto sinteticamente, che nel nostro paese, senza il mito dell’Italia cattolica, la stessa egemonia democristiana del dopoguerra non ci sarebbe mai stata.
Naturalmente, negli anni sempre più difficili della guerra, il mito entrò progressivamente in crisi ma, proprio al momento dello smarrirsi del totalitarismo fascista, rinacque trasformato. Dominò l’impressione che, durante il “ventennio”, il paese fosse stato più cattolico che fascista e che il fascismo stesso fosse stato fortemente condizionato dalla Chiesa. Una vulgata diffusa costruì l’idea che il regime aveva perso il proprio rapporto con gli italiani proprio nel momento in cui, con la scelta per il razzismo, per l’Asse e per la guerra, dalla Chiesa si era allontanato. Dunque, se l’Italia “vera” era (ed era sempre stata) quella cattolica, e se era stato il cattolicesimo a rendere più italiano, e quindi più umano, lo stesso fascismo, differenziandolo dalle altre dittature totalitarie del Novecento, si apriva nuovamente la strada per un’identificazione di italianità e cattolicesimo. Ed essa presentò notevoli elementi di continuità con i miti del periodo fascista: al milite fascista, ardito e guerriero, si sostituiva un diverso stereotipo di italianità, quella di un italiano semplice, modesto, umile, lavoratore, generoso – cattolico, appunto –. E questo modello di identità nazionale, per certi versi più “debole”, ebbe dalla sua il fatto di poter agire come una sorta di vera e propria “auto-assoluzione” collettiva, risparmiando agli italiani meno consolanti esami di coscienza sulle loro vere responsabilità.
Renato Moro è professore di Storia contemporanea nell’Università degli Studi Roma Tre, dove è anche coordinatore del Dottorato in Scienze Politiche. Dal 2005 è condirettore della rivista Mondo contemporaneo, dal 2016 presidente dell’Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro e dal 2018 presidente della rete internazionale di ricerca sulla storia delle democrazie cristiane CIVITAS. I suoi studi riguardano la relazione tra politica e religione nella storia del XX secolo. Tra i suoi libri La formazione della classe dirigente cattolica (1979), La Chiesa e lo sterminio degli ebrei (2002); Aldo Moro negli anni della FUCI (2008).