“Il male quotidiano. Incursioni filosofiche nell’horror” di Davide Navarria e Selena Pastorino

Prof.ri Davide Navarria e Selena Pastorino, Voi siete autori del libro Il male quotidiano. Incursioni filosofiche nell’horror, edito da Rogas: innanzitutto, cos’è l’horror?
Il male quotidiano. Incursioni filosofiche nell'horror, Davide Navarria, Selena PastorinoSelena Pastorino: Per presentare il nostro lavoro è fondamentale partire da questa domanda, perché la sua riscrittura si è resa necessaria per l’approccio filosofico che abbiamo deciso di adottare. In altre parole, mentre ci si aspetterebbe dalla filosofia che affronti l’horror in maniera distaccata e disincarnata, come un oggetto da definire nella forma “che cos’è”, noi siamo partiti dalla consapevolezza che questa domanda sia spesso destinata allo scacco, al fallimento. L’insoddisfazione circa la nostra capacità di definire il reale è però tutt’altro che distante dall’esperienza che ci offre l’horror: nel fruire questo genere ci troviamo infatti confrontati con la nostra limitatezza, con l’insufficienza della nostra ragione, con la vulnerabilità del nostro corpo. Abbiamo allora riformulato la domanda nei termini di “com’è” l’horror e abbiamo evidenziato quanto il suo funzionamento sia legato a quello che noi proviamo, fisicamente, nell’esperirlo. Solo tramite questo sentire corporeo l’horror funziona, accede a noi e, soprattutto, ci fa accedere a una diversa coscienza di noi stessi, come parte della realtà, come intramati di quegli aspetti oscuri che il genere mette in scena, senza pietà o pudore per le nostre belle convinzioni intellettuali.

Perché siamo attratti dall’orrore?
Davide Navarria: Siamo convinti che l’horror sia un genere sottovalutato e spesso ridotto, nell’immaginario comune, a un prodotto riservato a chi è in cerca di facili brividi o che gode a coltivare passioni strane e perverse per il macabro, il disgustoso, lo schifoso. E siamo altrettanto convinti che tale lettura sia decisamente fuorviante e non colga nel segno. Certo, c’è horror e horror e anche qui prodotti mediocri abbondano da sempre, ma giudicare una categoria prendendo a esempio i suoi elementi più scadenti non è operazione intellettualmente onesta. Allora, tornando alla questione cruciale circa l’attrazione che l’orrore è in grado di suscitare in noi, direi anzitutto che l’horror ci piace perché è onesto. La narrazione horror è infatti in grado di metterci brutalmente innanzi a verità dell’esistenza che vorremmo censurare. Che moriamo, per esempio. O che non siamo mai davvero al sicuro. Ci dice che là fuori (e spesso anche “qua dentro”) è pieno di mostri terrificanti. Tale dimensione rivelativa dell’horror non è quasi mai fine a sé stessa, poiché intorno al “buio”, al “non senso”, alla ferita e al trauma che siamo chiamati a osservare (in modo quantomai partecipe), si allestisce sempre, in un horror che si rispetti, la risposta umana all’evento imponderabile. L’orrore è dunque una scena privilegiata all’interno della quale può giocarsi il destino dell’eroe. E dunque si configura come palestra d’esistenza e ricettacolo di questioni fondamentali, che la situazione estrema narrata sollecita ed evidenzia. Tutto si fa più chiaro, più essenziale, più minimale e dunque più umanamente denso e interessante quando sei costretto a fare i conti con ciò che per te in fondo vale, se tutto questo accade mentre uno zombie cerca di mangiarti il cervello, o i fantasmi del tuo passato continuano a sussurrarti ciò che non vorresti in alcun modo rievocare. L’horror ci offre l’occasione di confrontarci con il male. Ci racconta che esso ha tantissimi volti, tutti terribili. Eppure, paradossalmente, l’horror apre alla speranza ed è meno pessimista di quel che sembri. Perché ci dice anche che, sebbene il male sia, come già detto, terribile, può tuttavia essere affrontato: esiste anche il bene, e ci sono i buoni. Ci dice che c’è del marcio e contestualmente che non è tutto marcio. Che c’è del corruttibile ma che non tutto è corrotto. È possibile resistere. L’horror dice dell’orrore del reale, come è evidente. Ma dice anche che la realtà può essere dolce e piena di grazia e bellezza. Si sa che Eros e Thanatos vanno a braccetto. L’orrore, parlando del male, illumina squarci di bene. Straziando le carni, lenisce il dolore. Evoca demoni ma anche li placa. Altro che semplice passatempo per appassionati!

Che forme assume, nelle narrazioni orrorifiche, lo spazio?
Davide Navarria: Lo spazio è una delle dimensioni più “deformabili” e deformate nella narrazione orrorifica. L’horror più riuscito è spesso quello in grado di decostruire le solide certezze di cui abbiamo bisogno per districarci nelle strade del quotidiano. Certezze alle quali ci ancoriamo per non precipitare nell’abisso del non senso cognitivo, etico, esistenziale. Le coordinate di cui ci facciamo scudo possono essere più o meno dipendenti, per ogni individuo, dalle diverse esperienze di vita, dalle eventuali convinzioni religiose e, non ultimo, dalle configurazioni socio-culturali che ci hanno accompagnato nel corso della vita. Eppure, nonostante tali variabili, vi sono alcune coordinate e certezze che potremmo senza allontanarci troppo dal vero definire universali. Tra queste, la nostra collocazione in precise coordinate spaziali (per quanto diversamente simbolizzate nelle varie culture) gioca da sempre un ruolo fondamentale nel nostro prender posto nel, e abitare il mondo. Si potrà discutere su che cosa vada collocato dentro o fuori, sopra e sotto, a destra o a sinistra, ma l’esigenza di orientamento, anzitutto fisico-topologico e in un secondo senso anche meta-fisico, è essenziale per ognuno di noi. Ed ecco che, individuata tale esigenza, l’horror gioca malignamente con lo spazio mettendo letteralmente il dito nella piaga. Nelle narrazioni horror spesso lo spazio si de-forma e, anti-kantianamente, da garante dell’oggettività della conoscenza e ricettacolo di percezioni diventa ostacolo alla comprensione e pericolo mortale per la stessa sopravvivenza. La costante è la trasformazione dello spazio da luogo ospitale e rassicurante in spazio-contro, non-luogo della perdizione, perturbazione dell’ordinario, letterale de-centramento degli assi, con buona pace di Cartesio e della sua logica ferrea. Le varianti sono innumerevoli: spazi che si estendono all’infinito gettando il soggetto nella disperazione e nel naufragio; scomparsa di luoghi che fino a un attimo prima erano proprio lì, più solidi e certi della nostra stessa esistenza; comparsa di luoghi che non dovrebbero affatto essere lì; voragini abissali che si spalancano improvvise, lasciandoci precipitare senza scampo. I (non) luoghi dell’orrore sono molteplici. Nel sondare questi abissi ci siamo avvalsi di alcune categorie mutuate dall’antropologia e in particolare l’antropologia delle religioni. Abbiamo così fruttuosamente impiegato la nozione di spazio sacro/profano, o di orientamento, fino ad arrivare all’Archetipo del Centro, che tanta importanza assume nelle riflessioni di M. Eliade e di C.G. Jung, utilizzandoli come chiave di lettura di alcune celebri e meno celebri narrazioni orrorifiche (dai racconti di H.P. Lovecraft a film come The Ring o The Witch).

Quale rilevanza assume, nell’horror, la casa?
Davide Navarria: Una seria riflessione sull’horror non può che passare dallo snodo cruciale della casa, intesa non certo e non solo nella sua dimensione puramente fisica quanto piuttosto come il simbolo più naturale e immediato dell’intimità, della protezione, del calore familiare. Casa, come si dice, è dove hai il cuore. Come nel caso dell’esperienza dello spazio, al di là delle differenze culturali e antropologiche, vi è, siamo convinti, un nucleo profondo che accomuna noi umani, ed è l’esperienza dell’abitare. Ci si stanzia in molti modi e in molti luoghi, ma c’è in ogni caso una costante. Ognuno di noi esperisce l’esigenza di abitare un luogo sicuro, proprio, dove ci attendono visi familiari, un pasto caldo, intimità e sicurezza, riposo e quiete. Un desiderio legittimo che, tuttavia, si scontra spesso con la brutale realtà dei fatti. Anche in questo caso l’horror è amico della verità e palestra d’esistenza, perché quando racconta con le sue infinite potenzialità fantastico-narrative che ci sono case corrotte, infestate, sprangate, inospitali e malvagie, non sta – purtroppo e ahinoi – inventando (quasi) nulla. La verità è che spesso la casa è tomba, prigione, stanza delle torture, tana del serial killer, non-luogo dove si ritirano coloro che la vita non vogliono in alcun modo provare a sfidarla, o che ne sono rimasti così feriti da non volerne più sapere nulla. Ecco la verità scomoda che l’horror enuncia sulla casa e più in generale sul tema dell’abitare: non esistono case perfette perché non esistono abitanti perfetti. Ogni cosa (anche quella strana “cosa” che chiamiamo “casa”) è intessuta di bene e male, di potenzialità positive come di virus maligni. Questo vale per i corpi e le menti, le fondamenta, le cantine e le soffitte. Non esistono né cose né case perfette, tantomeno ordinarie: la stortura e la deviazione dalla “norma” sono nell’ordine del reale che ci sforziamo, nonostante tutto l’orrore che esso a volte sprigiona, di abitare. Ecco un’altra fondamentale lezione che possiamo imparare dall’horror: spesso la perversione più perversa è l’ostentata normalità (come avviene, ad esempio, in Rosemary’s Baby), e, per converso, in ogni forma di “normalità” è presente un pizzico di sana perversione. C’è dunque una perversione della e nella normalità, e una normalità (leggi: salute mentale) nella perversione.

Il corpo, nelle sue manifestazioni organiche, viscerali, è in grado di scatenare orrore: da cosa nasce tale sentimento?
Selena Pastorino: Come dicevo, non siamo culturalmente abituati a considerare il corpo come parte integrante e costitutiva della nostra identità. Alla meglio vale come una dimensione da controllare e disciplinare, alla peggio come una sorta di condanna alla materia che imprigiona le nostre migliori aspirazioni. L’horror nella sua onestà fiabesca ci mostra la concretezza dei corpi, svelandone i recessi pulsanti, i loro fluidi e le loro consistenze. Il motore delle narrazioni è sempre quello della vulnerabilità corporea, dell’esposizione alla mortalità, ma ancor più alla sofferenza derivante da tutto ciò che un corpo può subire. Un dolore di fronte a cui anche il fruitore prova angoscia, fisicamente, visceralmente, accorgendosi nella sua stessa paura di quanto egli stesso sia corpo, mortale e potenzialmente torturabile, smembrabile, eviscerabile. L’orrore consiste, a nostro avviso, più in questa contiguità con il reale che nella surrealtà dell’horror.

Perché si può affermare che «il corpo della donna è il luogo umano dell’orrore»?
Selena Pastorino: Per la maggior parte della storia umana, nascere con un corpo di donna ha significato non poterne ignorare la concretezza. Quella messa fra parentesi della corporeità che ho detto caratterizzare la nostra tradizione culturale è sempre stata preclusa alle donne, che hanno invece dovuto imparare a confrontarsi con la realtà delle vicende fisiche, dal ciclo mestruale alla gravidanza, dal parto alla menopausa. Impossibilitata a ignorare del tutto il proprio corpo, la donna è stata culturalmente relegata a questa dimensione. Ciò ha significato anzitutto che si acuisse una presunta frattura tra corpo e mente, contrapposte tra loro in modo artificioso come i generi, rispettivamente femminile e maschile, e ordinate secondo una gerarchia che implicava la subordinazione della donna in quanto corpo. E, aggiungo, la riduzione della donna al suo corpo, come oggetto sessuale, e a una parte di esso, come funzione riproduttiva. Dal momento che tuttavia essere corpo non è solo caratteristica precipua della donna, la sua figura ha suscitato un coacervo di fascinazione e timore, di attrazione e repulsione, che si è spesso tentato di risolvere nel ripristino dei rapporti di forza, con l’impiego di ogni forma di violenza. Il corpo di donna è allora il luogo umano dell’orrore non solo perché costringe l’umanità a fare i conti con la corporeità da cui proviene e di cui si compone, bensì anche, e soprattutto, perché il rifiuto di questa realtà ha creato lo spazio per le abiezioni più orribili, che hanno reso la donna ancora più vulnerabile, ancora più esposta, ancora più corpo. Quindi ancora più spaventosa e, potenzialmente, ancora più potente.

Selena Pastorino è Dottoressa di ricerca in Filosofia e docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Mazzini di Genova. È membro del Seminario Permanente Nietzscheano e collabora con diverse testate online. Si occupa del pensiero di Friedrich Nietzsche (Prospettive dell’interpretazione, ETS, 2017; Per la dottrina dello stile e Da quali stelle siamo caduti?, Il melangolo, 2018), di pop-filosofia (Black Mirror, con Fausto Lammoglia, Mimesis, 2019) e di filosofia del corpo (Filosofia della danza, Il melangolo, 2020; Filosofia della maternità, Il melangolo, 2021).

Davide Navarria è docente di Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università Cattolica di Brescia e insegnante di Filosofia e Storia nei Licei. Si occupa di new media e pornografia, serie tv, cinema e letteratura horror, fenomeni letti e interpretati alla luce dei suoi studi in ambito psicanalitico, filosofico, antropologico. Traduttore di alcune delle maggiori opere dello strutturalismo figurativo, tra i suoi ultimi lavori ricordiamo Benvenuti nel Pornocene. All you can fuck! Rogas, 2020; L’agire intimo. Resistere all’osceno, Mimesis, 2019; Campi dell’immaginario, Mimesis, 2018.

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