
di Piero Dorfles
Bompiani
Nel suo nuovo libro, Dorfles si interroga sul male atavico che affligge il nostro Paese «nella speranza che prima o poi, in Italia, ci si renda conto di cosa manca a un paese di non lettori.» Già, perché, come gli ha insegnato l’esperienza, «quando sento qualcuno che dice di non leggere perché non ha tempo, perché è difficile orientarsi tra i troppi libri che escono, e che comunque costano troppo, so per certo di avere davanti una persona che non sa leggere. Non intendo dire che si tratta di un analfabeta, perché per fortuna l’analfabetismo primario è quasi del tutto sconfitto, in Italia. E nemmeno che si tratta di un analfabeta funzionale, e cioè persona che sa leggere e scrivere ma non è in grado di capire frasi complesse. Intendo dire che non è in grado di affrontare la lettura di un libro, di un testo lungo, di un’opera intera e complessa, anche di centinaia di pagine.»
«Chi non sa leggere si trova un po’ nella condizione di chi non sa nuotare. Non ha la possibilità di fare un’esperienza unica, che non assomiglia a nessun’altra. […] Saper leggere vuol dire anche saper capire con facilità il contenuto e la forma di quello che contiene un libro; vuol dire saper scorrere tra le pagine per andare a cercare quello che interessa di più; vuol dire saper capire rapidamente se un testo ci attrae davvero o se non val la pena perderci tempo sopra; vuol dire essere in grado di approfittare degli interstizi del nostro tempo, una coda alla posta, un tragitto in tram, l’attesa nella sala d’aspetto del dentista. Saper leggere vuol dire essere capaci di farlo anche in ambienti rumorosi. Chi sa leggere legge anche di fronte alle più drammatiche ansie, di fronte alle angosce più profonde, di fronte ai dolori più esacerbanti. Perché per chi sa leggere i libri sono la migliore consolazione che si possa chiedere. Leggere è la cosa più astratta che l’uomo abbia imparato a fare. E non leggere vuol dire rinunciare a esercitare l’attività più raffinata, più alta, più caratteristica del suo essere che il genere umano abbia mai escogitato. […]
Poiché nella vita quotidiana chi non legge libri se la cava benissimo, verrebbe fatto di pensare che l’incapacità di leggere abbia poco a che fare con la capacità di essere bravi cittadini, competenti lavoratori e buoni padri e madri di famiglia. E in effetti questa è l’apparenza, e pochi hanno la sensazione che, solo perché non leggono libri, gli sia sfuggito qualcosa, visto che guardano la televisione, ascoltano la radio e usano con disinvoltura i dispositivi digitali. Io credo invece che a loro sia sfuggito molto, perché nei libri (che si leggano sulla carta o su un e-reader non cambia) c’è qualcosa che difficilmente si trova altrove. Nei libri ci sono la storia dell’uomo, dai miti primigeni al disagio della contemporaneità; il bene e il male, la vita e la morte, la felicità e la sofferenza; ci sono le conquiste e i fallimenti dell’intera umanità; c’è il racconto di come i nostri sentimenti, i nostri sogni, le nostre azioni, tutti i nostri gesti hanno prodotto le nostre vite, tanto diverse quanto simili nel loro destino. C’è un pensiero simbolico, che nasce da un’esperienza del tutto astratta; e si tratta dell’esperienza che più facilmente spinge ad avere fantasia, a sviluppare idee, a immaginare cose nuove, a pensare soluzioni originali.»
A differenza dei monumenti del passato che col tempo cadono in rovina, i libri, «se conservati con cura, come e più di ogni costruzione, opera d’arte e monumento, vivono per sempre. Sfidano la caducità del nostro essere e quindi sono l’unica cosa che ci fa sfiorare l’immortalità. Sono il nostro tentativo di costruire una sorta di sterminato archivio di quello che, una volta usciti dallo stato primordiale, negli ultimi tremila anni, abbiamo fatto, visto, sentito, sofferto e pensato.»
Dorfles si avventura quindi in «un tentativo di spiegare […] quali sono le prospettive che la letteratura può aprirci; e come questo rappresenti un’opportunità di riflessione su cosa siamo e come siamo fatti che solo i libri ci possono dare.» Non un elenco ragionato dei libri più importanti, o più belli, quindi, ma «solo una ricognizione, personale, per alcuni pochi, grandi temi tra quelli che mi sono parsi i più adatti a spiegare perché il lavoro del lettore è il più bello che esista.»
Con una certezza: «I libri, la lettura, non portano certezze, ma dubbi. Non felicità, ma conoscenza. Non spiegano il perché della vita, ma stimolano a porre domande e a essere consapevoli di sé. Non possono superare la difficoltà di trovare un senso al nostro essere, ma ci permettono di allontanare il rischio di perderci nel nulla e ci impongono di mettere al centro di tutto la vita. Di chiederci perché, appunto, siamo, oggi, qui.»