“Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986” di Valentine Lomellini

Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, Valentine LomelliniProf.ssa Valentine Lomellini, Lei è autrice del libro Il «lodo Moro». Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986 edito da Laterza: innanzitutto, cosa si intende per «lodo Moro»?
Dobbiamo distinguere tra ciò che si è inteso comunemente sinora e ciò, invece, che è ora possibile affermare sulla base della nuova documentazione recentemente desegretata, italiana e straniera.

Tradizionalmente il lodo è stato inteso come un «accordo sottobanco», ipoteticamente stipulato dai servizi segreti italiani per conto dello statista democristiano, al fine di mettere la penisola al riparo dall’ondata di terrorismo arabo-palestinese che stava sconvolgendo l’Europa alla fine degli anni Sessanta.

In questa visione, il ruolo dell’intelligence e dell’allora Ministro degli Esteri Aldo Moro sono stati enfatizzati sino a falsare il vero significato dell’accordo.

Sulla base di un ampio scavo archivistico, il lodo è invece una politica dello Stato italiano, stretta sì per evitare che l’Italia divenisse obiettivo del terrorismo arabo-palestinese ma la cui paternità non è certo riducibile alla sola figura di Moro. Al contempo, il destinatario di tale politica non fu uno solo, la Resistenza palestinese, come si è supposto sinora.

Il “lodo” fu un’azione corale: furono coinvolti esponenti di spicco del mondo democristiano e socialista, alcuni magistrati e persino la Presidenza della Repubblica.

L’accordo fu un processo dinamico e seguì l’evolvere della minaccia terroristica, coinvolgendo non solo la Resistenza palestinese ma anche (e soprattutto) gli Stati sponsor del terrorismo internazionale: la Libia, l’Iraq e la Siria.

Il lodo si concretizzò in un trattamento privilegiato per i militanti arrestati per atti di terrorismo: da un processo agevolato grazie alla mediazione degli Esteri con la magistratura, sino alla grazia della Presidenza della Repubblica.

Ma non si trattava solo di offrire un lasciapassare ai terroristi: in alcuni casi, lo Stato chiuse gli occhi di fronte alle responsabilità di alcune delle stragi avvenute in Italia (prima fra tutte, quella di Fiumicino del 1973), sviluppando fruttuose relazioni con i Paesi che sostenevano il terrorismo anche per tentare di preservare la penisola da ulteriori attentati.

Quali esempi di trattative simili esistevano già?
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni del decennio successivo, i principali Paesi europei furono al centro di un’ondata di terrorismo internazionale. La guerra dei Sei giorni aveva segnato una importante vittoria israeliana: alcuni leader della Resistenza palestinese iniziarono a riflettere sull’opportunità di internazionalizzare la lotta per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale alle proprie ragioni.

Nacque così l’idea di mettere a segno attentati terroristici contro i Paesi europei, anche al fine di esercitare su di essi una pressione per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Il primo attentato avvenne nel 1968, sebbene il più conosciuto fu senz’altro quello contro la squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco, nel settembre 1972.

La Francia e l’Austria (al centro di attacchi terroristici nella prima metà degli anni Settanta) strinsero accordi analoghi con la Resistenza palestinese. L’Italia nutrì a lungo sospetti che un accordo simile esistesse anche con la Germania ma al momento non è possibile confermare in via definitiva questa ipotesi.

In termini generali, possiamo certamente affermare che tutti gli Stati europei toccati dal problema si mossero per cercare un dialogo con la Resistenza palestinese e preservare così i propri territori dall’ondata di terrorismo.

E possiamo anche dire che tutti gli Stati europei fossero coscienti del fatto che i gruppi terroristici colpivano con maggiore frequenza quei Paesi che detenevano guerriglieri sul proprio territorio.

Con una riflessione a caldo, si considerò che liberare i terroristi avrebbe consentito ai Paesi europei di uscire dal mirino dei gruppi estremistici stranieri.

In quale contesto internazionale maturò tale accordo?
Al netto delle valutazioni etiche, sotto il profilo dell’analisi storica, la politica di dialogo e di inclusione di alcuni Stati ritenuti «canaglia» non era priva di fondamento.

Due sono gli elementi da tenere in considerazione. Il primo, è il conflitto israelo-palestinese: l’Italia temeva di divenire il campo di battaglia di un confronto trasposto tra israeliani e palestinesi (oltre a vari attentati di matrice arabo-palestinese, in Italia ebbe luogo, in effetti, parte della campagna «Ira di Dio», condotta dal Mossad contro esponenti della Resistenza palestinese soprattutto dopo la strage di Monaco), nonché di trovarsi particolarmente esposta dall’instabilità dell’area mediorientale.

In secondo luogo, ma non certo per importanza, la crisi petrolifera ebbe un impatto molto forte. All’inizio degli anni Settanta, data l’indisponibilità a rifornire gli Stati occidentali da parte di numerosi Paesi arabi come misura ritorsiva per la mancata risoluzione del conflitto arabo-israeliano, il dialogo con alcuni produttori di petrolio veniva percepito come fondamentale. La Libia e l’Iraq, in particolare, divennero ben presto interlocutori privilegiati in un’ottica concorrenziale in seno alla Comunità europea.

Le leadership del Vecchio Continente erano in prima fila nel tentare di allacciare rapporti con questi Paesi nell’ottica dell’approvvigionamento energetico. E Roma desiderava ardentemente essere la capofila.

Quali vicende segnarono la genesi del «lodo»?
Furono diverse e si svilupparono con le medesime modalità tra l’inizio degli anni Settanta e la metà del decennio successivo.

Due esempi su tutti.

La prima vicenda fu senz’altro quella dei terroristi arrestati ad Ostia nel 1973. Nell’autunno di quell’anno, alcuni terroristi furono arrestati mentre erano in possesso di lanciamissili di fabbricazione sovietica e progettavano un attentato contro la premier israeliana Golda Meir, che si sarebbe recata in Italia. Il lodo funzionò e, a fronte delle rassicurazioni da parte palestinese circa la salvaguardia del territorio italiano da futuri attentati, due dei cinque arrestati vennero liberati sotto le pressioni congiunte della Resistenza palestinese e, fatto sinora sconosciuto, anche della Libia e dell’Iraq

Poi vi fu il caso di due terroristi arrestati nel 1976 all’aeroporto di Fiumicino per detenzione di armi da fuoco sul suolo straniero, destinate ad un attentato contro il Ministro degli Esteri libico, Al Huni, divenuto inviso al leader libico Gheddafi, che aveva appunto ordinato l’esecuzione mentre Al Huni si trovava in transito in Italia.

La vicenda ha veramente dell’incredibile. Gli alti vertici del governo, gli Esteri guidati da Mariano Rumor e gli Interni sotto la leadership di Francesco Cossiga, dopo aver tentato di utilizzare l’immunità diplomatica per ottenere il rilascio dei due, decisero di consultare il magistrato incaricato del caso. Questi suggerì di comprendere l’impasse e di optare con una soluzione politica: procedere con un processo rapido, sulla base dell’assicurazione che la Presidenza della Repubblica avrebbe concesso a stretto giro la grazia ai due.

Sulla base del confronto tra la documentazione italiana disponibile proveniente da vari archivi, è possibile trovare traccia di tale grazia che, in effetti fu concessa dal Presidente Giovanni Leone: i due terroristi furono liberi di tornare indisturbati nella loro patria.

Vi fu poi il caso di Abu Abbas e del dirottamento della nave Achille Lauro, nell’ottobre 1985: Craxi e Andreotti consentirono al leader palestinese di lasciare l’Italia mettendosi in diretta linea di collisione con l’Amministrazione statunitense, guidata da Ronald Reagan.

Diversi casi eccellenti dimostrano l’operatività del lodo per quasi vent’anni di storia italiana.

Quale ruolo ebbe, nella genesi dell’accordo, l’attentato a Fiumicino del 1973?
Questo è senz’altro uno dei tratti più originali di questa nuova interpretazione del “lodo Moro”.

L’attentato di Fiumicino fu importante per varie ragioni fra le quali il cambiamento di interlocutore politico.

Fino all’attentato di Fiumicino del dicembre 1973, il dialogo per prevenire gli attentati sul suolo italiano fu sviluppato soprattutto con la Resistenza palestinese, come già ricordato rispetto al caso dei terroristi di Ostia.

Poi avvenne la strage di Fiumicino: un attentato spettacolare, in cui furono coinvolti quattro aerei di diverse compagnie, e nel quale morirono più di trenta persone.

A distanza di poche settimane, i servizi segreti e il Ministero italiano degli Interni individuarono con un certo grado di certezza che l’attentato era stato compiuto da Al-Ghafur, un membro della Resistenza che si era allontanato dalla leadership di Fatah per la svolta moderata di quest’ultima. E vennero a conoscenza del fatto che Al-Ghafur era stato finanziato e sostenuto dalla Libia di Gheddafi.

Le responsabilità della Libia parvero così tangibili, così come era chiaro che un patto con la sola OLP, che non controllava più tutte le frange estremistiche del movimento, non avrebbe potuto garantire l’incolumità dell’Italia.

Che fare, dunque?

Con l’intento di evitare ulteriori attentati sul proprio territorio ma anche e soprattutto per garantirsi approvvigionamenti in ambito energetico e una sponda sicura sul lato meridionale del Mediterraneo, il governo italiano decise di rafforzare i legami con la Libia e con l’Iraq.

Il lodo si precisava: si ampliavano gli interlocutori e il “lodo” diveniva una politica dello Stato italiano.

A poco più di quindici giorni dalla strage di Fiumicino, gli incontri in pompa magna tra i Ministri degli Esteri di Libia e Iraq con i principali rappresentanti delle nostre istituzioni (Farnesina, Viminale, Quirinale) seppellirono definitivamente quelle vittime.

Pur coscienti del coinvolgimento di Libia e Iraq nell’attentato, i leader italiani decisero di (testuale) «voltare pagina». Nella speranza che promuovere la collaborazione con gli Stati canaglia avrebbe consentito di evitare nuovi attacchi.

Quale sicurezza garantiva il «lodo»?
Il “lodo” è sempre stato narrato come una vicenda di servizi segreti legata alla figura di Moro. Questa narrazione non ha tenuto in adeguata considerazione il contesto, producendo un effetto distorcente sul significato dell’accordo.

L’obiettivo del governo italiano, nel rafforzare la collaborazione con gli Stati sponsor del terrorismo arabo-palestinese, era di garantire in toto la sicurezza dei cittadini italiani. Di fronte al dilemma della sicurezza (quale sicurezza scegliere? Quella sociale ed economica, data dai rapporti economico-finanziari con i Paesi sponsor del terrorismo internazionale; oppure la sicurezza in senso stretto, dalla violenza politica?), il governo italiano attuò una risposta che consentiva di garantire entrambe.

Ma questo non garantiva certo l’assenza di zone d’ombra.

In primo luogo, non escludeva che il terrorismo potesse essere utilizzato dagli Stati sponsor per alzare la posta in palio; in secondo luogo (e come diretta conseguenza della prima riflessione), il terrorismo diventava così un efficace strumento di diplomazia coercitiva nelle mani di alcuni Stati arabi.

Infine, questo ledeva (e lede) al diritto alla giustizia delle vittime che, in ogni caso, il terrorismo arabo-palestinese ha lasciato a terra nel nostro Paese. E allo stesso diritto alla verità per tutti i cittadini italiani.

Che ne fu del «lodo» dopo Moro?
Come dicevo precedentemente, il lodo fu una politica dello Stato italiano. Certo, Aldo Moro, ne fu uno dei protagonisti anche come conseguenza del suo ruolo e della concezione di distensione mediterranea che elaborò negli anni Settanta.

Tuttavia, la morte di Moro non segnò certo la fine dell’accordo.

Ne è una prova il caso di Said Rachid, il membro del Comitato rivoluzionario libico accusato dell’assassinio di un oppositore libico in Italia e catturato in Francia. La sua liberazione avvenne, come dimostrato nel volume sulla base di un’ampia documentazione italiana e straniera, grazie alla diretta intercessione dell’allora Ministro degli Esteri Giulio Andreotti e alla compiacente collaborazione del suo pari francese, Claude Cheysson.

Come dicevo in precedenza, anche la vicenda della liberazione di Abu Abbas, in seguito alle accuse relative al dirottamento della nave italiana Achille Lauro, nell’ottobre 1985, si inserì nel quadro del “lodo”: all’epoca, il Ministro degli Esteri era sempre Giulio Andreotti, mentre il Presidente del Consiglio era Bettino Craxi.

Il “lodo” non fu una politica di Moro ma di un’intera classe dirigente del nostro Paese che, nel tentativo di fare fronte ad una minaccia inedita (il terrorismo internazionale) individuò come soluzione il dialogo con Stati ai margini della comunità internazionale.

Mi pare sia giunta l’ora che, su questa pagina poco conosciuta della storia italiana, venga individuata una verità storica.

Valentine Lomellini è Professore associato di Storia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali (Università di Padova), dove insegna Terrorism and Security in International History. Per i suoi studi, ha ottenuto la Medaglia del Presidente della Repubblica nell’ambito del Premio Spadolini. Tra le sue pubblicazioni più recenti: (a cura di) L’Europa della Guerra fredda e l’Italia degli anni di piombo. Una regia internazionale per il terrorismo? (Mondadori education, 2017); (a cura di), The Rise of Bolshevism and its Impact on the Interwar International Order (Palgrave, 2020). È l’autrice di Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato (1969-1986), Laterza, Roma-Bari, 2021.

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