
Certo, «leggere è un vizio» che può creare dipendenza e, a chi ne è affetto, ben si addice «l’aggettivo coniato dall’editore Vanni Scheiwiller, libridinoso».
C’è, ad esempio, chi vede nei libri dei perfetti oggetti transizionali; per Sigmund Freud, invece, il libro è un simbolo femminile e sembra dargli ragione Richard de Bury, vescovo di Durham, autore del Philobiblon, un «trattatello sulla passione per i libri completato nel 1344», per il quale l’«amor di libri è amor di sapienza», ed «estingue come rugiada celeste l’ardore dei vizi della carne». Il libro, in breve, è un antidoto alla donna». Gli fa eco, nel 1896, Octave Uzanne che nel suo Dictionnaire bibliophilosophique annota: «La donna, spesso gelosa del libro, è una Bibliofobica per istinto». La ragione di tanta gelosia è presto detta: «il libro riceve tutte le attenzioni di un’amante, e ne ha tutti gli attributi.»
Certo, noi abbiamo esagerato nella devozione al libro, «il parallelepipedo di carta»: «Per vie misteriose e un tantino superstiziose, ci siamo persuasi che l’oggetto-libro abbia in sé dei poteri benefici, e che tutte le parole, anche le più insulse, guadagnino un prestigio speciale dall’essere racchiuse in quel formato e solo in quello. […] quasi senza accorgercene, siamo diventati feticisti del parallelepipedo.»
Tale devozione si nutre tuttavia di «tabù arcaici che circondano il nostro feticcio» e che sono diventati «oggetto di piccoli rituali ossessivo-compulsivi.» Come l’interdizione a buttare un libro: «Avete mai provato a gettare un libro, anche il più deplorevole dei libri, nella spazzatura? Sentirete una forza soprannaturale che vi trattiene nel momento di lasciarlo cadere nel cestino […]. Eppure, per quanto possiamo sforzarci di razionalizzare, […] è fin troppo evidente che si tratta di un riflesso superstizioso.»
Già, perché «il tabù del cassonetto è un privilegio immotivato, che non accetteremmo di accordare a nessun’altra specie merceologica. Tutto si butta: vestiti logori, cibi scaduti, lampadine fulminate, mobili desueti, pile di giornali, oggetti che ingombrano senza dare nessun beneficio. I libri no. I libri si conservano». Ciò si traduce in una irrefrenabile coazione ad accumulare di cui l’Autore si confessa per primo vittima: «Ho conservato tutti i parallelepipedi della mia vita di lettore: libri scolastici, manuali di istruzioni di tecnologie obsolete da decenni, un vasto assortimento di primi volumi omaggio di enciclopedie allegate ai quotidiani (so tutto sulle persone i cui cognomi cominciano per A), doppioni, triploni…»
Altro tabù comune ai lettori nevrotici: «non mollare. Alcuni lettori nevrotici non sanno liberarsi da questo comandamento, e se lasciano un libro a metà sono divorati dai sensi di colpa. Verso l’autore, verso sé stessi, ma soprattutto verso il grande feticcio. Salman Rushdie racconta che da ragazzo aveva preso l’abitudine di baciare ogni libro che abbandonava, per scusarsi della mancanza di rispetto. Molto poetico, non c’è dubbio; quanto a modernità, però, se vogliamo collocarlo su una scala evoluzionistica alla Tylor, siamo più o meno all’altezza dei cacciatori paleolitici che abbattuto il bisonte correvano a riappacificarsi con la Signora degli Animali. E tuttavia, la nevrosi della lettura integrale è ancora molto diffusa.»
Chi ne soffre, magari condizionato dal monito di Plinio il Vecchio «Nullus est liber tam malus, ut non aliqua parte prosit, nessun libro è così cattivo che in qualche sua parte non possa giovare», dimentica che, come ci rammenta Vitiello, «nel I secolo dopo Cristo circolava qualche libro in meno di oggi, e che nessuno poteva prevedere che saremmo finiti sotto un’eruzione editoriale assai più tumultuosa di quella del Vesuvio in cui morì Plinio. Sono ragionevolmente certo che il Vecchio, se avesse avuto una visione profetica delle fiumane laviche di carta e di inchiostro che si rovesciano ogni settimana sui banchi delle nostre librerie, si sarebbe affrettato a ripudiare il suo motto imprudente, a capovolgerlo, perfino a maledirlo.»
E poi, ecco i classici, «il nostro Super-Io di carta»: già, perché «un classico è «qualcosa che tutti vogliono aver letto e nessuno vuole leggere» (Caleb Winchester, professore di letteratura inglese, citato da Mark Twain) o, come afferma Italo Calvino nel suo Perché leggere i classici, «I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”».
E da ultimo, l’angoscia della morte che «ci separerà dalla nostra biblioteca, il coriaceo esoscheletro con cui ci siamo fatti largo tra le asperità della vita.» Che ne sarà dei nostri libri? L’ansia con cui abbiamo sfidato il tempo accumulando «volumi su volumi nella nostra biblioteca, nell’illusione che per il prezzo di ogni libro ci sia concesso in cambio il tempo necessario a leggerlo» svanirà, come ci ricorda Louis Bollioud-Mermet descrivendo il destino di quei preziosi feticci: «Può essere che andranno a un erede a cui non importerà nulla di una tale eredità, tranne che subito la ricondurrà all’aspetto originale e cioè convertirà al più presto i libri in soldi. Allora si vedrà questo assortimento di libri, riunito con tanta difficoltà, disperdersi qui e là, per non ricongiungersi più e finire da quasi altrettanti nuovi padroni quanti sono essi stessi.»
Ci farà allora forse eco la confessione di Giorgio Manganelli ne Il rumore sottile della prosa: «Ho amato i libri di un amore passionale, poligamico, vizioso, incontenibile, maniacale.»