“Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia” a cura di Salvatore Capasso, Gabriella Corona e Walter Palmieri

Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall'Italia, Salvatore Capasso, Gabriella Corona, Walter PalmieriProf. Salvatore Capasso, Lei ha curato con Gabriella Corona e Walter Palmieri l’edizione del libro Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia pubblicato dal Mulino. L’accesso al mare rappresenta ancora oggi, per i paesi che vi si affacciano, un fattore logistico di cruciale importanza: in che modo il Mediterraneo costituisce un’immensa fonte di risorse?
Nonostante la lunghissima storia di commerci e intrecci dei popoli che dimorano sulle sue sponde, il Mediterraneo ad oggi è una delle aree meno integrate dal punto di vista economico. Negli ultimi decenni è in atto un vistoso processo di integrazione commerciale che è lungi dall’aver portato nel bacino livelli di scambi simili a quelli di altre aree, come per esempio il Sud Est asiatico o l’America Latina. C’è quindi spazio per ulteriore crescita di scambi commerciali e culturali, spazio e possibilità che sono accresciuti dalle grandi differenze in termini economici, demografici e sociali tra le diverse sponde. Questi scambi e una maggiore integrazione possono fare da volano alla crescita e allo sviluppo dell’Area e della quale beneficeranno non solo i paesi più piccoli e fragili della sponda sud ed est, ma anche le economie più grandi e mature dell’area euro, tra cui il nostro Paese. In questo senso i differenziali che esistono tra le sponde del bacino rappresentano una risorsa per tutti i paesi dell’area. Le grandi differenze demografiche, culturali, di vocazione produttiva e specializzazione industriale, sociali e di composizione della domanda, sono tutte terreno fertile per stimolare crescita e sviluppo attraverso una maggiore integrazione. Ed il mare e la contiguità territoriale sono fattori decisivi perché tale integrazione possa realizzarsi pienamente e velocemente.

Quali trasformazioni hanno interessato le coste del Mediterraneo nel ventesimo secolo?
Le trasformazioni politiche ed economiche, sociali e culturali che hanno interessato il Mediterraneo compongono un quadro talmente complesso da non poter essere sintetizzato in poche righe. Dopo la seconda guerra mondiale i paesi che si affacciano su questo mare hanno conosciuto cambiamenti radicali e molto differenti a seconda che si tratti della riva nord o di quella sud orientale: dai processi di decolonizzazione all’avvento dei nazionalismi islamici (si pensi all’Egitto e alla Libia), dalle conseguenze della nascita dello stato di Israele alle conseguenze delle politiche energetiche, dai difficili equilibri durante i decenni della Guerra Fredda agli effetti della caduta del muro di Berlino nei Balcani, dall’avvio di massicci processi migratori al fenomeno delle primavere arabe. La lista potrebbe allungarsi senza fine, e comunque continuerebbe a mostrarci un contesto estremamente vario. Eppure, a dispetto di questo scenario complesso e composito, esistono fenomeni di trasformazione comuni che hanno interessato tutto il Mediterraneo in modo trasversale. Tra questi, il fenomeno che ha maggiormente segnato la trasformazione delle aree mediterranee è stata la litoralizzazione e cioè lo spostamento della popolazione dalle aree interne e rurali verso le coste. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, pur avendo inizio negli ultimi decenni dell’Ottocento, questo fenomeno si trasforma in un vero e proprio esodo solo dopo gli anni Cinquanta del Novecento. Durante i decenni del miracolo economico le coste iniziano ad assumere una centralità e vitalità che era sconosciuta nel passato. Se si guarda ai paesi della riva sud ed est del Mediterraneo, l’incremento demografico e lo spostamento della popolazione verso le coste diventano fenomeni significativi soprattutto a partire dagli anni Settanta. Oggi circa un terzo della popolazione è concentrata lungo le coste e si aggira intorno ai 74 milioni.

In generale, se da un lato lo spostamento della popolazione verso le coste ha favorito un processo di crescita economica e di diffusione di nuovi modelli di consumo e stili di vita, dall’altro ha prodotto effetti nocivi sia dal punto di vista ambientale che sociale. La trasformazione delle coste e il forte carico che esse sono chiamate a sostenere a causa dell’espansione di porti e di città, del potenziamento di infrastrutture viarie e ferroviarie, dello sviluppo dell’agricoltura intensiva, della diffusione di colture irrigue e industriali, dell’accelerazione del consumo di suolo e dell’edificazione ha fortemente alterato i più complessi rapporti sistemici tra la terra e il mare. Basti pensare che circa la metà dei 47 mila chilometri di coste sono interamente cementificati.

Come si sono evoluti i sistemi urbani del Mediterraneo?
L’esplosione demografica, poi, si è sovrapposta allo sviluppo delle aree urbane attrattori di flussi migratori dalle aree interne e rurali. Caratterizzato dalla presenza millenaria di insediamenti umani e dalla concentrazione di attività intorno al suo bacino, il Mediterraneo è attraversato da profonde trasformazioni dei sistemi urbani che hanno conosciuto, in particolare a partire dagli anni Settanta del Novecento, il passaggio da un sistema urbano ad economia tradizionale ad uno ad economia industriale-terziario. Circa un terzo della popolazione dei paesi mediterranei è concentrata lungo le coste che contano oggi 321 centri con oltre 20 mila abitanti. Di queste città, 23 hanno una popolazione superiore ai 500 mila abitanti. Si tratta di uno sviluppo che ha peggiorato le condizioni ambientali delle zone costiere, oltre all’inquinamento marino e alla crescita delle emissioni di CO2, in particolare nei paesi della riva Sud del Mediterraneo. Pur in presenza di elementi comuni, lo sviluppo di sistemi metropolitani con caratteristiche globali si accompagna a profonde differenze che si riscontrano in particolare nelle aree meridionali ed orientali dove permangono gravi situazioni di emergenza come la presenza di guerre e di conflitti armati, di povertà e di migrazioni.

Quale impatto sta avendo sul mar Mediterraneo il cambiamento climatico?
Gli intensi processi di industrializzazione e urbanizzazione che, si è visto riguardano soprattutto le aree costiere, rappresentano una minaccia per la straordinaria ricchezza ambientale di questo mare che si caratterizza per la presenza di habitat diversificati, per la varietà delle condizioni climatiche che consentono la coesistenza di specie che appartengono sia a mari temperati che a freddi e subtropicali. Agli scarichi urbani ed industriali, allo sversamento del greggio durante il trasporto, all’abbandono dei rifiuti in mare, si aggiungono le forme di overfishing ovvero di sfruttamento indiscriminato di specie ittiche non adatte al commercio. Il cambiamento climatico, in particolare, sta innescando un processo di alterazione ambientale che riguarda soprattutto le aree costiere particolarmente esposte all’innalzamento del livello del mare con conseguenze che si prevedono gravissime nel corso dei prossimi decenni, soprattutto per i paesi della riva meridionale e orientale. Si prevede che nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa, gli impatti più significativi si manifesteranno non tanto in termini di estensione del territorio interessato dalla sommersione, ma soprattutto in termini di percentuale di popolazione colpita, diminuzione della produzione economica, distruzione di centri urbani, aree coltivabili e zone umide. A ciò si aggiungano le profonde trasformazioni che il surriscaldamento delle acque marine sta producendo nel patrimonio ittico. Le specie più rilevanti da un punto di vista commerciale sono proprio quelle più esposte e minacciate dal surriscaldamento. Inoltre, l’espansione delle specie aliene giunte a più di 800 e la “tropicalizzazione” del Mediterraneo, ovvero la colonizzazione di specie provenienti da mari tropicali e subtropicali, sono giunte a costituire il 15 per cento di quelle presenti.

Quale ruolo svolgono le Aree Marine Protette nella tutela del patrimonio ambientale?
Alla base delle politiche dell’Unione Europea, dal trattato di Barcellona nel 1975 alla New Mediterranean Policy all’inizio degli anni Novanta, si sono susseguite rappresentazioni di questo Mare che evidenziano interessi e preoccupazioni differenti: le esigenze di sicurezza si alternano spesso con l’obiettivo di facilitare gli scambi commerciali e di promuovere lo sviluppo economico dei paesi della riva sud. Una delle tendenze più recenti è l’impegno a valorizzare il cultural heritage, e a costruire un Patrimonio euromediterraneo condiviso, materiale e immateriale, composto da risorse sia naturali che culturali, sia ambientali che storiche. Questo sta accadendo anche in Italia, dove, dopo un complesso percorso normativo che prende le mosse dagli anni Sessanta, si giunge all’istituzione delle Aree Marine Protette nel 1991. Attualmente queste sono 27, a cui vanno aggiunti i due Parchi Nazionali della Maddalena in Sardegna e dell’Arcipelago Toscano e i due sommersi di Baia e Gaiola in Campania. Esse sono strumenti orientati alla tutela del territorio marino costiero e delle sue peculiarità naturali e antropiche, ma, al contempo, possono fungere da volano per uno sviluppo socio-economico fondato su attività, come la pesca e il turismo sostenibile, rispettose degli equilibri ambientali. Nonostante le difficoltà di applicazione delle norme che ne regolamentano il funzionamento, le aree marine protette svolgono un ruolo attivo di tutela laddove riescono a innescare il coinvolgimento delle comunità locali nella diffusione di buone pratiche di uso e valorizzazione delle coste e del mare: dalla salvaguardia delle tartarughe marine al controllo della pesca illegale, dalla tutela della piccola pesca ad attività di recupero dei mammiferi marini, dal rilevamento dell’impatto ecosistemico, alla bonifica delle spiagge e alle campagne contro la dispersione dei rifiuti in mare.

Se si considera poi il bacino nel suo insieme, non si può non citare in fatto di tutela del patrimonio ambientale la cospicua mappa di siti Unesco situati nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che sono stati inseriti nella “Lista dei patrimoni dell’umanità”. Importanti strumenti di protezione e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale mondiale, ad essi si riconosce un particolare valore universale: dalle testimonianze di antiche civiltà e di grandi tradizioni culturali, alle aree di eccezionale bellezza naturale; da habitat naturalistici unici, a esempi di interscambio di valori umani che riguardano arti e saperi; da esempi eccezionali di insediamenti umani, a usi virtuosi di risorse territoriali e marine. Proprio per essere stato un crocevia di culture e civiltà differenti, il Mediterraneo presenta una forte concentrazione di beni appartenenti al patrimonio dell’umanità. Con rammarico bisogna, tuttavia ricordare che esiste una forte disparità tra quelli situati nei paesi della riva Nord rispetto a quelli della riva Sud, e una prevalenza dei siti culturali su quelli naturali. Tra i siti della riva Sud, inoltre, prevalgono quelli in pericolo perché minacciati da cause naturali e umane come quelli in Libia, Palestina e Siria.

Quali dimensioni assume la blue economy nel Mediterraneo?
Bisogna ricordare che blue economy è un concetto recepito dalle istituzioni nazionali ed internazionali, nell’elaborazione di politiche volte a promuovere la crescita economica, l’inclusione sociale e la conservazione o il miglioramento dei mezzi di sussistenza, garantendo, nel contempo, la sostenibilità ambientale degli oceani e delle zone costiere. In particolare l’efficace politica di salvaguardia messa in campo dall’Unione Europea non ha mancato di mostrare i suoi risultati. Le aree marine protette, ad esempio, rientranti nella rete Natura 2000 sono giunte ad una estensione di 532,417 km² a cui si accompagna un notevole aumento della biomassa degli stock ittici nell’Atlantico nordorientale ed una eccellente qualità delle acque di cui godono i siti di balneazione comunitari. Per quanto riguarda il Mediterraneo in particolare, nonostante la flessione del numero degli occupati, l’economia blu genera qui 450 miliardi di dollari l’anno. Con il secondo più alto numero di navi da crociera in entrata e con una flotta da pesca superiore alle 81 mila unità, il Mediterraneo è ancora oggi bacino di innumerevoli potenzialità, sebbene contrastanti.

In che modo è possibile adottare modelli sostenibili di produzione e consumo nel settore della pesca?
La pesca, al pari della navigazione, è l’attività che, più di altre, riflette il millenario rapporto tra l’uomo ed il mare per la sopravvivenza e il sostentamento. E, tuttavia, nel corso dei secoli, questa attività ha subito profonde trasformazioni e cambiamenti radicali. Oggi il settore della pesca è un settore che utilizza tecnologie avanzate e un’organizzazione del lavoro moderna e efficiente. Gli accordi internazionali, firmati dai paesi mediterranei, per una gestione integrata delle zone costiere, nell’ambito del modello di produzione e consumo sostenibile elaborato dalle Nazioni Unite, individuano le linee ispiratrici, gli obiettivi e le principali direttive per una pesca sostenibile. L’obiettivo è programmare accuratamente le catture in sintonia con i processi di riproduzione degli stock ittici, indirizzare i consumi verso le specie più diffuse nel rispetto dei cicli riproduttivi, intensificare l’acquacultura anche per le specie marine. In relazione all’acquacultura, tra le nuove tecnologie vale la pena citare, per esempio, quelle che spingono alla riduzione dell’impatto sull’ambiente attraverso la fusione con l’acquaponica, ovverosia alla coltivazione di piante fuori dal suolo. I residui dell’allevamento di pesci sono utilizzati per la fertilizzazione di piante che a loro volta ossigenano e purificano l’acqua che serve a mantenere in vita i pesci, in un ciclo virtuoso. Questo permetterà di chiudere il ciclo vitale con una riduzione del dispendio di acqua.

Salvatore Capasso è direttore dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo (Ismed) e professore ordinario di Politica economica all’Università di Napoli «Parthenope»

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