
Tenga presente che per Bobbio “laicità e laicismo” erano termini che se non sempre, certo quasi sempre, si ribadivano l’uno con l’altro e si passavano la voce per dire esattamente la stessa cosa: che cioè lo Stato laico è tale finché non decampa dal principio giuridico della eguale libertà, per cui esso non è né temperante né intemperante, né difensivo né offensivo della fede. No, lo Stato è laico precisamente perché nel conflitto tra la religione e l’irreligione ripara in disparte e non prende posizione né per la credenza né per la miscredenza, lasciando che ognuno, piccolo o grande che sia, forte o debole che riesca il gruppo dei suoi sodali, se ne vada per le strade che gli comanda la sua spiritualità. Sarà buona quella strada? Sarà cattiva?
Mah! Non sappiamo. Non lo sappiamo perché si dà il caso che quanto alle scelte di valore, la ragione – ecco come gli veniva buona l’immagine di Locke – la ragione, dicevo, quanto alle fedi e ai valori ultimi, possiede una scarsa potenza rischiaratrice; non è propriamente una luce; se mai una fiammella tremolante – un “lumicino”, appunto – che appena un alito di vento può smorzare lasciandoci al buio e con le dita bruciate. Nessuno, ma veramente nessuno, può impancarsi a depositario della Verità assoluta, che in quanto assoluta dovrebbe valere per me, per te, e per tutti gli altri; oggi domani e sempre. Verità, sì, ma relative; dunque plurime e soprattutto cangianti nel tempo e nello spazio.
Sicché, per ritornare alla nostra domanda: sarà buona la strada che ci siamo scelti? C’è poco da fare: non ne saremo mai sicuri. Non lo sapremo mai con certezza. Sappiamo però che è la nostra strada. E tanto basta. Tanto basta, si capisce, per chi “ritiene che la verità abbia molte facce, e non vi sia alcun criterio oggettivo e assoluto per distinguere la verità dall’errore” (sono parole di Bobbio). In questo caso, spiegava, “l’unico rimedio è l’incontro o lo scontro delle opinioni, dei giudizi, delle idee, vale a dire una situazione che non può attuarsi senza libertà”, a cominciare evidentemente dalla libertà di coscienza che proprio perciò è la pietra angolare del laicismo bobbiano.
Quale importanza riveste la libertà di coscienza per il laicismo bobbiano?
Da quello che ho appena detto, si capisce come il primo lascito della lezione di Bobbio stia proprio qui, nella difesa della libertà di coscienza senza della quale il suo laicismo se ne andrebbe per aria a scoppiare come bolla di sapone. Toglietegli la libertà di coscienza e avrete sconciato lo Stato laico all’incontrario di quello che è (o dovrebbe essere) secondo il magistero bobbiano.
Solo che Bobbio era…Bobbio, attento come pochissimi altri alle distinzioni e alla scomposizione analitica dei concetti. Per cui non basta dire “libertà di coscienza”; occorre che immediatamente dopo intervenga la domanda che vorrei dire fatale, quella che ricorre così di frequente nei suoi scritti e che perciò è tanto usuale tra coloro che vengono dalla sua scuola: “Quale”? Quale libertà di coscienza?
Il fatto è che “coscienza” è nozione ancipite che può essere svolta in almeno due modi diversi e reciprocamente repulsivi. Una cosa è la libertà di coscienza del laico, e più precisamente del laico-liberale; altra cosa è la libertà di coscienza dei cattolici (dove per “cattolici” intendo quelli, e solo quelli, che si riconoscono nella ufficialità delle encicliche papali. Non uno di meno, dunque, ma nemmeno uno di più). Per il laico la libertà di coscienza è il diritto di professare una verità qualunque – una qualunque, intendiamo? – e dunque anche di non professarne nessuna, se così gli piace; mentre per il “papista” la libertà di coscienza è il diritto di non essere distolti con la coazione dalla ricerca dell’unica verità, che però è già lì, precostituita e solo attende di essere scoperta. Trattandosi di verità precostituita, tutto, tutto è già stabilito in anticipo: al più gli uomini potranno precisarla meglio quella verità e meglio adattarla ai tempi, ma certo non dovranno inventare nulla e nulla potranno concedere al loro capriccio. Con il risultato che la verità cattolica presiede ad un universo bloccato, una specie di prigione elastica che sollecita i singoli ad avanzare lungo la stessa, identica strada che già ieri, ieri l’altro e sempre si stendeva davanti al loro sguardo. Nel che è ripudio il ripudio del principio laico dell’autonomia personale, ossia del principio per il quale le strade del mondo sono molteplici ed imprevedibili, e in punto di principio non ve ne è alcuna che l’umano non possa tentare sotto la spinta della propria iniziativa (facendo salvo – beninteso – l’eguale diritto degli altri umani come lui). Potremmo metterla anche così: mentre nell’universo della laicità, la coscienza si sostiene da sé e confida solo sulle proprie forze; negli orizzonti cattolici, la coscienza è sostenuta da una ponteggio che le preesiste; la conseguenza è che mentre da un lato, dal lato cattolico, la ragione sceglie tra il bene e il male che però sono già normati dalla legge naturale; dall’altro lato, sul versante della laicità, la ragione è norma a se stessa per cui essa prima decide cosa è bene e cosa è male, e poi sceglie.
Nell’un caso la coscienza è l’atto dell’intelligenza che applica con discernimento la Verità della legge morale preesistente; nell’altro è l’atto della volontà che crea essa stessa i precetti della moralità. Quella è una coscienza esecutrice; questa una coscienza legislatrice la quale, come penso di aver argomentato nel mio libro, viene trafitta con furore di apocalisse dalle encicliche papali recenti e meno recenti, differenti – non c’è dubbio – sotto diversi punti di vista, ma tutte significativamente concordi nel denunziare come funesta la vertigine dell’autonomia legislativa e luciferina la tentazione di essere legge a se stessi.
Come si articola la visione etica di Bobbio?
Per sciogliere questo interrogativo bisogna riacciuffare la parolina con cui abbiamo terminato la risposta precedente: non lasciamola andare via quella tentazione (ritenuta) “luciferina”, cogliamola al volo perché lì dentro sono custoditi molti segreti della lezione bobbiana. Il primo dei quali è che quando Bobbio sentiva sibilare sul capo dei laici l’accusa di cedere alle lusinghe di Lucifero, lui di solito così amabile e conversevole, scattava infastidito a rovesciare l’accusa sul capo stesso di chi si industriava a formularla con tanta foga polemica. Luciferino. Ma luciferino chi? Il laico? Quegli cioè che, incerto di tutto e sicuro di nulla, trova perciò stesso riparo nell’unica costruzione giuridica che commette ad ognuno la ricerca della verità, della sua verità? Quello è l’emulo di Lucifero? Suvvia non scherziamo! E giacché Bobbio non era uomo da scherzo, eccolo prendere il ragionamento dal fondo e capovolgerlo a testa in giù: “Io trovo – confidò una volta – che questo voler avere la verità assoluta (l’ho anche scritto ad un amico cattolico) è qualcosa di luciferino. Luciferino, perché non è questa la condizione umana come la conosciamo, come l’abbiamo letta attraverso la storia della vicenda umana, che è la storia dell’incertezza, dell’insicurezza, del dubbio, della ricerca certo, ma della ricerca che non ha mai fine, di problemi che non hanno mai una soluzione”. E allora, per ritornare alla sua domanda: è così, sui passi dell’anti-assolutismo, è così che noi conquistiamo il centro, o più precisamente uno dei centri della dottrina morale di Bobbio, il quale avendo denunziata la base guasta su cui è piantato l’assolutismo era poi tratto ad accogliere le verità del relativismo, che dell’assolutismo è il rovescio speculare. E si capisce perché: se infatti i valori ultimi non si fondano sulla natura (né su qualunque altra realtà oggettiva, materiale o materialmente tangibile), allora essi si assumono e l’assunzione è, per l’appunto, relativa al soggetto che la compie o alla società storica di cui quel soggetto fa parte e che glieli inculca per il tramite della famiglia, degli educatori e dei gendarmi. Comunque sia, famiglia o altro, in punto di logica quella scelta ultima non riuscirà mai confutabile; nessuno cioè potrà dire se è vera o falsa, semplicemente perché verità e falsità sono predicati di proposizioni che si riferiscono ai fatti. Ai fatti, badiamo bene, non ai valori che invece – come piace ribadire – stanno su un piano diverso raggiungibile solo per via di assunzioni. I valori ultimi – spiegava Bobbio – “si assumono. Ciò che è ultimo, proprio perchè è ultimo, non ha alcun fondamento”. Ora, dall’infondabilità delle ultime cose, basta muovere solo pochi passi e come per l’effetto di un piano inclinato sarà poi giocoforza trovarsi abbracciati con il volontarismo etico (e con quella sua particolare sfumatura che è l’emotivismo).
Tutto questo carosello di “ismi” intrecciati insieme (relativismo, volontarismo, emotivismo) per dire cosa? Per dire che, dato l’impenetrabile silenzio della natura, tutto, alla fine, si riduce necessariamente al conato di volontà soggettive le quali decidono di essere quelle che sono non perché confortate dai fatti né perché assecondate da teoremi universali; no: sono così, semplicemente perché vogliono essere così come comanda loro un atto assolutamente gratuito, tanto più sincero quanto più fondato su niente che non sia la qualità del loro stesso organismo psichico (da qui l’irruzione delle emozioni, o se vogliamo, delle emozioni come filtrate dall’educazione). Io voglio, assolutamente voglio, attribuire all’interlocutore la mia stessa dignità; voglio, assolutamente voglio, assicurargli un tenore decente di vita; voglio… ecc. ecc. Lo voglio e basta; e non c’è nulla che possa trattenere lo slancio di queste mie decisioni. Altro da aggiungere non c’è. Tranne… Tranne una conclusione che, a questo punto, una mente consequenziale come quella di Bobbio non poteva più schivare, ossia, per riprendere le sue stesse parole, che “i conflitti morali sono conflitti di valori e quindi in definitiva di preferenze e di scelte ultime, di fronte alle quali ogni argomentazione di carattere razionale sembra essere vana”. E aggiungeva: al cospetto di tali alternative, dica ognuno “le proprie preferenze. Non c’è altro consiglio da dare”.
È terribile, forse in alcuni momenti è addirittura insopportabile per la fragilità del temperamento umano, sempre così ansioso di certezze definitive, però…Però io credo che Bobbio avesse ragione.
Il suo saggio non rinunzia a segnalare talune incertezze e oscillazioni nel pensiero di Bobbio: quali in particolare?
C’è ne è più di una di oscillazione, come però è quasi naturale che avvenga per un Autore che non ebbe il genio della sintesi ma che piuttosto fu dominato dal démone dell’analisi, dal gusto e quasi direi dalla voluttà per le distinzioni più sottili e le gradazioni più fini. Il che – come ebbe a dire lui stesso – lo portava a “sminuzzare l’universo in tanti pezzettini da esaminare uno alla volta”, senza che provasse grande gusto a raccoglierli in un’organica veduta d’insieme. Ne viene che bisogna prendere aspetti singoli del suo magistero, isolare frammenti particolari della sua produzione senza star lì a chiedersi se quei frammenti e quei particolari si rispondano tra di loro con gli accenti dell’intima coerenza.
Per esempio: la tolleranza, che giustamente per Bobbio è il cardine elementare intorno a cui ruota la sapienza laica (la tolleranza – scrisse una volta – è la più “grande conquista del pensiero laico”), la tolleranza, dicevo, a volte – e soprattutto negli ultimi anni – egli la presentava come una regola solo formale ossia come un principio puramente metodologico che “implica il rispetto delle idee altrui, quali che siano” (sono le sue parole esatte); altre volte, invece, e magari suo malgrado, la caricava di un contenuto sostanziale che gli sgranava un po’ la concezione meramente procedurale dello Stato laico. Pensiamoci un momento: una cosa è dire, come dovrebbe dire un formalista di puro conio, che bisogna rispettare le altre idee, senza l’obbligo di precisare quali; e altra cosa è dire, come più e più volte invece dice Bobbio, che bisogna rispettare le idee altrui, cioè le idee dell’altro, che per il fatto stesso di essere altro, ossia persona, ha diritto di esprimerle e di farle valere. Col che si fa come un giro di ronda che trattiene Bobbio precisamente in quel porto sostanziale da cui lui pensava di essere partito per le destinazioni lontane dei valori formali. Quale forma, nelle parole così calde con cui egli giustificava la virtù della tolleranza? La tolleranza, spiegava, “sollecita l’arrestarsi alle soglie dell’altrui coscienza, il lasciar lievitare le opinioni, le idee, le convinzioni, il non violare l’intimità, l’astenersi dall’imposizione ostinata, dal dominio sulle anime ottenuto a costo della loro umiliazione e di una chiusa sofferenza”. Le sofferenze di una anima compressa, l’intimità sorgiva dello spirito, l’antemurale della coscienza altrui: non sono tutte realtà nelle quali, come pezzi di un cristallo rotto, trema l’immagine di un unico valore sostanziale – sostanziale, si badi, non formale – che è poi sempre quello, sempre lo stesso ora nominato “uomo”, ora chiamato “individuo” e ora battezzato “persona”?
Ancora: mentre negli anni Cinquanta e Sessanta la dottrina morale di Bobbio è di puro stocco relativistico (e fu quello, come dicevo prima, il periodo di più intima confidenza con l’emotivismo di Kelsen), col consumo del tempo egli se ne è tenuto sempre meno pago e ha tentato incursioni in campi diversi, forse addirittura incompatibili con l’originario kelsenismo (la dottrina della condivisione e la dottrina dell’argomentazione, per citare solo due di queste sue inedite “esplorazioni”). Perché? E soprattutto: c’è poi riuscito ad evadere da quel primigenio territorio relativistico dove lui era veramente nei suoi panni e da lì mandava scintille? E se non c’è riuscito (come io credo non ci sia riuscito) non è che tutto questo, alla fine, gli abbia allentato le giunture dei suoi ragionamenti dove qualche volta vi si trovano insinuati elementi spuri e un po’ contraddittori tra loro?
Sono domande che mi piace formulare in questa intervista, anche perché mi consentono di chiarire lo spirito con cui ho scritto il libro che evidentemente non vuole abbandonarsi a monumentalità celebrative né spandersi in scipite gonfiezze. E del resto, a che pro? Bobbio è autore così grande che le mie lodi non aggiungerebbero neppure una fogliolina di più ai suoi allori. Piuttosto è l’esatto contrario: proprio la sua grandezza richiede la riflessione ponderata ed esige, quando del caso, un’analisi critica che però vuole essere condotta non già per abbassarlo ma, se mai, per intenderlo meglio.
Di quale attualità è la lezione di Norberto Bobbio?
A quest’ultima domanda, permetta che io risponda con una contro-domanda: se il principio laico avesse potuto dispiegare per intero i suoi effetti, se fosse riuscito meno incongruo con quella terra lì, siamo proprio sicuri che a Kabul sarebbe successo esattamente ciò che sta succedendo in questi giorni? Porsi l’interrogativo è capire all’istante l’attualità della lezione di Bobbio.