“Il mestiere dell’uomo. Perché la cultura umanistica fa bene all’impresa italiana” di Marco De Masi

Dott. Marco De Masi, Lei è autore del libro Il mestiere dell’uomo. Perché la cultura umanistica fa bene all’impresa italiana edito da Luiss University Press: è possibile conciliare cultura umanistica e cultura d’impresa?
Il mestiere dell’uomo. Perché la cultura umanistica fa bene all’impresa italiana, Marco De MasiIn questo piccolo percorso non mi sono imbattuto in imprenditori filologi, in cacciatori di manoscritti come Poggio Bracciolini… Però ho avuto il privilegio di parlare con imprenditori e manager che si sono interrogati a fondo sulla cultura della propria impresa, sulla differenza tra profitto e valore, su come arricchire il patrimonio valoriale della propria organizzazione – rendendola così più adattiva e più resiliente. In altre parole, ho incontrato delle persone d’impresa che, nel loro lavoro, di fatto applicano le lezioni degli umanisti.

In che modo l’umanesimo può rendere più competitive le aziende?
Mi permetta di usare le parole di Martin Reeves, presidente del BCG Henderson Institute. “Trent’anni fa, essere filosofo ed economista allo stesso tempo era probabilmente umanamente interessante, ma forse inefficiente in termini di business. Il mondo è andato verso una maggiore specializzazione, e questo ha assolutamente senso quando si ha a che fare con problemi particolarmente complessi e quando la loro segmentazione è chiara e stabile. Ma quando abbiamo a che fare con instabilità o incertezza, quando cioè abbiamo bisogno di imparare – non solo imparare nuove cose, ma imparare nuovi modi di imparare nuove cose – allora il generalismo e la comprensione di differenti visioni del mondo diventa cruciale”. Diciamo che alla competitività fa bene la disponibilità di saperi diversi all’interno della stessa organizzazione.

Cosa intendiamo quando parliamo di umanesimo?
Con il termine umanesimo, in storia della letteratura, ci si riferisce di solito a un periodo che va dalla metà del XIV secolo alla metà del XV, che si sviluppa attorno all’arco di tempo che Benedetto Croce chiamava “il secolo senza poesia”, e che va dalla morte di Giovanni Boccaccio alla pubblicazione delle Stanze di Angelo Poliziano. È significativo, però, che in questi anni il termine sia impiegato sempre più spesso per raccontare l’atteggiamento delle aziende che decidono, in qualche modo, di occuparsi in maniera continua dell’ascolto delle necessità di tutti i portatori d’interesse. La mia impressione è che si cominci a parlare di umanesimo in azienda intendendo la necessità di articolare una più puntuale riflessione sulle conseguenze che le attività di un’organizzazione possono avere sulle persone, dentro e fuori l’organizzazione stessa.

In che modo alcune persone, aziende e istituzioni fanno propri alcuni tratti della cultura umanistica, trasformandoli in elementi di competitività?
Ogni capitolo prova a raccontare uno di questi modi possibili – e sono davvero molteplici, considerando quanto articolato sia stato l’umanesimo e quanto complesso sia il nostro contesto. Se dovessi indicarne uno solo, direi: facendo convivere e collaborare saperi diversi all’interno della stessa organizzazione. Questo – ed è la lezione che ho imparato – aiuta l’organizzazione a essere più resiliente e più pronta a comprendere le trasformazioni del contesto in cui è immersa.

Quali, tra i numerosi case study presentati nel libro, ritiene più significativi?
Questo breve saggio illustra dieci storie, dieci diverse ipotesi di lavoro per gli individui e le loro organizzazioni. Non esiste, o almeno non la conosco io, una pomata umanistica – e meno che mai una pomata migliore delle altre – da spalmare sulle imprese per aumentarne la competitività. Le persone che ho incontrato hanno generato dubbi, aiutato a formulare domande che credo possano aiutare le persone a leggere da un punto di vista nuovo il proprio contesto.

Marco De Masi, giornalista professionista, si occupa di comunicazione corporate per Boston Consulting Group

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