
Quali provvedimenti adottò il governo genovese per favorire l’immigrazione ebraica?
Fino a quel momento la Repubblica non aveva consentito agli ebrei che il transito o qualche breve soggiorno nella capitale mediante il rilascio di permessi individuali; l’editto del 1654 segnava una svolta rispetto al passato per quanto riguardava il rapporto tra Genova e gli ebrei perché si rivolgeva a tutti coloro i quali avessero inteso trasferire in città residenza e attività economiche – si badi bene – ad eccezione di quella relativa al prestito. Nel 1658, superato il flagello della peste, si pubblicarono i “Capitoli per la nazione ebrea”, un corpus di norme volto a regolamentare nel dettaglio ogni aspetto della vita dei nuovi venuti. Le principali concessioni riguardavano l’ampio salvacondotto che avrebbe coperto eventuali reati commessi e debiti contratti in passato al di fuori dei confini dello Stato, la facoltà di poter celebrare i propri riti in una sinagoga e di possedere schiavi – ovviamente non cristiani – nonché l’autonomia nella gestione delle vertenze civili che avessero visto coinvolti soltanto contraenti ebrei. Inoltre, i Capitoli del 1658 prevedevano la creazione di una nuova figura, i Protettori della nazione ebrea, due membri del patriziato cittadino deputati ad esercitare un ruolo di tutela e di controllo sulla comunità e di funzionare da punto di raccordo tra questa e gli organi di governo della Repubblica. Nonostante il continuo confronto con Livorno, i modelli ai quali i legislatori genovesi si ispirarono nel pensare la sistemazione di una minoranza ebraica in città erano Venezia e Roma; anche a Genova si optò dunque per demarcare la separazione tra gli ebrei ed il resto della popolazione adottando due provvedimenti allora in voga negli antichi Stati italiani, vale a dire chiudendoli in un ghetto e costringendoli a portare il segno giallo.
Numerose vicissitudini portarono negli anni successivi alla concessione di nuovi Capitoli e alla loro revoca, provocando una brusca battuta d’arresto per l’immigrazione ebraica; bisognerà attendere il nuovo secolo, dopo che la comunità di fatto si era pressoché azzerata, per il ritorno in città di ebrei intenzionati ad avviare attività di negozio. La politica altalenante tenuta dalla Repubblica riguardo alla questione ebraica risentiva sia delle valutazioni di carattere economico – l’apporto degli ebrei al traffico cittadino non fu mai reputato decisivo – sia in relazione alle contingenze di politica internazionale, su tutte la grave crisi con la Francia degli anni Ottanta. Si trattava comunque di un atteggiamento generale riconoscibile dietro a diverse condotte adottate dalla Repubblica che nel Seicento di fatto vanifica alcune buone intuizioni agendo con titubanza, senza la necessaria determinazione e desistendo di fronte alle prime difficoltà.
Quali vicende segnarono la convivenza tra la minoranza religiosa e le autorità cittadine?
L’arrivo in città degli ebrei fu caratterizzato da numerose difficoltà. Innanzitutto, tra i primi a trasferirsi in città già dal 1654 vi erano diversi uomini d’affari interessati alla gestione di alcune privative, su tutte quelle del tabacco e dell’acquavite. La risposta delle autorità cittadine, come detto contrassegnata da un’eccessiva prudenza, penalizzò gli imprenditori ebrei non consentendo loro di accedere agli appalti più remunerativi: per contro, furono proprio gli ebrei ad introdurre a Genova il caffè e ad ottenerne l’istituzione della privativa. La peste che investì Genova nel 1656 ebbe poi effetti catastrofici dal punto di vista demografico ed economico, bloccando di fatto l’immigrazione ebraica per un biennio. Quando nel 1658 le autorità della Repubblica e del Banco di San Giorgio composero la bozza dei Capitoli per la nazione ebrea, furono la Santa Sede e l’inquisitore di Genova a spingere per un inasprimento delle norme che impedisse l’approdo in massa nello scalo ligure dei cosiddetti “giudaizzanti”, cristiani di origine ebraica accusati di essere segretamente tornati all’ebraismo o comunque intenzionati a tornarvi. Poi, per quanto entità diverse rispetto alle autorità ecclesiastiche ed agli organi della Repubblica, anche le corporazioni di mestiere della città rientrano tra le istituzioni che ebbero modo di interfacciarsi con gli ebrei, senza dubbio in maniera ostile. L’arte dei merciai e quella dei repessini – ossia i rivenditori di usato – figurarono senza dubbio tra i più strenui oppositori degli ebrei della città; con argomenti perlopiù pretestuosi i nuovi arrivati vennero infatti accusati di sottrarre fette di mercato agli operatori locali, un atteggiamento che ci riporta a dinamiche sin troppo attuali e familiari. Generalmente molto positivi si rivelarono invece i rapporti tra la comunità e le figure dei Protettori della nazione i quali, nelle svariate occasioni in cui nel corso degli anni furono interpellati, si dimostrarono lontani da preconcetti antisemiti e sinceramente impegnati a perorare la causa degli ebrei cittadini.
Quali storie sono rappresentative delle dinamiche sviluppatesi all’interno della comunità ebraica genovese?
Premetto che la mia intenzione non era quella di scrivere una storia della comunità, bensì volevo studiare in che modo la Repubblica avesse inteso utilizzare l’elemento ebraico per rilanciarsi sui mercati del Levante. In ogni caso, la distruzione dell’archivio della comunità avvenuto a metà del Settecento ci avrebbe ad ogni modo precluso la possibilità di uno sguardo dall’interno, costringendoci a studiare questa presenza quasi esclusivamente dalla prospettiva delle autorità genovesi. La documentazione seicentesca è abbastanza prodiga di riferimenti alla vita quotidiana degli ebrei che nella seconda metà del secolo avevano deciso di trasferirsi in città: non mancano vertenze di carattere commerciale, atti notarili vari, suppliche, pratiche relative al ghetto, resoconti dei Consigli cittadini. Non è quindi impossibile capire di più riguardo alle dinamiche che caratterizzavano la comunità, il suo assetto interno e i luoghi della quotidianità.
All’interno della comunità un ruolo di spicco era occupato dai due massari, figure autorevoli elette dai membri della stessa e confermati dalle autorità della Repubblica. Tra le loro prerogative i massari gestivano le cause civili in seno alla comunità, oltre ad avere la facoltà di espellerne i membri ritenuti indesiderati o scandalosi. Non è chiaro se anche a Genova – come per comunità ebraiche più strutturate come quelle di Livorno e Venezia – si fosse sviluppato un sistema di confraternite assistenziali, ma i pochi indizi a riguardo mi fanno propendere più per il no. Per quanto riguarda il rito religioso, di sicuro a Genova vi furono diversi locali che negli anni furono adibiti a sinagoga, dall’oscuro ambiente all’interno del primo ghetto cittadino fino a quella allestita nella zona del molo ad inizio Settecento e frequentata fino all’infamante emanazione delle leggi razziali fasciste del 1938.
Nei primi vent’anni dal loro arrivo gli ebrei a Genova vissero nel ghetto, luogo di segregazione e discriminazione per eccellenza ma anche matrice di identità e di appartenenza. Il primo, conosciuto come ghetto di Santa Sabina, era costituito da un complesso di edifici di origine medievale posto a ridosso della darsena e del varco occidentale della cinta muraria cittadina del XII secolo. Il ghetto di Santa Sabina fu smantellato nel 1674, quando gli ebrei vennero trasferiti più ad occidente, in un gruppo di caseggiati affacciati su piazza dei Tessitori. Sotto al loggiato di questa piazza, oggi scomparsa, si allestì la nuova sinagoga, mentre un appartamento attiguo viene ristrutturato per ospitare il mikveh della comunità, ossia il bagno rituale. Questo secondo ghetto ebbe vita brevissima, abbandonato dopo soli cinque anni in seguito alla revoca dei Capitoli; a partire dal 1679 la maggior parte degli ebrei abbandonò la città, ma quei pochi che reputarono utile rimanere riuscirono ad ottennere dei permessi di soggiorno e si domiciliarono nelle adiacenze del porto. Seguirli in questa ultimo scorcio di secolo è stato più difficile, con la documentazione perlopiù limitata alle suppliche volte ad ottenere i permessi e alle fonti doganali, assai “fredde” per quanto utili. Gli ebrei ripresero a poter risiedere liberamente in città dopo la concessione nel 1711 di nuovi Capitoli a loro riservati, una misura si inseriva nel contesto di un rinnovato slancio della Repubblica verso il Mediterraneo orientale. L’improvvisa cessazione dei rapporti tra Genova ed Istanbul maturata nel contesto della Seconda Guerra di Morea (1714-1718) decretò la fine delle velleità levantine dei genovesi e l’accantonamento della pretesa di utilizzare gli ebrei come mediatori. Diversi di loro rimasero in città fino allo scadere dei capitoli – qualcuno facendo anche ottimi affari dal punto di vista economico – tuttavia senza più quella rilevanza che, almeno nelle intenzioni della Repubblica, gli ebrei avrebbero dovuto avere.
Andrea Zappia è dottore di ricerca in Storia moderna e membro del NavLab (Laboratorio di Storia marittima e navale dell’Università degli Studi di Genova). È autore di Mercanti di uomini. Reti e intermediari per la liberazione dei captivi nel Mediterraneo (Genova 2018).