
Il metodo scientifico, dunque, è un problema perché – soprattutto nella rappresentazione che ne hanno i non specialisti – considerazioni legate all’uno o all’altro di questi punti di vista si scontrano e si intersecano tuttora in una quantità di immagini contraddittorie e spesso confuse. Un esempio di questa incertezza “pubblica” può essere rintracciato, in questo momento, nei dibattiti sulla pandemia. È innegabile il forte disorientamento da parte di quanti – forse la maggioranza – reclamavano certezze dagli scienziati, muovendo dall’assunto dato-per-scontato dell’immagine “classica” di una comunità scientifica che procede concordemente sulla base appunto di un condiviso “metodo scientifico”. Quello che è emerso è invece la molteplicità mutevole di conclusioni diverse e spesso violentemente antagoniste, tutte però presuntamente legittimate dal riferimento a precisi “canoni scientifici”.
Tornando alla domanda, dunque, il metodo delle scienze sociali è un problema quanto meno per la ragione fondamentale e inevitabile che non è del tutto chiara, né univoca, la nozione stessa di metodo scientifico.
Come si è articolato il processo attraverso il quale è andata definendosi una specifica consapevolezza metodologica con riferimento alle scienze sociali?
Le scienze sociali, e la sociologia in particolare, non nascono da un intento semplicemente conoscitivo, quanto piuttosto da una intenzione direttamente operativa. L’idea, nei primi decenni del XIX secolo, è in altri termini quella di perseguire una conoscenza specifica degli accadimenti sociali soprattutto allo scopo di migliorare la vita dell’uomo in società. È in particolare Auguste Comte, il positivista francese, che si fa sostenitore di questo progetto, pur fra le molte e non piccole ambiguità e contraddizioni del suo pensiero. In alcuni autori questa idea arriverà a mostrare i margini di una vera carica utopica, che prefigura la possibilità – e la necessità – di una completa rifondazione della vita sociale. In ogni caso le nuove scienze sono immediatamente investite di una precisa e ineludibile responsabilità sociale, nel senso di essere chiamate a delineare quel sapere certo che possa validamente guidare l’azione riformatrice. Per questa ragione devono possedere (quella che allora è ritenuta) l’autorevolezza indiscutibile delle scienze della natura, e rifarsi con determinazione al quel metodo scientifico che, nell’ambito delle scienze della natura, sembra aver dato tante buone prove di sé. Ciò che quindi la sociologia deve fare, nelle parole aspre e dirette di Emile Durkheim, è “semplicemente” impegnarsi a studiare i fatti sociali come cose. Neanche in quest’ambito, infatti, può essere questione di opinioni: come le cose, precisamente, i fatti sociali hanno una loro realtà inequivoca, una precisa conformazione e caratteristiche “oggettive” che si impongono alla vita degli individui e che non possono essere trascurate, nelle loro implicazioni e conseguenze, dal progetto riformatore. Siamo nel 1895 e, qualunque idea ne abbia Durkheim, “le cose” – appunto – non sono affatto così semplici. Le scienze della natura, infatti, stanno già perdendo, nella consapevolezza di molti scienziati e filosofi della scienza, la baldanza e la sicurezza che l’opinione comune si ostina ad attribuire loro. In certi luoghi della riflessione intellettuale è la scienza in generale che mostra di aver perso credibilità. Non sono solo le dirompenti critiche di Nietzsche a lasciare segni profondi e destabilizzanti. I filosofi vitalisti come Bergson ed altri con loro sostengono apertamente che “la scienza ha fatto bancarotta”, che ha mancato alle sue promesse di rigenerazione e di felicità, e che ciò che riguarda la vita dell’uomo esige un tipo di strategia diversa rispetto ai “semplici” fatti del mondo della natura. Questa è precisamente la strada imboccata dagli storicisti in Germania, dove l’idea di una sociologia come scienza positivista – quantitativa e generalizzante – non aveva mai trovato molto credito. Sarà così teorizzata una dualità irriducibile di approcci e di percorsi di verità. Da una parte il procedimento causale, tipico delle scienze della natura, e dall’altra la comprensione, specificità costitutiva e fondante delle “scienze dello spirito”. I due metodi non hanno, in questa prospettiva, alcun punto in comune, ed anzi disegnano una diversità radicale: l’uomo studia i fenomeni della natura proprio come uno straniero osserva un mondo non suo, e del quale fatica a capire il senso, mentre vive da protagonista gli eventi del mondo della cultura, ed è quest’ultimo il suo vero e specifico universo di significato. Una conoscenza parziale ed estraniata è tutto ciò che è possibile in riferimento agli eventi della natura, mentre una profonda esperienza di verità, garantita dall’operare nel proprio autentico mondo, è invece prerogativa delle scienze dello spirito, di cui osservatore e osservato sono entrambi parte vivente. Sarà soprattutto il contributo di Max Weber a suggerire la possibilità di intendere in termini non oppositivi la differenza fra i contrastanti modelli dello spiegare e del comprendere, così da ristabilire la possibilità di una connessione metodologica fra le scienze naturali e quelle che lui chiama le scienze storico-sociali. Anche in questo caso, tuttavia, è bene guardarsi dalle sintesi troppo semplici: il processo è infatti assai articolato e include il contributo fondamentale di diversi indirizzi di pensiero – fra i quali occorre ricordare almeno il dibattito interno al positivismo logico ed al pragmatismo – come pure quello di specifiche rilevanti individualità, coma ad esempio John Dewey.
Quali peculiari problemi si pongono in tale ambito?
Questa è una domanda particolarmente difficile, alla quale corrispondono tradizionalmente risposte davvero molto diverse, che includono entrambe le posizioni estreme, di chi teorizza l’assoluta e irrecuperabile diversità dei modelli metodologici, e di quanti invece – per la verità una minoranza – continuano a sostenere la fondamentale unicità del metodo scientifico. E l’aspetto decisamente paradossale è che, in qualche misura ed in un qualche senso, entrambi i fronti avanzano argomenti condivisibili. Al più generale livello teorico si può sostenere che scienze naturali e scienze sociali condividano tutti i problemi che si pongono nel concreto processo di indagine. In entrambi i casi è inevitabile scontrarsi con il problema della selezione di ciò che è scientificamente rilevante – non esistono fatti che “parlano da soli” – o con quello della concettualizzazione degli elementi empirici e del confronto con la teoria. In nessun caso il ricercatore può sottrarsi al problema cruciale dell’interpretazione dei dati e delle teorie, ed a quello del controllo pubblico delle inferenze che trae dalle sue analisi. Nessun ricercatore, che lavori nelle scienze naturali o in quelle sociali, interviene nel processo di indagine esclusivamente sulla base delle componenti “ispezionabili” di quel che sa e conosce: in ogni caso hanno parte nel processo anche variabili opache, che hanno a che fare con la soggettività e l’individualità – storica, culturale e personale – di chi concretamente interviene nel processo. In realtà non esiste un metodo scientifico che sia separabile da una ermeneutica, e che consista quindi in precetti da semplicemente applicare. Peraltro questi stessi problemi si pongono nei due ambiti con intensità e con urgenza spesso molto diverse, al punto da condizionare profondamente le rispettive modalità e possibilità. Tanto per fare un esempio elementare è inevitabile riflettere sul grado di coinvolgimento personale – di vera avventura anche umanamente significativa – che l’analisi di un problema socialmente delicato e difficile impone al sociologo, seppure condivida la medesima “logica dell’indagine” dei colleghi che lavorano in ambiti meno sensibili. È in realtà per questa specifica salienza dei problemi legati al coinvolgimento della persona-ricercatore e dei soggetti coinvolti nell’indagine che il metodo delle scienze sociali costituisce in qualche modo un problema nel problema.
In che modo lo sviluppo metodologico della scienza moderna consente di superare il dualismo tra scienze storico-sociali e “scienze della natura”?
A ben riflettere questo preteso dualismo ha in sé ben poco di filosoficamente necessario. La scienza, nella sua fisionomia moderna, è andata costruendosi attraverso un processo assolutamente unitario, un luogo comune di elaborazione e di riflessione, nel quale problemi cruciali come quello della “oggettività” della conoscenza, del rapporto tra “fatti” e teoria o del coinvolgimento del ricercatore in quanto istanza attiva e non semplicemente passiva nel processo di indagine – si pensi per fare un solo esempio al principio di indeterminazione elaborato nell’ambito della fisica – sono stati dibattuti nelle loro implicazioni epistemologiche generali.
Personalmente, credo sia inevitabile accettare l’idea di un metodo scientifico debole: di un modello metodologico, in altri termini, che sia consapevole dei propri inevitabili margini di incertezza e opacità – e che quindi abbia rinunciato definitivamente alla pretesa rassicurante di regolare integralmente e pubblicamente tutti i passi procedurali del ricercatore – ma che nello stesso tempo non rinunci a se stesso, cioè alla funzione fondamentale di distinguere il processo scientifico da altre forme di conoscenza e di scoperta che l’attività umana continuamente persegue e che non sono certamente meno essenziali della conoscenza scientifica, bensì semplicemente, rispetto a quest’ultima, diverse e diversamente costruite.
Enzo Campelli è professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato Metodologia delle scienze sociali. È autore di saggi e volumi di interesse metodologico, fra i quali Il metodo e il suo contrario. Sul recupero della problematica del metodo in sociologia (1991), Da un luogo comune. Elementi di metodologia delle scienze sociali (1999 e 2009), Nullius in verba. Il metodo nella rivoluzione scientifica (2016). Ha ricoperto numerosi incarichi accademici ed è direttore della rivista quadrimestrale Sociologia e Ricerca Sociale.