
Il problema del Mare non è Napoli, ma la realtà. Esiste? Che cos’è? E come la si può rappresentare? Che cosa vedo quando guardo? Vedo davvero quel che c’è? La validità di qualunque punto di vista e la pretesa documentaria di certa letteratura coeva, quale quella degli scrittori napoletani ricordati nell’ultima parte del libro, diventano bersaglio di un’implacabile, corrosiva contestazione. Infatti, lo scrittore-osservatore che la Ortese ritiene, suo malgrado, di essere rappresenta non la scena del mondo, ma il proprio fastidio per la stessa scena. La quale, alla fine, rimane sostanzialmente inconosciuta; ferma nella sua immodificabile, opaca materialità. Cosí nel primo racconto, splendida ouverture e non semplice bozzetto veristico, la bambina gravemente miope che ritrova la vista grazie a un costoso paio di occhiali pagato dalla zia non può far altro che provare ripugnanza per gli oggetti di colpo messi a fuoco e cedere, di necessità, alla piú violenta nausea.
In anni di risvegliato entusiasmo per qualunque manifestazione della vita e di risorta fede nel potere della testimonianza, la Ortese getta, con leopardiano anticonformismo, un nuovo sudario sulle forme dell’esistenza e sulle teste dei letterati; e parla di spettri, di larve, insomma di morte – non quella ovvia, provvisoria della guerra, ma quella definitiva delle menti. Non c’è niente da capire; la ragione è finita, vinta da un’ottusa natura che va per la sua strada. Quegli scrittori napoletani, che credono o fingono di credere nel proprio lavoro intellettuale, sono solo degli illusi; anzi, dei defunti. La realtà fa orrore e perciò occorre fuggirne, lasciarsela alle spalle, non guardarla.
Eppure Il mare, con la sua vigorosa, a tratti espressionistica scrittura, sembra muoversi nella direzione opposta: parla, infatti, di situazioni concrete, di problemi sociali, di bruttezza urbana, di gentaglia allo sbando. La si direbbe una denuncia, un po’ come il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. E lo è; ma in seconda battuta. Il mare, prima di tutto, è una specie di reazione allergica, uno sfogo cutaneo: segnala l’esistenza di un mondo contaminato e «irritante», ma non intende né crede di potersi sostituire a quel mondo in qualità di documento o fotografia. La lingua, allora, pur mettendoci davanti alcuni quadri di brutale immediatezza, da inferno dantesco, non è mimetica, come si crederebbe, ma visionaria, «allucinata» (parola della stessa Ortese). E Napoli non è Napoli, ma un caso macroscopico, un fantasma mostruoso del fondo cieco che costituisce il peggio della vita.
Un esempio notevole, tratto dal terzo racconto («Oro a Forcella»): Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questa ragione erano decaduti in vizio e follia; infine, una razza svuotata di ogni logica e raziocinio s’era aggrappata a questo tumulto informe di sentimenti, e l’uomo era adesso ombra, debolezza, nevrastenia, rassegnata paura e impudente allegrezza. Una miseria senza piú forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre piú gli strati minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre piú esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di piú strane speranze il cuore degli ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.
Ecco, tra l’altro, spiegato il titolo (nel quale, però, si sente riecheggiare anche quello del bellissimo libro di Carlo Levi). […]
Inutile rimproverare a questo libro l’incapacità di offrire soluzioni o vie di uscita. Il suo fine non è politico o pratico, ma intimamente morale: negare consenso, pur anche evitando di proporre un’alternativa ai problemi della grande città sofferente, al male storico, a quel malessere che, nella premessa dell’edizione 1994, l’autrice definisce «spaesamento» e che è, prima di tutto, una condizione sua, una sua disperazione. Nel Mare troviamo illustrato il caso di una donna che, subiti i danni della guerra, traduce il suo dolore nelle espressioni di un paesaggio preesistente, lo «oggettivizza» nel degrado di un luogo storico, che è Napoli. Il realismo non-realistico della Ortese, alla fine, se proprio vogliamo parlare di realtà, si rivela una forma di soggettivismo estremo, che però – tanto è estremo – neanche per un momento si lascia scambiare per particolarismo o per capriccio. Ecco perché mentre leggiamo il Mare davvero siamo portati a scambiare per «film» tutto quello che ci viene raccontato; e, caduti nella sua corrente illusionistica, siamo pronti a gridare con l’autrice contro le rovine che ci stringono dentro e fuori. Per protesta, ultima realtà.»
tratto da Per una biblioteca indispensabile. Cinquantadue classici della letteratura italiana di Nicola Gardini, Einaudi editore