
In che modo, nella Comedia delle ninfe fiorentine, Boccaccio proietta su quel “continente simbolico dell’ ‟anima occidentale” che è l‟Arcadia, l’orizzonte della poesia amorosa dantesca?
In ordine cronologico rispetto alla collocazione temporale degli autori, il primo saggio si sofferma su un’opera di Boccaccio, La Comedia delle ninfe fiorentine, il prosimetro che ha per la prima volta in lingua volgare consegnato alla tradizione letteraria italiana un tentativo di rinascita del genere bucolico. Lo scritto di Boccaccio risente della essenziale mediazione delle ecloghe latine dantesche, di cui il certaldese avrebbe colto l’enorme importanza rispetto alla tradizione virgiliana e che ha inteso riprendere proprio in vista dell’elaborazione di una bucolica volgare. La memoria dantesca però non agisce sulla sperimentale opera boccacciana solo per il tramite delle ecloghe latine, ma si estende anche ai temi amorosi dei suoi capolavori, come la Vita nuova e la Commedia. Se definissimo la ninfa una “donna pensata come amore”, le sette ninfe fiorentine dell’Ameto sono il tramite che consente al pastore protagonista dell’opera boccacciana di accedere al regno amoroso dell’Arcadia di virgiliana memoria. È così che Boccaccio riesce a proiettare sull’orizzonte mitico arcadico (Amor omnia vincit) la teoria della visione spirituale d’amore di Dante, attribuendo alla natura liquida delle ninfe la funzione di tramite per l’espressione poetica e per la rigenerazione spirituale che fa superare agli uomini la ferinità. Tali acquisizioni sono nel saggio raggiunte soprattutto attraverso la ricostruzione della tradizione mitica delle ninfe e anche di quelle particolari ninfe che sono le Muse, le ispiratrici delle arti. Infatti, nel volumetto di cui qui si discute, la presenza delle ninfe appare essenziale: non soltanto esse compaiono nel saggio di argomento boccacciano, ma ritornano anche nei sognanti versi inediti di Gabriella Sica posti in epigrafe (Ninfa in via del Lauro), dove la ninfa Dafne riappare al lettore nelle forme di un fantasma vagante per le vie segrete di Milano. In un dialogo amichevole fra donne, al dono delizioso in forma di parole di Sica si aggiunge anche il dono in forma di immagini di Monica Ferrando, la quale ha dedicato al mito arcadico ampia attenzione non solo nei suoi studi, ma anche nelle sue straordinarie opere pittoriche. Il volume, infatti, reca in copertina proprio un suo olio su tavola del 2007 intitolato Ad sidera notus, nel quale pare di scorgere proprio una ninfa leggente intenta a salvare con la poesia la memoria di Dafni, il pastore noto fino alle stelle della V bucolica virgiliana. Ancora una ninfa è quella che appare nella riemersione del mito arcadico scorta da Roberto Talamo nella poesia di Isabella Morra. Valorizzando in maniera assai originale un componimento del Canzoniere morriano, nel quale le lacrime della poetessa vengono assimilate a dei fiumi (“i fiumi di Isabella), l’autore insiste sul tema della metamorfosi della fanciulla in acqua e richiama alla memoria il mito di Aretusa in cui è celato il significato di una erranza del regno di Arcadia: la fanciulla, infatti, lascia la sua terra arcade in forma di acqua per raggiungere un’altra terra, la Sicilia. La personalissima Arcadia della poetessa, pertanto, è nel saggio studiata nel suo speciale rapporto poetico con il paesaggio lucano.
Che funzione svolge, nella poetica barocca, il mito arcadico e quale declinazione del tema del paesaggio arcadico si rinviene nell’opera di Algarotti e Meli?
Cercare il mito arcadico nella poetica barocca appare immediatamente una scelta audace e quasi senza possibilità di soluzione. Eppure alla ricerca del regno errante come terra della poesia è rivolto il saggio di Marco Carmello sull’Arcadia barocca e mariniana. Prendendo le mosse dalla lettura di due dipinti di Guercino (Et in Arcadia ego e Lo scorticamento di Marsia) lo studio risolve con audacia la questione spinosa se possa darsi memoria arcadica proprio nella poetica barocca della meraviglia, che gli studi hanno tradizionalmente definito a partire proprio dalla sua netta opposizione rispetto alla norma del rapporto con l’antico, ristabilita dall’Accademia dell’Arcadia settecentesca. Ponendo la memoria del mito arcadico al fondo della poetica barocca, l’autore si addentra con grande perizia anche nei meandri dell’Adone, conducendo in particolare un’analisi del canto IX, per definire l’Arcadia qui presente come una terra d’origine della poesia in cui uomini e dèi possono entrare in conversazione fra loro attraverso la calibrata geometria del verso poetico. Se l’isola della poesia mariniana è nella variazione barocca una Arcadia ipercolta, recintata da un filo d’oro e attraversata dalla fonte Ippocrene, e rimanda ad una fusione fra la poesia panica, quella arcadica, quella dionisiaca e quella apollinea, di altra natura appare il paesaggio arcadico di cui si tratta nel saggio di Anna Clara Bova su Algarotti e Meli. È uno studio già pubblicato in un volume della stessa autrice: Del mito e della poesia (Graphis, 2007). Per la speciale affinità di temi e di riflessioni con quanto da noi raccolto, era particolarmente felice la sua ripubblicazione proprio in questa sede. Infatti, in questo scritto si trova una particolare declinazione del tema del paesaggio arcadico. Se in Algarotti l’isola di Citera rimanda ad una Arcadia intesa come natura disciplinata, educata e, in ultima analisi, estetizzata, secondo l’immagine del giardino e secondo il principio della demitizzazione che svuota di significati sacrali il mito per ridurlo ad uno sfondo mondano, ben più mossa e complessa è l’idea di natura arcadica che emerge dalla poesia in dialetto siciliano dell’arcade Meli. Senza alcuna tonalità idillica e erotico-galante, l’Arcadia di Meli scompagina il topos del locus amoenus per restituire una idea di natura non artificialmente plasmata che è piuttosto da ricondurre all’idea del regno della poesia, date le sue apparenze fantasmatiche e segrete. In tale nozione di poesia come antropomorfizzazione della natura, l’orizzonte di demistificazione della demitizzazione creato da Meli rimanda ad una dimensione sapienziale dell’operazione poetica che costringe però il poeta-sapiente ad una condizione di marginalità e di isolamento. In conclusione, quindi, le pagine di questo libro sono un attraversamento più o meno segreto e sotterraneo di quella terra di speciale alterità rappresentata dall’Arcadia, intesa anche come modello politico di comunità senza città e senza stato. Essa è la terra della poesia e tale mondo è stato posto sotto l’ala protettrice di un femminile ninfale che da sempre lo custodisce.
Lucia Dell’Aia ha ottenuto l’Abilitazione Scientifica Nazionale per professore associato di Letteratura Italiana e ha in precedenza conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università degli Studi di Bari, dove è stata assegnista di ricerca e docente a contratto. Fa parte del gruppo di ricerca internazionale “Harpocrates” e del comitato editoriale della rivista “Enthymema”. Ha studiato questioni relative ai generi letterari, alla ricerca delle fonti, al rapporto fra mito e letteratura e ha pubblicato vari saggi, curatele e volumi su Morante, Ariosto e Agamben. Più di recente si è occupata anche di Dante e ha in corso uno studio su Boccaccio.