
Il secondo aspetto alla base del Sea Level Rise globale è legato alla fusione delle masse di ghiaccio che insistono sulla terra (a tale processo non concorrono gli iceberg o le masse di ghiaccio galleggiante sull’oceano). In un mondo più caldo i ghiacci fondono più velocemente, sia a causa della temperatura dell’aria, che a causa dell’accresciuta temperatura dell’acqua con la quale possono venire in contatto. Questa fusione riversa negli oceani una quantità di acqua impressionante, che ne fa salire il livello.
Negli ultimi 100 anni l’aumento medio della temperatura degli oceani in superficie è stato di circa 1 °C, anche se con grandi differenze da oceano a oceano. E questo causa un innalzamento medio del livello del mare in continua accelerazione: +1,3 millimetri l’anno nel periodo tra il 1901 e il 1971, +1,9 mm l’anno tra il 1971 e il 2006, per issarsi a 3,7 millimetri annui tra il 2006 e il 2018.
Di quanto può aumentare il loro livello entro la fine di questo secolo?
La risposta veloce e anche sufficientemente corretta è “crescerà abbastanza per creare un sacco di problemi e spingere centinaia di milioni di persone lontano dalle loro abitazioni”. E questo credo sia, purtroppo, l’unica cosa che conta. Se poi vogliamo parlare di centimetri o di metri, dobbiamo scendere un poco più nel dettaglio, e ricordare che la quantità di acqua che abbiamo sulla Terra è, grossomodo, costante. Si divide tra quella che troviamo liquida nei mari e fiumi, e quella che abbiamo solida sotto forma di ghiaccio (quella in forma di vapore in atmosfera è una quantità di molto inferiore). Sostanzialmente, la questione può essere ridotta in modo molto semplice: quando sulla Terra c’è abbastanza caldo, i ghiacci si fondono e il livello degli oceani sale. Quando c’è abbastanza freddo, il ghiaccio tende ad accumularsi e il livello dell’acqua nei mari tende a diminuire. E così è avvenuto per centinaia di migliaia di anni, assecondando le variazioni del clima della Terra,
Ora accade che, in una Terra sempre più calda a causa dell’effetto serra legato alle emissioni di gas serra come la CO2, anche gli oceani aumentano la loro temperatura. Questo da un lato fa aumentare il volume dei mari, e dall’altro (soprattutto) accelera la fusione delle distese di ghiaccio. E ne abbiamo tanto di ghiaccio sulla Terra… dato che se dovessero fondersi tutti i ghiacci di Groenlandia e Antartide avremmo come regalino un mare 70 (sette-zero) metri più alto di adesso.
Cosa accadrà da qui a fine secolo? Non è facile fare previsioni accurate, soprattutto per due motivi: 1) non sappiamo ancora che futuro vogliamo darci noi Sapiens (quali saranno le emissioni di gas serra nei prossimi decenni? Continueranno a crescere come sta accadendo ora? Verranno ridotte?) e 2) non sappiamo ancora molto di come si fonde il ghiaccio… esistono crescenti evidenze che possa rompersi in modo instabile, inatteso, con accelerazioni improvvise. Ecco perché uno scenario ragionevole parla di un aumento medio di 80-100 centimetri, ma esistono probabilità non poi così basse che si possano superare i 2 metri.
Quali sono le principali conseguenze di “un mare che sale”?
Sono conseguenze enormi, ambientali ma anche economiche; e, soprattutto, coinvolgono tutto il Pianeta, non solo quale isolotto o qualche atollo oceanico.
Un mare più alto rende le coste più facilmente allagabili, minaccia quindi innanzitutto le città costiere, non solo Venezia, ma anche vere megalopoli: Miami, New York, New Orleans, molte realtà del sud est asiatico tra cui Ho Chi Min in Vietnam, Shangai in Cina, Dhaka in Bangladesh… e una miriade di città più piccole e meno note, dove bisogna capire ora, adesso, darsi da fare per adattarsi, o da dove bisogna andarsene.
Il livello dei mari è uno dei principali fattori che determina i processi di erosione costiera, e il cambiamento della linea di riva, quindi modifica ne nostre spiagge, impatta il turismo e gli ecosistemi costieri. Esempi clamorosi li possiamo vedere nel nostro nord Adriatico, ma anche nelle isole Hawaii, dove spiagge di pregio sono state letteralmente inghiottite in pochi decenni.
Il livello del mare che sale porta anche l’acqua salata più in contatto con la terra della costa, e questo rende meno efficienti molte pratiche agricole, diminuisce i raccolti, e riduce la disponibilità di acqua dolce per uso potabile.
Un mare che sale mette anche a rischio infrastrutture costiere, strade, porti, aeroporti, impianti di produzione elettrica. Da ultimo, non va dimenticato che il continuo aumento del livello marino mina anche valori cosiddetti immateriali. Si pensi alla perdita di identità sociale di una popolazione costiera costretta a trasferirsi, ad abbandonare le proprie abitazioni, alla perdita di sicurezza finanziaria, lavorativa o del senso di appartenenza a luoghi che spariscono.
Forse esiste un livello di impatto che al tempo stesso riassume e supera tutti quelli descritti, ed è legato alla migrazione di esseri umani indotta da motivi climatici.
Secondo il World Economic Forum sono addirittura 800 milioni le persone che vivono in oltre 570 città costiere esposte ai rischi di un innalzamento di “soli” 50 centimetri, raggiungibile già nel 2050. E non possiamo ignorare come la maggior parte di questi migranti sia al momento concentrata in Paesi in via di sviluppo o estremamente poveri, che hanno senza dubbio contribuito in maniera estremamente marginale alle emissioni di gas serra alla base del problema che li colpisce. I peggiori effetti sono patiti proprio da coloro che non ne hanno generato le cause. Esiste quindi anche un grado di ingiustizia sociale che il mare che sale aggiunge, e con il quale dobbiamo fare i conti.
È possibile invertire questa tendenza?
La risposta è “Si, però…” Per farlo bisogna riportare verso il basso le concentrazioni di gas serra in atmosfera, e quindi abbassare la temperatura media del Pianeta e limitare la fusione dei ghiacci. E per fare questo servono scelte coraggiose e tanti, tanti anni.
Il livello del mare continuerà a salire a lungo, anche se domani spegnessimo di colpo tutte le fonti di CO2 e lasciassimo che piano piano il suo naturale riassorbimento la riportasse a livelli più bassi. Come dice bene il Sesto rapporto IPCC, dobbiamo parlare oramai di committed sea level, ossia di una quota di crescita del mare che siamo obbligati a tenerci in casa. Nei prossimi 2000 anni il livello globale salirà di almeno 3 metri se l’aumento della temperatura sarà limitato a +1,5 °C, e da 2 a 6 metri qualora arrivasse a +2 °C (valore che potremmo raggiungere però già a fine 2100); addirittura, salirebbe di oltre 20 metri nel caso il riscaldamento si portasse +5 °C.
Il motivo principale di questa inarrestabile tendenza risiede nella natura stessa dei nostri mari. La quantità di calore in eccesso che matura sotto l’atmosfera mentre continuiamo a emettere enormi quantità di gas serra è enorme, traducibile in circa 5 bombe atomiche della potenza di Hiroshima rilasciate ogni secondo. Oltre il 90% di questo calore è stato assorbito dagli oceani, che si sono sacrificati con il loro progressivo riscaldamento. La loro natura tridimensionale consente ora una lenta distribuzione del calore lungo la dimensione verticale, mentre le distese di ghiaccio possono impiegare secoli per fondere e raggiungere un nuovo equilibrio sulla base della nuova temperatura.
Ecco perché, pur auspicando che il tempo richiesto da questo processo per arrivare a una fase di equilibrio sia il più lungo possibile, è assolutamente necessario procedere verso una consistente e rapida diminuzione delle emissioni di gas serra, sapendo che questo approccio (seppur necessario) non è di per sé sufficiente a evitare grossi problemi. In parallelo, dobbiamo infatti iniziare anche ad assorbire parte della CO2 già emessa, sviluppando nuove tecnologie, e soprattutto impostare da subito un’adeguata pianificazione per minimizzare gli impatti, a partire dalle aree costiere che stanno andando sott’acqua con crescente frequenza verso una “nuova normalità”.
Quali azioni di adattamento sono dunque necessarie di fronte a questo problema?
Se vogliamo essere precisi, da un lato è necessario eliminare la causa del problema, dall’altra prepararsi a gestirne gli effetti. In altre parole, dobbiamo da un lato mitigare, cioè ridurre la quantità di gas serra nell’atmosfera, e dall’altro adattarsi, cioè prendere le necessarie misure per affrontare un clima che sta già cambiando.
Per la mitigazione servono tempi molto, molto lunghi, partendo dalla riduzione delle emissioni, e serve investire nella speranza tecnologica di qualche rimedio che acceleri questo percorso. Per l’adattamento invece possiamo puntare su scale temporali più brevi e su una varietà di ricette.
Possiamo proteggerci dal mare che sale cercando di impedire all’acqua di arrivare verso terra con opere di ingegneria più o meno “dure”, come muri, dighe, frangiflutti, barriere, o pompe idrovore.
Un altro approccio prevede di far avanzare la terra verso il mare, cioè creare nuovo territorio tramite la dislocazione diretta di sedimenti o con l’aiuto della vegetazione costiera, e collocare lì i futuri insediamenti.
Altra strada percorribile è quella di adattarsi, “sopraelevare” una parte di città, magari iniziando da proprietà e aree di particolare pregio, o da infrastrutture critiche come siti di produzione energetica, ripensando per tempo alle infrastrutture necessarie (ferrovie, strade, ponti).
Crescente attenzione sta ricevendo l’approccio di allearsi con l’ecosistema, denominato EbA (Ecosystem based Adaptation), assecondano le capacità di resilienza dell’ecosistema da proteggere (per es. sono infatti ben documentati gli effetti benefici di mangrovie o paludi nel limitare i danni creati da allagamenti, o la capacità dei coralli di limitare l’erosione costiera).
Si moltiplicano interessanti esperimenti come le sponge cities, “città spugna” capaci di poter assorbire e drenare, garantendo che aree pubbliche, parchi e stagni artificiali possano fungere da casse di accumulo durante gli eventi estremi o le mareggiate che si intensificheranno con l’aumento del livello del mare.
E, ovviamente, non possiamo escludere nemmeno che come risposta al mare che sale si debba, a volte, scegliere l’abbandono della costa, soluzione ovviamente drastica seppur efficace.
Insomma, un cocktail di misure tra le quali scegliere di volta in volta, valutando attentamente il rapporto costi/benefici, ma che saranno inevitabili.
Sandro Carniel, oceanografo di fama internazionale, è dirigente di ricerca del CNR e direttore della divisione di ricerca del CMRE, unico centro di ricerca e sperimentazione marittima NATO. Autore di oltre 250 articoli scientifici di settore, è un apprezzato divulgatore scientifico. Ha scritto Oceani (2018) ed è coautore di C’era una volta il bosco (2019), entrambi editi da Hoepli. È membro del comitato scientifico di One Ocean Foundation.