Il latino maccheronico, nel suo senso originario e più umile, è figlio dell’ignoranza; di quell’ignoranza semi-dotta che suol esser madre di prodotti assurdi e ridicoli. In un’età nella quale, dall’inizio del Medioevo in poi, il latino nessuno lo parlava più, e pochi lo studiavano bene, ma continuava ad essere in certi uffici un linguaggio tradizionalmente obbligatorio, gli ecclesiastici meno colti, in certe circostanze, e, come ho detto, i notari nei loro rogiti, si esprimevano, non potendone fare a meno, in un latino, che tanto più era familiare a loro e comprensibile agli altri, quanto meno pretendeva di essere un lontano parente di Cicerone. Entrò quindi nell’uso quel latino-non latino che altrove fu chiamato «latino da cucina» (Küchenlatein) e che noi chiamiamo «latino maccheronico». Se il maccheroneo in seguito a una lunga elaborazione diviene linguaggio d’arte, atto a produrre, col Folengo, un capolavoro, anche quando ha raggiunto l’estremo traguardo del suo lungo cammino e l’apice della sua nobiltà, riconosce tuttavia nel Latinus grossus la propria origine e l’origine del suo nome. Il Folengo stesso usa l’aggettivo macaronicus nel senso volgare di Latinus grossus: Scribere vadit adhuc macaronica verba nodarus (Baldus II, 11) [Il notaro se ne va ancora a scrivere il suo latino maccheronico].
Vi è dunque una stretta dipendenza fra il Latinus grossus e il maccheroneo d’arte: il primo è, sotto molti aspetti, il presupposto dell’altro. È necessario che ci occupiamo anzitutto del primo. Perché il latino maccheronico si chiama così? Quali sono le caratteristiche essenziali di questo latino? Latino maccheronico, nella sua accezione originale significa, per usare un aggettivo ancor vivo in Toscana, e che qui ci serve per chiarire le idee, un «latino birignoccoloso»: rozzo cioè, grossolano, informe; per essere più aderenti alla sua etimologia, un latino che assomiglia agli gnocchi. Perché i ‘maccheroni’ che danno origine al latino maccheronico […] non hanno niente a che vedere con quei maccheroni che vediamo con tenerezza avvicinarsi quando ce li servono in certe osteriette di Posillipo, e non lì soltanto. I maccheroni che hanno tenuto a battesimo il latino maccheronico, sono gli gnocchi. E poiché la parola «gnocco», oltre a indicare un cibo, viene usata, per analogia, come qualifica di un essere umano, «gnocco» significa anche stupido; stupido, non proprio in tutti i modi nei quali si può essere stupidi, che sono tanti, ma di un’ottusità imbarazzata e grossolana, con un tantino di ingenuità. Nel maccheroneo letterario la parola macaron o macaronus ha l’uno e l’altro senso di «gnocco». Nel Folengo leggiamo: questo verso: O macaron, macaron, quae te mattezza piavit? (Baldus IV, 285) (O stupido, stupido che sei! Ma che pazzia ti è presa?).
Che poi i maccheroni dei poeti maccheronici siano gli gnocchi e non ì maccheroni di tipo napoletano è facile dimostrarlo. Anche senza tener conto che dir «maccheroni» per gnocchi è ancora nell’uso vivo del Veneto, e che in francese si chiamano macarons certi grossi amaretti, che, prima di esser messi a cuocere in forno, hanno l’aspetto di un grosso gnocco, un elemento che da solo potrebbe esser decisivo, ce l’offre Tifi Odasi, il padre della poesia maccheronica letteraria. Parlando di un insigne mangiatore, scrive:
Sed tercentenae praestae celeresque masarae
Omnes aregatam facerent si nocte diuque,
Vix macaronos, quantum magnaverit ipse
Solus soletus, poterunt gratacasa tirare. (Macch., 453-56)
[Se trecento massaie, svelte e che lavorassero in fretta, facessero a gara di giorno e di notte (a chi fa più maccheroni), riuscirebbero a mala pena a lavorarne tanti con la grattugia, quanti è capace di mangiarne lui solo]. […]
Come per Tifi Odasi, così anche per il Folengo i maccheroni sono gli gnocchi. Il Folengo, definendo la poesia maccheronica col metterla in rapporto coi maccheroni, inserisce in quella definizione una vera e propria ricetta per fare gli gnocchi. Scrive infatti (Luzio, vol. II, p. 284):
Ars ista poëtica nuncupatur ars macaronica a macaronibus derivata, qui macarones sunt quoddam pulmentum farina, caseo, botiro compaginatum, grossum, rude et rusticanum; ideo macaronices nil nisi grassedinem, ruditatem et vocabulazzos debet in se continere.
[Questo modo di poetare si chiama poesia maccheronica, e il nome deriva dai maccheroni; questi maccheroni sono un impasto di farina, cacio e burro, un mangiare rozzo e da contadini; per conseguenza il parlar maccheronico non deve contenere che cose grossolane, rozze e vocaboli terra terra]. […]
Il latino maccheronico è dunque un latino grossolano e bitorzoloso, simile agli gnocchi. Ma il lettore non può contentarsi di questa troppo vaga definizione. Del latino maccheronico è necessario mettere in rilievo quei requisiti specifici per i quali è tanto maccheronico il latino di uno scolaretto di oggi o di un notaro del Duecento, quanto è maccheronico il latino del Folengo, al quale non sarebbe potuto arrivare che un poeta di larghissima dottrina e dotato di finissima sensibilità umanistica.»