
In quale contesto storico-politico matura la lettura di Machiavelli?
C’è un’espressione nel terzo libro dei Discorsi che davvero potrebbe rappresentare una sintesi del pensiero di Machiavelli: «gli uomini, nello operare, debbono considerare le qualità de’ tempi» (Discorsi iii 8, 22). Sulla nozione di qualità de’ tempi hanno insistito a più riprese due maestri della critica machiavelliana come Jean-Louis Fournel e Jean-Claude Zancarini: ogni azione ha senso solo all’interno del momento specifico in cui si produce, per cui niente ha un valore definito o definibile in astratto; bisogna sempre tener presente la congiuntura in cui si opera e si pensa. Anche la scrittura risponde a questo principio: ciò si vede benissimo col Principe – che Gramsci definì un “libro vivente” – ma mi pare che questa dimensione congiunturale sia all’opera anche nei Discorsi. Nei tre libri che li compongono Machiavelli svolge essenzialmente una riflessione sulla vita delle repubbliche, ma soprattutto su come scongiurarne la morte. Non si tratta di una questione puramente speculativa: egli aveva partecipato all’esperimento repubblicano di Firenze come “segretario militante” (l’espressione, efficacissima, è di Andrea Guidi) e aveva visto come lo stato può soccombere sul campo di battaglia (la sua carriera politica finisce poco dopo il Sacco di Prato e il rientro dei Medici, per quel principio che oggi noi chiameremmo “spoil system”). L’esperienza della guerra satura la riflessione di Machiavelli: non è un caso che il primo traduttore francese dei Discorsi, Jacques Gohory, scelga come titolo della sua versione Discours de l’estat de paix e de guerre. Dopo la sconfitta, meditare sui primi dieci libri di Livio (cioè i libri della fondazione di Roma e del suo espansionismo militare) significa chiedersi se e come sarebbe stato possibile salvare la repubblica in guerra.
Come va inteso il concetto di «uso politico delle fonti»?
Con “uso politico delle fonti” ho provato ad alludere ad una modalità di usare materiali storiografici antichi non come scritture inerti, ma come strumenti che possono vivificare l’agire politico, a patto però di ritrovarne il “vero sapore”. Nel proemio dell’opera Machiavelli è molto chiaro su questi due modi alternativi di intendere il rapporto con il patrimonio culturale che proviene dall’antichità: si può agire come i collezionisti di statue, che arredano la propria casa con reperti preziosi per il puro gusto di esibirli; o si può agire come fanno i medici, che trovano nel sapere depositato nella loro tradizione di studi dei rimedi per poter curare i propri pazienti o prevenirne le malattie. La storia va letta “sensatamente” (Machiavelli usa quest’espressione a proposito di Mosè: anche la storia sacra, dunque, è suscettibile di investigazione politica): ciò vuol dire anche essere in grado di guardare alla brutalità delle leggi che la governano, piuttosto che fingersi un passato edificante per provare a costruire repubbliche che in realtà “non si sono mai viste” (così in Principe xv). In questo senso, mi pare che ragionare sugli usi delle fonti consenta anche, se non di risolvere, di aggirare il problema delle scarse informazioni che abbiamo circa gli anni di formazione dell’autore: più che accumulare riferimenti impliciti (a volte opportunamente, a volte in modo fin troppo immaginifico) nel tentativo di costruire l’immagine di un Machiavelli “filosofo”; o accumulare “errori” nel tentativo di ridurne il portato innovativo, ho voluto ragionare sull’oggetto dichiarato e privilegiato della riflessione machiavelliana. In questo senso, a volte testardamente, mi è parso più produttivo credere che il modo in cui Machiavelli presenta il testo di Livio ha senso così com’è, piuttosto che chiedermi da quale codice perduto potessero derivare le sue lezioni, di che livello culturale siano traccia, quale ipotesi sullo stato di rifinitura dei Discorsi autorizzino. Molti degli esempi romani di cui Machiavelli si serve per mostrare la bontà delle sue tesi non potrebbero figurare nell’argomentazione se non nella veste ‘corrotta’ in cui li troviamo nell’opera. È un dato che va preso sul serio, cioè come il segno di una difficoltà teorica, più che come l’uso di scorciatoie per avere ragione (a che pro, poi?). Machiavelli scrive sulla scorta di una gerarchia dei saperi che aveva codificato la necessità di intendere la storia di Roma come storia monumentale, misura di ogni altro tempo storico: un orizzonte che però la natura devastante delle Guerre d’Italia aveva messo in crisi, senza che ovviamente si fosse da subito in grado di opporre un sistema nuovo a quello che si andava sgretolando. I Discorsi si collocano tra questo “non più” e “non ancora”: non è più possibile comprendere la radicale novità del presente grazie al modello del passato; non è ancora possibile emanciparsi del tutto da un modo di intendere la riflessione politica come profondamente innervata in quella storica. Più che come fondatore della scienza politica moderna, dunque, Machiavelli è affascinante proprio per il modo in cui elabora questa transizione, chiedendosi – a voler continuare con la metafora medica – come fare a curare, con vecchi rimedi, una malattia mai vista prima: come capire (e dire) il nuovo con il vecchio?
Lei ipotizza che Machiavelli utilizzi la resa in volgare di Livio come strumento per una rilettura tendenziosa, manomettendone il testo perché diventi funzionale alla dimostrazione di alcuni assunti politici: come si articola questo vero e proprio “uso politico delle fonti”?
Nel mio lavoro, dopo aver provato a presentare le ragioni per cui il testo di Livio diventa a un certo punto uno snodo obbligatorio della riflessione politica, ho analizzato i Discorsi sulla base di una tipologia formale di ideale allontanamento dalla fonte: citazioni in latino (in cui sarebbe rispettata la lingua e il contenuto); traduzioni (contenuto, ma non lingua) e riscritture (interventi più profondi sulle strutture narrative). Si tratta ovviamente di una tipologia costruita a fini essenzialmente euristici: non è che Machiavelli decida a priori che tipo di interventi condurre, né sviluppa una sua propria teoria coerente della recta interpretatio; e infatti spesso anche le citazioni in latino, che dovrebbero essere i luoghi più fedeli, hanno tutte le caratteristiche delle riscritture; e anche nella più profonda delle riscritture Machiavelli deve necessariamente trasporre nella sua lingua materiali provenienti da Livio (il lessico istituzionale e militare, ad esempio). Ho ritenuto che fosse possibile misurare, a partire dai punti di collisione tra due diversi sistemi di scrittura, qualcosa che potremmo chiamare la vita politica dei testi, privilegiando dunque, un metodo che mi consentisse di misurare fratture, scarti, trasformazioni semantiche, piuttosto che ragionare su continuità di lunga durata. I concetti di eredità, tradizione, fortuna non aiutano a capire fino in fondo cosa accade nel campo della lingua politica, caratterizzata certamente dalla permanenza di alcune parole-concetto (pensiamo alla longevità di nozioni come ‘repubblica’ o ‘stato’), ma anche dal fatto che la definizione di queste parole è sempre la posta in gioco di uno scontro politico. Provo a fare un esempio tra i più eclatanti: spesso Machiavelli traduce il liviano plebs con “popolo”; in Livio invece il populus è l’insieme della cittadinanza, composta da patrizi e plebei, e i due significati non sono mai confusi: nel difendersi dal processo in cui i tribuni vogliono trascinarlo, ad esempio, il decemviro Appio Claudio può dire che egli non intende sottomettersi al giudizio di una magistratura della plebe e non del popolo («non enim populi sed plebis eum magistratum esse», Ab urbe condita ii 56, 12). Questo significato di populus come soggetto universale è ancora operativo in un testo decisivo come la Historia florentini populi di Leonardo Bruni, con cui Machiavelli polemizzerà apertamente nel proemio alle Istorie fiorentine per la scarsa attenzione dedicata ai conflitti intestini. Ecco allora che far saltare la distinzione tra plebs e populus significa anche sfumare l’idea che il soggetto della storia sia sempre e solo l’universitas civium: la disunione non è una malattia che corrompe il corpo unico della città, ma un dato presente da sempre e ineliminabile. Per esser chiari: non è che definire il popolo come quella parte che si contrappone alla nobiltà sia un’invenzione di Machiavelli, visto che questa accezione esisteva da tempo nel linguaggio politico fiorentino (è già in Dino Compagni, per dire). Quello proposto, dunque, è con ogni probabilità più un automatismo che una scelta volontaria. Eppure, il fatto stesso che su Livio venga proiettato il lessico della tradizione comunale fiorentina produce uno smottamento di senso (a volte accade il movimento contrario: ad esempio Machiavelli utilizza le parole con cui Livio descrive il tribunato della plebe per parlare del gonfalonierato). Nei Discorsi assistiamo continuamente a questa ibridazione tra passato e presente, che non se ne stanno mai ben distinti all’interno delle comparazioni che Machiavelli svolge: essi individuano invece uno spazio di tensione e si riconfigurano a vicenda.
Andrea Salvo Rossi è dottore di ricerca in Filologia presso l’Università Federico II di Napoli e in Études italienne presso l’Université Paris 8. Studioso di Machiavelli, si è occupato anche di storiografia umanistica, scrivendo contributi in rivista e in volume su Petrarca e Boccaccio, sui “cancellieri umanisti di Firenze”, su Bernardo Rucellai e Francesco Guicciardini. Attualmente è assegnista di ricerca presso la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, con un progetto inerente alla ricezione della storia antica nella letteratura politica di Antico Regime.