“Il libro della pioggia” di Martino Gozzi

Il libro della pioggia, Martino GozziIl libro della pioggia è il nuovo romanzo di Martino Gozzi, edito da Bompiani ai primi di gennaio 2023. Traduttore, direttore della Scuola Holden e scrittore, per la prima volta si dedica al genere mémoir con un romanzo intimo e sincero, manifesto del suo sguardo sulla vita.

Rivela l’autore in un’intervista che la genesi dell’opera è stata il frutto di un consiglio di scrittura di Donald Antrim: provare a scrivere con poco tempo a disposizione. Così, sosteneva l’autore, avviene una liberazione dalle aspettative, la mente riesce ad entrare in uno stato di leggerezza necessario per tirar fuori le verità latenti. Difatti, il libro si aspre proprio con il nascosto: “Nella famiglia in cui sono cresciuto non si parla dei morti”. È la storia dell’amicizia di Martino e Simone, insieme da sempre, uniti dalla musica. Lui, più grande di tre anni, fin da bambino gli ha insegnato a scovare la bellezza dietro le cose e nel corso della vita è rimasto un suo punto di riferimento. Finchè, quell’uomo bello, attento, sorridente, viene annullato da una malattia del sangue che lo porterà alla morte. Simone è il filo conduttore, il solo metro che può prendere le misure dei ricordi; che nella nostra testa si confondono, tra la frenesia della giovinezza e l’abitudine della maturità.

La struttura, divisa in brevi sezioni, è una serie di cerchi concentrici che si stringono fino a chiudersi in un unico punto. “Fortunati noi che siamo vivi” dice la figlia alla fine del primo capitolo, quando, sotto la pressione delle sue domande, il padre si ritrova a dover parlare di morte: Simone, il mio amico di infanzia, se ne è andato, le sue ceneri sono sparse sotto un salice. La bambina è tranquilla: trova le domande una questione naturale, come la morte, però non è soddisfatta della risposta del padre, percepisce che c’è qualcosa che lui non vuole dire. A partire da quel qualcosa, inizia la serie di ricordi, tra cui l’autore si muove con grande destrezza e precisione. La dimensione della memoria è efficace sia a livello di scene- comincia dal momento in cui lui ufficializza la malattia, quando prende un nome, in un giorno che pareva un giorno come gli altri, in modo da farci entrare dritti nella quotidianità e insieme eccezionalità della storia- che su un piano formale, il lettore riesce a percepire la nebbia che si muove dalla mente quando pensi a fatti lontani.

Poi arriva la prima delle tante lettere, una corrispondenza finta tra lui e il suo amico, che è già morto quando inizia a scriverle. La definisce “un intro strumentale”, e così ci arriva, come il primo rullo di tamburi di una serie di lettere inframmezzate dove lo stile diventa colloquiale, adattandosi ai momenti di gioventù che rappresenta. L’autore sa lasciare spazio a un’onda di emozioni vive e felici, lontane dalla vita riflessiva.

“Eravamo a Firenze, all’Artemio Franchi, ma dopo tre ore di concerto sotto la pioggia battente eravamo semplicemente nella Storia. Le raffiche si infrangevano sul palco come onde di una mareggiata, e noi ci sentivamo parte di una ciurma incosciente e ubriaca, decisa a cavalcare la tempesta anziché opporre resistenza. Avvolti nelle cerate, noi quattro- io e Nina, tu e Stefania- cantavamo a squarciagola, ondeggiando come marinai euforici, ebbri di vita.”

In una delle prime sezioni, accetta di tenere un corso di scrittura creativa offerto a pazienti under 35 affetti da malattie terminali: un’esperienza che intraprende per avvicinarsi al suo amico mentalmente e fisicamente, poiché il suo medico lavora a quell’ospedale, e finisce per fare di più, per tracciare un solco profondo nella ciclicità della vita. In una lezione, prende ad esempio un pezzo di Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale; Paul, il protagonista, ottiene un permesse di quattordici giorni per tornare a casa e, in famiglia, si ritrova a non riuscire a parlare del fronte. Dice, parlando del padre: “Io mi rendo ben conto che non sa, come certe cose non si possono raccontare.” Martino sostiene che il senso della scrittura sia proprio dar forma a ciò che non si può raccontare a voce e Michele, uno studente brillante, lo interrompe. Lui crede che la vita sia come un fiume immenso, come il Rio Grande, fatto di calma e picchi di intensità: ai libri spetta consentirci di risalire il fiume, di viaggiare indietro nel tempo. Così fa l’autore, parlando di Simone.

La loro amicizia, come ogni amicizia di vita, è il cerchio più principale. “L’abbiamo sempre fatto, questo gioco di tornare sulle stesse battute, sugli stessi riferimenti, per rinsaldare la nostra amicizia. Come se ci fosse da stringere qualche vite di tanto in tanto. Il nostro repertorio è vasto, e così ogni volta gli aneddoti cambiano, ruotano, si arricchiscono di nuove informazioni e scampoli di vissuto che si sono aggiunti con il tempo, in anni recenti.” Invece, il più piccolo, è la figlia. Verso la fine del libro si cita Joan Didion “Quando parliamo di mortalità parliamo dei nostri figli”.

L’opera comincia con una mancanza, e, dopo un immenso viaggio, si chiude con una risposta. Si parla di morte, di insensatezza, ma anche di scrittura, di percorso, di resistenza e forza vitale. È un libro che un aspirante scrittore dovrebbe leggere, e anche chi è in un momento della vita in cui sta facendo un’indagine su se stesso. Per tutti gli altri, siete sicuri di non avere niente da scovare?

Vittoria Elena Fabbro

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