
di Bernard Lewis
traduzione di Biancamaria Amoretti Scarcia
Laterza
«Quando noi occidentali, cresciuti in una tradizione occidentale, adoperiamo i termini ‘Islam’ e ‘islamico’, tendiamo naturalmente a commettere un errore: assumiamo cioè che la religione, per i musulmani, abbia lo stesso significato che ha avuto nel mondo occidentale, anche nel Medioevo; vale a dire che essa segni un settore o uno scomparto di vita riservato a certe faccende, distinto o per lo meno separabile da altri settori designati ad occuparsi di altro. La situazione è diversa nel mondo dell’Islam. L’Islam non è mai stato questo nel passato, e, in tempi moderni, il tentativo di renderlo tale può anche essere considerato, nella prospettiva storica a lungo termine, un’aberrazione innaturale: aberrazione, appunto, cui l’Iran ha messo fine, favorendo così analoghe tendenze anche in altri paesi islamici.
Nell’Islam classico non vi era alcuna distinzione tra Chiesa e Stato. Nella cristianità l’esistenza di due autorità risale al fondatore stesso, che invitava a dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Nel corso della storia della cristianità hanno agito due poteri, quello di Dio e quello di Cesare, rappresentati in questo mondo da sacerdotium e regnum o, in termini moderni, da Chiesa e Stato. Poteri che possono trovarsi associati o separati; d’accordo o in conflitto; può prevalere ora l’uno ora l’altro; può l’uno interferire, l’altro protestare, come di nuovo ci occorre di constatare oggi. Ma ci sono sempre due poteri, quello spirituale e quello temporale, ciascuno con le proprie leggi, giurisdizioni, strutture e gerarchie. Nell’Islam dei tempi precedenti l’occidentalizzazione non vi erano due poteri, bensì un potere solo, e la questione di una loro separazione non poteva neppure porsi. La distinzione tra Chiesa e Stato, così profondamente radicata nella cristianità, non esisteva nell’Islam, e così in arabo classico, come in altre lingue che da esso fanno derivare il proprio lessico intellettuale e politico, non vi era coppia di termini omologa a ‘spirituale’ e ‘temporale’, ‘ecclesiastico’ e ‘laico’, ‘religioso’ e ‘secolare’. E solo a partire dai secoli XIX e XX, e per di più sotto l’influenza di idee e di istituzioni occidentali, che si coniano nuove parole, prima in turco poi in arabo, per esprimere il concetto di ‘secolare’. Anche nell’uso moderno, poi, non si dà corrispondente islamico per ‘Chiesa’, intesa come organizzazione ecclesiastica. Tutte le parole in uso per ‘moschea’ indicano solo un luogo di culto, non un concetto astratto, un’autorità o un’istituzione. Si possono forse distinguere, nell’evoluzione islamica postclassica, determinati professionisti della religione, qualche cosa come un clero, e termini quali ‘ulema’ e ‘mollā’ si avvicinano ad assumere un tale significato. Non vi è però di certo equivalente alcuno per il termine ‘laicità’, espressione vuota di significato nel contesto dell’Islam. Attualmente, la stessa nozione di giurisprudenza e di autorità secolare — una porzione di vita, per così dire non santificata, che si collochi fuori della portata della legge religiosa e di coloro che la sostengono — è concepita come empietà, anzi come il tradimento massimo dell’Islam. […]
La rilevanza politica dell’Islam è poi, oltre che interna, esterna. Salvo un solo caso, in tutti gli Stati sovrani a netta maggioranza musulmana l’Islam è la religione di stato; e nella Costituzione di molti si trovano clausole che insediano la Santa Legge dell’Islam ora quale base della legge, ora quale fonte per eccellenza di legislazione. La sola eccezione è la Repubblica Turca, dove sotto la guida del primo presidente, Kemal Atatürk, si adottarono negli anni Venti una serie di leggi che si ponevano l’obiettivo di destabilizzare l’Islam, abrogare la Legge coranica e legalizzare la separazione tra religione e Stato. Queste leggi sono rimaste in vigore, ma la loro efficacia è scemata grazie all’introduzione dell’istruzione religiosa obbligatoria nelle scuole statali, alla piena partecipazione della Turchia alle attività del blocco islamico, e alla crescente tendenza dei partiti politici, con il radicarsi della democrazia parlamentare nelle campagne, a sollevare questioni religiose per assicurarsi il voto contadino.
Qual è dunque il potere, l’attrazione dell’Islam sia come richiamo all’alleanza, sia come appello rivoluzionario? È una questione vasta e complessa, da cui a questo punto vorrei estrapolare, per sottoporle alla necessaria considerazione, alcune tematiche di maggior rilievo: prima di tutto il fatto che nella maggior parte dei paesi musulmani l’Islam costituisce ancora il supremo criterio di lealtà e di identità di gruppo. E l’Islam che fa distinguere tra sé e l’altro, tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra fratello e straniero. In Occidente ci siamo abituati ad altri criteri di classificazione: per nazione, per paese, per ulteriori suddivisioni all’interno di queste. Sia nazione sia paese sono naturalmente fatti antichi nel mondo dell’Islam, ma in quanto definizioni di identità e di lealismo politico sono nozioni moderne e non autoctone. In alcuni paesi, certo, queste nozioni si sono più o meno acclimatate, ma per i musulmani si riscontra una ricorrente tendenza a ritrovare, in tempo di crisi e di emergenza — quando ciò che giace in profondità riprende piede —, la propria identità essenziale nella comunità religiosa, cioè in un’entità definita dall’Islam piuttosto che da una origine etnica, dalla lingua o dal paese di residenza.
E così come chi sta dentro si definisce attraverso l’accettazione dell’Islam, chi sta fuori si definisce in base al suo rifiuto dell’Islam. È il kāfir, il ‘miscredente’, colui che non crede all’apostolato di Muḥammad e all’autenticità della rivelazione da lui portata. Le lingue dell’Islam, così come quelle delle civiltà antiche, della cristianità e dell’Asia, possiedono parole per indicare l’alieno, lo straniero, il barbaro, ma dall’epoca del Profeta, e fino ad oggi, la definizione ultima dell’Altro, dello straniero alieno, del potenziale avversario, è stata quella di kāfir, di miscredente.
Una seconda tematica, legata alla precedente, è che per molti musulmani, forse per i più, l’Islam è ancora la più accettabile, anzi, in tempi di crisi, la sola accettabile base di autorità. Una dominazione politica può anche essere mantenuta con la forza, ma non definitivamente, non su vaste aree e non per lunghi periodi. Per questo la legittimità di un governo è per i musulmani maggiormente garantita quando deriva dall’Islam che non quando deriva da rivendicazioni meramente nazionalistiche, patriottiche, o anche dinastiche, o peggio da nozioni occidentali quali sovranità nazionale o popolare. Nella vita politica, è l’Islam che offre ancora la formulazione concettuale più ampiamente intelligibile di norme e di leggi sociali da una parte, di nuovi ideali e aspirazioni dall’altra. E, come eventi recenti hanno ripetutamente dimostrato, l’Islam assicura il più efficace sistema di simboli per una mobilitazione politica, funzionale a sollevare le genti, sia a difendere un regime percepito come dotato della necessaria legittimità, sia a riprovarne uno ritenuto privo di tale legittimità, in altre parole non islamico, eventualmente non più legittimo in quanto non più islamico. […]
Le origini del linguaggio politico islamico, come quelle di altri aspetti dell’Islam, vanno ricercate nel Corano, nelle Tradizioni del Profeta e nella prassi dei primi credenti. Tutto ciò trova a sua volta le proprie radici nell’Arabia antica, e in diversi credo religiosi — ebraico, cristiano, pagano locale — già diffusi all’epoca dell’avvento dell’Islam. […]
Se paragoniamo il linguaggio politico occidentale e quello islamico, troviamo molti elementi comuni. Parte di tale rassomiglianza è dovuta alla nostra comune condizione umana, al fatto che viviamo nello stesso universo fisico, che proviamo gli stessi bisogni fondamentali e che spesso ci imbattiamo negli stessi problemi, poiché problemi simili possono naturalmente suggerire soluzioni simili. Un’altra parte di questa rassomiglianza è storica, ed è attestata da un lessico fatto di parole tratte dal greco e dal latino, tradotte in arabo, e in misura minore da parole di origine araba presenti nelle lingue europee. La civiltà islamica e quella cristiana non sono mai state tanto remote ed estranee tra loro quanto lo sono, per esempio, nei confronti delle antiche religioni e civiltà dell’India e della Cina. La civiltà islamica fiorì anzitutto in paesi mediterranei o prossimi ad essi e, in molte aree importanti, condivise con la cristianità una comune eredità. Filosofia e scienza greca, rivelazione e legge giudaico-cristiana, occupano un posto importante nella cultura islamica e nel suo retaggio, e ciò ha reso possibile una comunicabilità tra cristiani e musulmani, anche nell’ambito delle più fanatiche società medievali, per gli uni e per gli altri inimmaginabile, per esempio, con gli indù o con i buddisti. […]
Il linguaggio politico islamico, come virtualmente tutte le forme di linguaggio, è pieno di metafore, oggi in parte morte, sepolte e dimenticate, in parte più o meno vive e coscienti. Quando diciamo ‘governo’, pochi di noi pensano all’origine greca antica di questo sostantivo, che vuol dire ‘timone’, o a un verbo, sempre greco antico, che significa ‘pilotare’; ma quando noi — cioè i meno dotati o esigenti in campo linguistico tra noi — parliamo di un uomo alla barra che dirige il timone dello Stato, c’è ancora una vaga consapevolezza della metafora marittima contenuta in queste parole. In modo simile, quando i musulmani usano la parola siyāsa, termine arabo che, grosso modo, denota la politica in quasi tutte le lingue del mondo islamico, pochi di loro la rapportano a un’antica parola vicino-orientale che significa ‘cavallo’ o a un verbo arabo classico che vale ‘strigliare un cavallo’ o ‘allenare un cavallo’; ma quando gli ottomani fecero della coda di cavallo l’emblema dell’autorità, e chiamarono ‘Ağa della staffa imperiale’ alcuni alti funzionari del sultano, essi evocarono chiaramente l’immagine dell’uomo a cavallo come simbolo di potere effettivo.
Probabilmente le metafore più comuni, nelle lingue islamiche come in quelle occidentali, sono le cosiddette spaziali, denotanti una posizione e una direzione nello spazio. Cioè, i rapporti politici e i mutamenti che li concernono si indicano in termini di ‘sotto-sopra’, ‘davanti-dietro’, ‘dentro-fuori’, ‘vicino-lontano’. Tanto nelle lingue islamiche quanto in quelle occidentali, ‘sopra’ e ‘davanti’ indicano in genere maggior potere, superiore status, o benessere; il movimento verso l’alto o in avanti indica un miglioramento, quello verso il basso o all’indietro un deterioramento o una perdita di potere, di status, ecc. Ma mentre il linguaggio occidentale, fin dalle origini, fa largo uso delle immagini di ‘sotto-sopra’ e ‘davanti-dietro’ per indicare dominio e subordinazione, il linguaggio politico arabo degli inizi quasi non ne conosce. Quando capitano immagini del genere, si tratta di allusioni specifiche piuttosto che di metafore. Così, l’uso comune di verbi con radice qdm e ’mm, entrambe con valore di ‘davanti a’ o ‘prima di’, a indicare precedenza o autorità, deriva dall’esercizio del comando, in battaglia o nella preghiera. Anticamente, al contrario di oggi, entrambe le forme di comando si esplicavano davanti e non dietro: pertanto l’uso di questi termini viene a indicare fatti che hanno luogo sul campo, e non metafore mentali. In modo simile, l’uso del termine ‘alto’ come aggettivo qualificativo di porte o cancelli o edifici dei centri del potere (tale la famosa Sublime Porta ottomana) si riferisce almeno in parte all’effettiva altezza degli edifici che, anticamente, facevano sfigurare tutte le altre costruzioni, ad eccezione dei soli luoghi di culto. I termini ‘alto’ e, ancor più, ‘basso’ sono usati a esprimere comunemente status e rapporti umani, ma in senso sociale e anche morale, più che politico. Quindi la connotazione abituale della parola araba safīl, ‘basso’, è qualche cosa come ‘vile’, ‘di umili condizioni’.
Rapporti di potere, nell’uso islamico, si esprimono più comunemente con le immagini di ‘vicino e lontano’, o ‘dentro e fuori’, o (prendendo in prestito un’espressione delle scienze sociali) di ‘centro e periferia’; oppure, ovviamente, pensando a un movimento verso l’una o l’altra direzione. Così, secondo un testo antico, il califfo ‘Umar spiegava il suo rifiuto a impiegare cristiani in posizioni di potere con le parole: «Non li onorerò dal momento che Dio li ha rifiutati; non li glorificherò dal momento che Dio li ha umiliati; non li avvicinerò dal momento che Dio li ha allontanati». Un oratore o scrittore occidentale avrebbe quasi certamente espresso l’idea dicendo di non volerli innalzare quando Dio li ha collocati in basso.»