
Una prospettiva diversa la ricaviamo se rovesciamo l’immagine e cominciamo dalle circostanze in cui la vita non va bene, incontra inciampi, difficoltà e crisi, in cui un ritmo si spezza, in cui un contesto comune e familiare si trasforma in una scena ignota e angosciante. Possiamo cominciare dai ripiegamenti, dalle crisi piccole e grandi, per pensare alla vita che scorre con agio, al senso di pienezza, di espressione, di felicità. In questa luce vediamo cose che non avremmo visto nell’altra prospettiva. (1) Vediamo la condizione di felicità e pienezza in primo luogo come una capacità di riparare e compensare crisi e blocchi. Vediamo lo scorrere agevole e felice della vita non come una condizione perfetta, isolata dalle contingenze dolorose, bensì precisamente come un modo di affrontare le circostanze dolorose e critiche, come una capacità naturale di aggiustamento, di porre rimedio. (2) E vediamo le felicità e le gioie che sorgono proprio nella vita vissuta non al riparo dalla crisi ma come avventura che riesce a trasformare le circostanze dolorose in occasioni di compagnia, di scambio e di incontro con gli altri e con se stessi. In questa seconda famiglia possiamo collocare Wittgenstein, Freud, alcuni episodi dell’etica della cura, forse anche Foucault in alcuni momenti, come ho provato a fare nel libro.
Qual è l’importanza del concetto di «forme di vita»?
Come ho detto, la prospettiva che privilegio nel libro è quella che vede la vita dal lato dei contorcimenti: la vita non scorre in linea retta ma si inceppa, il ritmo si scompensa, la linea diritta verso uno scopo si spezza. La filosofia di Wittgenstein letta in particolare assieme a Stanley Cavell prende la vita dal lato della rottura, dell’inciampo e dell’addomesticamento della crisi che lascia però la sua impronta, la sua forma. La forma della vita è proprio questa. Non è una filosofia che parte dalla pienezza, dalla perfezione, dalla maturazione eccellente. Iris Murdoch, una scrittrice e una filosofa che si colloca nelle vicinanze di questa prospettiva, ha scritto che la ricerca della forma esprime un desiderio di consolazione rispetto alla realtà varia, mutevole e contingente della vita (Against Dryness). La forma va pensata perciò più propriamente non come una struttura sottostante che garantisce l’essenza qualsiasi cosa succeda bensì come la forma (l’aspetto) che prende la vita incontrando inciampi e crisi e riuscendo a persistere, a ritrovare un suo ritmo, una sua normalità – che sono poi le forme della vita, al plurale, le forme personali che riusciamo a dare alle nostre vite nell’incontro con le vicende dolorose e gioiose dell’esistenza.
Cosa significa fare filosofia dell’ordinario?
La filosofia dell’ordinario sulla scia di Wittgenstein, Cavell e Aldo Giorgio Gargani – un filosofo italiano di prima grandezza che bisogna tornare a frequentare – inquadra questa prospettiva. L’idea dell’ordinario in Wittgenstein esprime precisamente il modo in cui andiamo avanti nella vita, nelle attività intellettuali, negli incontri, nel tessuto degli interessi che ci legano al mondo e al futuro in ritmi che si sostengono con accordi puntuali, comuni e intimi. Le fondamenta del sapere non hanno l’aspetto che immaginiamo secondo il modello della perfezione, non sono strutture solide e indistruttibili: in questo senso Gargani ha sostenuto l’idea del sapere senza fondamenti. Non perché non ci siano basi dell’edificio della cultura e della civiltà che ci accomunano e che rendono possibile essere degli individui personali e creativi, ma perché tali basi non hanno l’aspetto di fondamenta. A sorreggere l’intero edificio è una trama che tiene assieme tutti gli aspetti allo stesso livello, come nell’immagine wittgensteiniana della corda dove la robustezza non è data da un filo che la percorre per intero ma dall’intrecciarsi di molte fibre l’una all’altra. Ciò che ci muove nel proseguire una serie aritmetica, nell’applicare un concetto come “tavolo”, “giustizia” o “amore”, sono fiducie, adesioni, certezze, spontaneità minime, diffusive, tutte importanti dentro contesti. La civiltà si sorregge su ritmi composti di accordi minimi, comuni. La filosofia di Wittgenstein si propone di desublimare, detrascendentalizzare, le apparenti grandezze degli edifici della civiltà e ricondurle a ciò che è comune e basso, e che tendiamo a non vedere o a trascurare. Il senso dell’importanza è trasformato: ridiamo importanza a cose minime, a scarti minori della vita. Perciò prendersi cura della civiltà significa prendersi cura delle forme di vita che consentono queste adesioni spontanee, questi accordi comuni.
È solo dal punto di vista dell’ordinario che vediamo queste basi e le crisi che esse affrontano: crisi di fiducia, piccole e grandi. Crisi che sono inscritte nei ritmi vitali, nel modo in cui la parola e la sua comprensione si incontrano, nel modo in cui il desiderio trova espressione e risposta. Se non vediamo la crisi non vediamo neanche la naturalità vitale: la forza normativa dei concetti della matematica, dell’etica, della politica, dell’estetica, risiede nel potere di dirigerci, di organizzare la vita, di parlare a nostro nome, un potere che esercitano naturalmente, perché sono le nostre parole, inserite in contesti in cui esse svolgono questo ruolo, inserite in giochi linguistici. È un potere perciò che deriva da accordi che dipendono da noi: sono esterni a noi, hanno il potere di guidarci, ma sono anche i nostri accordi, ciò che facciamo, la spontaneità dell’azione, l’incontro degli sguardi, l’immediatezza del significato – accordi che si possono spezzare, in cui il motivo, l’interesse, il collante umano, viene meno. Le fondamenta delle costruzioni concettuali risiedono nella salienza, nell’importanza dei concetti. Per Wittgenstein il significato è interscambiabile con l’importanza, con il tessuto di interesse e di motivazione che lega assieme parole, gesti, sguardi, condotte, fatti e istituzioni. E l’interesse può venire meno, viene meno il motivo, si perde la fiducia. Questa perdita può essere commentata anche come il grigiore della vita quotidiana, con la segreta malinconia di cui parla Emerson e la quieta disperazione di Thoreau, con il disfarsi del tessuto quotidiano.
In cosa si caratterizza la visione del modernismo filosofico?
È un termine che introduco ad arte per fare riferimento al significato filosofico dell’esperienza della crisi e della rottura con le tradizioni espressive che è tematizzata nel mondo artistico tra i due secoli e che possiamo documentare fino alla metà del Novecento. Cavell ne offre una trattazione specifica molto importante ma vorrei fare riferimento ora a un filosofo italiano che è Gargani. Gargani scriveva in particolare negli anni Settanta (La crisi della ragione, Il sapere senza fondamenti) e tornava all’esperienza modernista viennese per ritrovare le radici di una ricostruzione della cultura che partisse dall’esperienza comune, dagli accordi spontanei, dalle naturalità, dal basso, e aveva come obiettivo polemico le ricostruzioni dirigiste della cultura che avevano trovato espressione nella grande politica che aveva ricostruito le nazioni europee dopo la seconda guerra. In modo originale, con i suoi studi sugli autori asburgici Gargani interpretava un bisogno di ricostruzione non dirigista della cultura e di sperimentazione dal basso, democratica e creativa.
Ci troviamo ora in una fase completamente diversa. Il Novecento è finito assieme alle culture politiche che hanno ricostruito le nazioni europee, e con la fine di quelle culture politiche vediamo vacillare anche la strutturazione sociale che avevano reso possibile. Infatti il punto della critica era quello di contestare il dirigismo per trovare basi nuove a società democratiche, ma quella occasione è stata rapidamente consumata ed esaurita già negli anni Novanta sotto la spinta della riorganizzazione neoliberale delle società e ora più recentemente da parte dei dirigismi illiberali e antidemocratici. Contro i nuovi dirigismi autoritari alcuni avvertono ora il bisogno di una ricostruzione dirigista di segno opposto ma sulla stessa linea, progressiva anziché reazionaria. La voce di Gargani e di questa prospettiva riapre invece il quadro per una ricostruzione non dirigista che veda occasioni dal basso per tessere un tessuto comune, occasioni di miglioramento che sono già ospitate nelle vite delle persone. Il modernismo fu all’origine di grandi sperimentazioni costruttive in tutti i campi, dalla fisica alla musica, alle arti visive, all’architettura, al romanzo e così via (un fatto che affascinava Gargani) che però furono fermate dalla grande guerra, a suo modo il rifiuto spaventevole di riconoscere la crisi e la sua richiesta di ricostruzione. Tornare a questo episodio intellettuale significa rimettere in circolo la trasformazione e la ricostruzione della cultura come modello di tessitura sociale e politica contro le spinte autoritarie e violente.
Cosa implica il concetto di perfezionismo morale?
Comincio con il dire che si tratta di un termine che si presta a essere frainteso. Nella tradizione filosofica il perfezionismo indica in genere forme di ascesa dell’io verso la perfezione in cui la destinazione finale non è certo lasciata alla sperimentazione individuale. Nelle nostre società la perfezione ha assunto ora altre connotazioni e tende a indicare la richiesta di prestazioni sempre più alte, ovunque, nel lavoro e nella vita sociale e personale. Già Pasolini negli anni Settanta osservava che i giovani sono nevrotizzati dall’ansia di dover essere all’altezza delle nuove libertà, e riconosceva in ciò l’insorgere di nuove forme di stritolamento della spontaneità individuale.
Nel Lato ordinario, il perfezionismo non indica l’ascesa verticale verso la condizione di perfezione ma un situarsi di lato al nostro io, ritrovandosi estranei a se stessi e quindi desiderosi di imprimere dei cambiamenti e delle svolte. Rispetto alla tradizione filosofica (metafisica) ciò che è meglio non si impone dall’esterno ma appare come una condizione che desideriamo realizzare avendola scorta come una nostra possibilità, come un’occasione non ancora presa ma che possiamo e vogliamo afferrare. Rispetto al perfezionismo prestazionale così caratteristico della nostra epoca di capitalismo dell’io, il desiderio di cambiare non è diretto da modelli gregari ma al contrario dalla riscoperta di ciò che possiamo fare di noi stessi. In diversi momenti della storia, la cultura artistica e filosofica è tornata a puntare sulla capacità di un risveglio delle potenzialità interiori per tessere di nuovo il filo dell’avventura e della solidarietà: nel romanticismo, nel modernismo, nelle contestazioni degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Nel libro ripropongo questa strada in cui la scoperta della propria fragilità e piccolezza diventa occasione di desiderio e interesse per la vita e per gli altri.