
Il lavoro ibrido differisce pertanto dallo smart working in quanto quest’ultimo, applicato da un numero limitato di realtà aziendali già da tempo, è prevalentemente visto come una modalità organizzativa residuale ed episodica, facilmente pianificabile e regolamentabile, dato lo scarso numero di lavoratori che contemporaneamente ne usufruiscono. Il lavoro ibrido richiede invece l’identificazione di modelli di riferimento specifici per affrontare una molteplicità di temi quali l’organizzazione del lavoro, la riprogettazione degli spazi fisici, le dotazioni tecnologiche abilitanti, ma anche elementi come la gestione della performance, l’engagement, il senso di appartenenza e, in ultima analisi, la cultura aziendale.
In che modo la pandemia Covid-19 ha fatto da propulsore temporale a una molteplicità di tendenze di fondo già presenti nella dimensione lavorativa e sociale?
La pandemia Covid-19 ha comportato per tutte le organizzazioni del mondo un lungo periodo di emergenza e di crisis management, fatto di decisioni quotidiane in un contesto di elevata incertezza, volte a garantire contemporaneamente la salute dei lavoratori e la continuità delle attività aziendali. Nel libro, ho voluto ricordare i primi momenti di gestione della pandemia nella mia esperienza presso Sky Italia, a partire dal 21 febbraio 2020, giorno che ha segnato l’ingresso dell’Italia e dell’Europa nella crisi del Covid-19 e che chi ha vissuto non dimenticherà facilmente.
Durante il primo lockdown, il lavoro da remoto è diventato di fatto “obbligato” per i molti lavoratori che non potevano recarsi presso le proprie sedi aziendali. Molte organizzazioni si sono pertanto attrezzate per consentire ai dipendenti di svolgere la propria attività da casa. Per fortuna, lo “smart working” per molte realtà non era una novità: il Covid non ha trovato il mondo del lavoro del tutto impreparato. Ma in quel momento nessuno poteva immaginare gli innumerevoli problemi che si sarebbero dovuti affrontare nei giorni e mesi successivi: i temi pratici, tecnici, normativi e sindacali, ma anche i problemi di natura gestionale, come la necessità di supportare le persone con i loro bisogni psicologici e di gestione della vita familiare, nonché le sfide del people management da remoto per la gestione della prestazione e per mantenere alta la motivazione e l’ingaggio delle persone. Una disruption che ha sconvolto i molti impreparati, messo in difficoltà i pochi già in parte “attrezzati” (mentalmente, prima ancora che tecnicamente), stimolato comunque tutte le realtà organizzative, in tutti i settori, a trovare soluzioni e sperimentare nuovi modelli, fosse anche solo per la spinta delle politiche governative che hanno indicato fin da subito il lavoro da remoto come uno degli strumenti fondamentali per combattere la pandemia.
Nel tempo, molte imprese si sono accorte che, con questa nuova modalità di lavoro forzatamente remoto per la maggior parte dei colleghi, la produttività del personale – intesa anzitutto come possibilità di effettuare efficacemente la propria prestazione da remoto attraverso l’interazione digitale – non era diminuita e che, anzi, grazie alla ricerca di soluzioni innovative per abilitare il lavoro da casa di più persone possibili, il modello funzionava anche per tipologie professionali che prima non riuscivamo a immaginare.
Ma le stesse imprese si sono anche accorte che la nuova realtà portava con sé nuove esigenze: da quelle strettamente tecniche, legate alla qualità e alla sicurezza della connessione e degli strumenti di collaborazione da remoto, alla necessità di normare in qualche modo il lavoro da remoto per consentire alle persone di avere i propri tempi di pausa o anche di pensiero nel flusso continuo delle riunioni on line, fino ad arrivare al senso di isolamento prodotto dalla prolungata distanza dai propri colleghi e dall’assenza di relazioni personali. Inoltre, ci si è accorti che il lavoro prolungato da remoto non agevola le attività più innovative, che richiedono anche interazioni informali non pianificate, e non consente a nuovi entrati nell’organizzazione di inserirsi efficacemente nella cultura aziendale, in ultima analisi indebolendo l’identità dell’impresa. Da qui l’esigenza, per le imprese più illuminate che stanno pensando di adottare il lavoro ibrido come modello permanente, di far convivere il lavoro da remoto con quello in presenza, cercando di trovare il miglior equilibrio tra le due modalità e valorizzare “il meglio dei due mondi”.
Nello stesso tempo, le persone si sono accorte che gran parte del tempo utilizzato pre-pandemia per gli spostamenti casa lavoro era tempo improduttivo e inutile, che toglieva spazio alla propria vita personale ma anche alla stessa attività lavorativa. La richiesta di flessibilità nella gestione del proprio equilibrio vita-lavoro, tendenza già accentuata prima della pandemia soprattutto nelle generazioni più giovani, è stata fortemente accentuata dall’esperienza individuale vissuta dai lavoratori negli ultimi due anni. Le persone pretendono oggi che la richiesta di tornare a lavorare in ufficio risponda a reali esigenze e quindi abbia senso. La domanda chiave diventa il “perché” tornare, prima ancora del “quando” e del “quanto”. Nel post pandemia, le persone chiedono di avere la fiducia dell’azienda su come organizzare le proprie giornate lavorative, compatibilmente con la natura della propria attività, avendo largamente dimostrato di meritare tale fiducia. Poter usufruire di schemi di lavoro ibrido è anche l’occasione per contribuire alla riduzione delle emissioni inquinanti e per favorire l’inclusion, in particolare quando si parla di genitorialità.
Quel 21 febbraio 2020, che tutti ricordiamo nelle specifiche situazioni in cui l’abbiamo vissuto, crea dunque una possibile, e sana, frattura tra il passato e il futuro. Una discontinuità di quelle che vengono chiamate “salto di paradigma”, una situazione che ci fa sentire che il mondo, perlomeno quello del lavoro che abbiamo conosciuto in occidente negli ultimi 100 anni, potrebbe non essere mai più come prima. Il passaggio non è tuttavia automatico: occorre decidere di abbracciare un nuovo modello e di affrontare tutte le sfide connesse alla sua realizzazione.
Quali ricadute è destinato ad avere, tale nuovo modello, sull’organizzazione del lavoro, sugli spazi lavorativi, sulla leadership?
Se si considera il lavoro ibrido come un nuovo modello operativo permanente, questo dovrà essere accuratamente progettato in tutte le sue dimensioni.
In primo luogo, bisognerà regolamentare le presenze e il lavoro da remoto: alcune aziende hanno definito schemi rigidi che prevedono la presenza in alcuni giorni fissi ogni settimana, con l’apparente vantaggio di favorire la compresenza di uno stesso team ma con il problema di non poter garantire l’interazione anche fisica con altre funzioni, oltre a trasferire un messaggio di obbligatorietà e di rigidità che stride con la domanda “di senso” da parte della persone. In alternativa, modelli più flessibili possono definire una percentuale di tempo lavorativo o un numero di giornate (settimanali o mensili) per il lavoro in presenza, lasciando a ciascuno la libertà di organizzare la propria agenda secondo i propri impegni: una applicazione concreta del concetto di imprenditorialità che molte imprese includono nella propria carta dei valori. In questo caso l’enfasi è sulla natura delle attività che possono essere più efficacemente svolte in presenza, in larga misura autodeterminate da ognuno per raggiungere al meglio i propri obiettivi, piuttosto che sul tempo da trascorrere in ufficio. In altri termini, il principio di responsabilizzazione sui risultati che sta alla base del lavoro agile viene applicato allo stesso modo in remoto come in presenza.
Si dovrà fare poi ogni sforzo per applicare il lavoro ibrido in maniera inclusiva, per quanto differenziata a seconda della natura delle attività da svolgere, trovando soluzioni che vadano nella direzione di una maggior flessibilità anche per le mansioni che non possono essere effettuate da remoto, o che possono esserlo solo marginalmente.
Bisognerà dotare tutti i lavoratori degli strumenti che consentono di lavorare efficacemente in remoto e incrementare i profili di sicurezza dei dati; si dovranno anche dotare le sedi aziendali di tecnologie atte a favorire il lavoro ibrido, agevolando la partecipazione a riunioni che siano contemporaneamente in presenza e in remoto. In generale, si dovranno riprogettare gli spazi aziendali per adattarsi alle modalità ibride, soprattutto se si intendano cogliere i potenziali vantaggi economici di una riduzione del costo di real estate, abilitata dal lavoro ibrido. Tali spazi dovranno anche essere ridisegnati e attrezzati adeguatamente al fine di rafforzare il senso di appartenenza e l’identificazione con il brand.
Non da ultimo, il modello ibrido accentua alcune caratteristiche richieste ai leader: la capacità di indicare la direzione, il “purpose” dell’organizzazione di riferimento e di comunicarla efficacemente per ispirare le persone verso una direzione comune, soprattutto in contesti caratterizzati da elevata incertezza; la definizione di un framework di riferimento per pianificare momenti di condivisione formale e informale, che riescano a scandire una “vita comune” dei membri del team pur preservando la flessibilità e l’autonomia individuale; la cura delle persone sia dal punto di vista del loro “equipaggiamento” di tutto quello che è necessario per il lavoro ibrido (dotazioni tecniche ed ergonomiche) ma anche dal punto di vista del loro benessere psicofisico; la capacità di mantenere un contatto empatico con le persone del team e di coinvolgerle nei contesti di lavoro ibrido, a partire dalle riunioni; la prassi manageriale di dedicare tempo all’ascolto e a dare (ma anche ricevere) feedback frequenti e strutturati; il rispetto delle persone con le loro caratteristiche, esigenze e diversità.
Quali prospettive, a Suo avviso, per un futuro che si preannuncia ibrido?
Il lavoro ibrido, pur preservando la cultura aziendale e il senso di appartenenza che deriva dall’interazione sociale sul luogo di lavoro, può offrire molti elementi positivi sia alle persone che alle imprese. In particolare, tale modalità può favorire una miglior conciliazione vita-lavoro, il risparmio sui trasporti per gli spostamenti casa ufficio, una maggior flessibilità ma anche maggior produttività, efficienza e resilienza in situazioni di crisi per le imprese, oltre a una maggior attrattività nella competizione per il talento. Il vantaggio principale mi pare però il messaggio che l’organizzazione ibrida implicitamente trasferisce: la fiducia nelle proprie persone. Sono convinta che le organizzazioni aperte ad abbracciare questo modello potranno avere un significativo vantaggio competitivo, oltre a contribuire a creare un mondo più sostenibile.
Francesca Manili Pessina è attualmente Direttore Human Resources, Organization & Facility Management di Sky Italia. Laureata all’Università Bocconi, ha maturato una lunga esperienza nei settori delle Risorse Umane e dell’organizzazione di grandi multinazionali e ha ricoperto ruoli di crescente responsabilità a livello internazionale. La passione per la guida del cambiamento e la creazione di contesti organizzativi altamente coinvolgenti e inclusivi caratterizza il suo modo di interpretare il mestiere delle Risorse Umane.