
Detto ciò, possiamo dire che il lavoro di qualità è quello che crea “valore” per qualcuno, quello che, nella grande e spesso caotica trasformazione che stiamo vivendo, viene riconosciuto come un nucleo di valore, qualcosa che dà un servizio importante.
Per trovare il “lavoro di qualità”, propongo di riflettere sulla metafora iniziale che ho scelto per indicare la inevitabile discontinuità rispetto al passato (la “autostrada” che oggi impone uscite e rientri continui) e soprattutto il passaggio da un “orto botanico” al “bush”, quella che in Australia è l’area di boscaglia incolta che sta fra le città della costa e l’interno desertico: se fino ai primi anni ‘80 per descrivere i lavori presenti in Italia si poteva ricorrere a una ventina di speci arboree (agricoltore, commerciante, medico, operaio, insegnante, professionista ecc.), oggi vi è un’area indistinta in cui ogni giorno nascono e muoiono nuovi lavori (si pensi anche solo all’ICT), nella quale per sopravvivere si deve poter proporre “valore” a qualcuno, e si deve rinnovare continuamente questa value proposition. Ecco perché oggi siamo nel “bush”, un’area che ha minacce ma anche opportunità, e nella quale chi ha competenze da spendere può trovare un lavoro, soprattutto se fra qualche tempo la ripresa rallentasse e si tornasse nell’incertezza.
Questa affermazione, fatta da un osservatorio come il suo, può essere preoccupante. Cosa ha da dire questo libro a chi vuole difendersi dall’incertezza del futuro?
Mi riferivo al fatto che vi sono alcuni dati macroeconomici troppo squilibrati (come la enorme diseguaglianza nei redditi, soprattutto in alcuni Paesi), e che vi sono troppe tensioni internazionali (si pensi alla nuova guerra dei dazi), perché non ritornino i venti dell’incertezza. Del resto è quanto di recente tre grandi economisti americani hanno sostenuto: il Premio Nobel Paul Krugman, ma anche Allen Sinai e quel Nouriel Rubini della New York University che previde per primo la grande crisi che abbiamo alle spalle, invitano a prepararsi a una grande crisi che nel giro di pochissimi anni potrebbe concretizzarsi.
Se passiamo da questi macroscenari alle nostre vite individuali, possiamo dire che dal futuro ci si difende costruendo per tempo le competenze; ovvio che non basta in certe congiunture la via personale alle competenze, ma servono molti interventi a livello di policies pubbliche. Quel che posso dire è confermare che siamo in una fase ancora di (crescente) espansione, se certe tensioni su dazi e le tentazioni di interventi bellici non compromettono il quadro.
D’accordo, e allora mettiamola in questi termini: quali sfide pone a chi è in cerca di lavoro il panorama occupazionale attuale?
La sfida di fondo non è trovare un posto intoccabile, il mitico “posto fisso”, ma acquisire le competenze abbastanza solide da imporsi nel mercato del lavoro e abbastanza flessibili per adattarsi al cambiamento, un trend questo che è un dato strutturale. Non basta più acquisire le competenze per far parte di una delle speci arboree dell’orto botanico, che in buona parte è un concetto superato, ma si deve acquisire un nucleo forte di competenze di base (capacità logiche, linguistiche, una buona cultura generale) e poi vari nuclei di contenuti che inevitabilmente andranno aggiornati di frequente. In questo gioco di continua ridefinizione delle proprie skill, sia trasversali sia tecniche e specifiche di un singolo settore, sta la sfida dell’occupazione, che non è più la conquista una volta per tutte di un posto fisso, ma l’acquisizione delle competenze per riqualificarsi in continuazione, seguendo l’evoluzione del lavoro. Anche qui le metafore ci possono aiutare, e vorrei riadattare quella di una ricerca condotta da un pool di università francesi nel 2008, che oggi vale ancora di più: se vi dico che il posto di lavoro veniva paragonato (con un uso paradossale e non reale, chiaramente) alle figure di un circo, o ad attori pronti a recitare la parte in una o più commedie, potreste fare un salto sulla sedia, ma ciò non va letto in chiave di svalorizzazione, bensì di contestualizzazione. Non voglio andare oltre, e potrei dire, con una battuta, di andare a leggere nel libro chi in un’azienda ha un ruolo accostabile all’acrobata, o al domatore, o al giocoliere, o all’impresario stesso: potreste riconoscervi in una di queste figure.
Torniamo al tema delle competenze: quali skills fondamentali deve possedere chi è in cerca di un’occupazione?
La terminologia su questi temi non è univoca, e nel libro mi rifaccio alle due tassonomie più diffuse: quella che distingue le “conoscenze” (concettuali e verticali) dalle “competenze”, che a loro volta possono essere tecnico-verticali, o al contrario essere relazionali e trasversali ai vari settori: fra le prime ci sono ad esempio le competenze tecniche di un manager, mentre fra le competenze relazionali ci sono la capacità di ascolto e dialogo, quella di motivare il singolo e un team (due cose distinte, si badi bene), quella di negoziare e quella di comunicare bene (all’interno e all’esterno, e anche qui attenti alle semplificazioni). Con altra terminologia, sentirete parlare di “hard skills” in riferimento a quelle tecniche e verticali di un singolo settore, e di “soft skills” per esprimere le competenze relazionali-trasversali: entrando ancor di più nell’esempio, possiamo dire che un ingegnere dovrà possedere le “conoscenze” che sono il “sapere” di ingegneria riferito al proprio settore, ma anche il “saper fare” e il “saper essere” che corrispondono rispettivamente alle hard e alle soft skill. In altri termini, dovrà saper costruire il progetto di una macchina o il piano di manutenzione di essa (hard skill), ma per essere un buon manager dovrà “saper essere” un buon motivatore, un negoziatore rigoroso ma non pignolo, e un leader del team di collaboratori che gli è stato affidato.
Tutte queste cose sono descritte con tanti casi concreti che ho conosciuto o vissuto direttamente, e vi è tutta la quarta parte che parla di “quelli che il lavoro ce l’hanno già”: mi sono concentrato su casi e storie di manager e dei loro collaboratori, raccontandone le qualità che hanno permesso successi insperati, ma anche i limiti che hanno condotto a rovinare una storia che era cresciuta in modo positivo. In queste ampie descrizioni ho parlato delle organizzazioni e non solo delle imprese, e dunque ho trattato anche di dinamiche che avvengono in altri ambiti; troverete la distinzione fra tre modalità tipiche di comportamento in azienda (“apostoli”, “ostaggi” e “terroristi”, naturalmente in senso metaforico e non ideologico), o capirete la grande importanza dei “numeri 2”, che da una nota docente di Harvard sono stati studiati e classificati in almeno tre profili tipici (i vari casi dei “B players”); o ancora, viene discussa l’appartenenza al “club della confort zone”, ovvero quei tre o quattro modi per eludere l’impegno a dare il massimo, con furbizie e comportamenti non onesti nei confronti dei propri compagni che invece sono sotto pressione. E infine, vi invito a leggere perché consiglio di assumere in via prioritaria le donne, traendo i motivi di questa scelta da esempi vissuti nella mia stessa carriera.
Se ora torniamo al livello dei macroscenari, quale futuro vede per il lavoro?
Nella terza delle quattro parti del libro, vi sono riflessioni sugli effetti positivi del Jobs Act come di altri elementi di contesto, e in particolare ci si concentra sulle grandi opportunità, e sui rischi speculari, rappresentati dalla economia digitale e dall’automazione: anche qua serve una lettura obiettiva, e ho riportato i motivi per cui le politiche governative per Industria 4.0 sono senz’altro una grande occasione. Allo stesso tempo, ho presentato la sintesi degli studi più importanti dedicati all’impatto del digitale sull’occupazione, dagli algoritmi di ultima generazione ai robot che programmano altri robot, dalle tante applicazioni della Internet of Things all’Intelligenza Artificiale, dai Big Data alle tecnologie ALM (Additive Layer Manufacturing, meglio note come stampanti 3D). Si apre un mondo con opportunità e anche minacce, ma ho cercato di evitare di collocarmi dalla parte di certi tecno entusiasti che non considerano i rischi per l’occupazione, come pure di coloro che hanno un approccio eccessivamente ottimistico. Si tratta di problemi complessi, che vanno inquadrati con una consapevolezza che in genere viene riassunta così: il futuro (e non solo il futuro dell’occupazione) lo si può subire o lo si può gestire, e la scelta peggiore che si può fare è la inerzia in un mondo in cui tutto cambia quotidianamente. La grande sfida per il lavoro diventa una sfida per una formazione che sia sempre più sintonizzata sul change e sempre più diffusa: se l’Italia nei prossimi 5 anni non forma almeno un milione di persone alle tecnologie Industry 4.0, rischia di avere il paradosso per cui vi sono nuovi disoccupati e allo stesso tempo centinaia di migliaia di posti di lavoro richiesti e non coperti; d’altra parte, se il nostro Paese si chiude alla quarta rivoluzione industriale, rischia di finire in pochi anni fuori dalla serie A del manifatturiero, e di diventare un Paese con qualche centinaio di eccellenze (oggi sono migliaia) ma fondamentalmente fatto di imprese terziste e gradualmente fagocitate da altri, mentre difendendo il ruolo primario di tante imprese leader avrà un futuro molto più solido e duraturo. Vi sembra poco il fatto che siamo la seconda potenza manifatturiera d’Europa (davanti a Francia e UK) e la settima potenza esportatrice del mondo? E allora, pensiamo che il lavoro, e soprattutto il “lavoro di qualità”, può avere ancora una buona diffusione nel nostro Paese, a patto di inquadrare le condizioni prima per costruirlo, e poi per mantenerlo con un rafforzamento continuo delle nostre competenze.
E quindi, una persona in attesa di lavoro cosa può fare, già da domattina?
Può fare tante cose, ma qui posso limitarmi a una citazione che spesso rivedo in funzione dei miei interlocutori: in un famoso libro di management di vari anni fa, Steven Covey invitava a “sharpen the knife”, ad affilare la lama delle proprie competenze distintive, per fare bene il lavoro già avviato o per essere pronti quando si presentasse il nuovo lavoro. A coloro che hanno giornate frustranti in cui attendono, e so con quale sofferenza, un nuovo o addirittura un primo lavoro, dico che le giornate senza lavoro non sono giornate senza valore, ma che sono altrettante risorse da far fruttare. Affilate con fiducia la lama, e verrà il momento in cui le vostre competenze saranno richieste: non farsi trovare pronti, quel giorno, sarebbe un errore imperdonabile.