
È solamente in anni recenti che diversi altri paesi sono emersi come rifugi potenziali. Sembra che Al Zawahiri abbia passato anni in Yemen, dopo che vi cominciò la guerra civile che dura tutt’ora. La Somalia e il Mali sono oggi altri paesi in cui enormi porzioni di territorio sono sotto il controllo dei jihadisti associati ad Al Qaida. Per un periodo, tra il 2013 e il 2018, lo stesso poteva dirsi della Siria. Dopo il 2011, quindi, l’identificazione del movimento jihadista con l’Afghanistan non è stata più esclusiva.
In che modo l’Afghanistan è divenuto un nodo centrale per il moderno jihadismo internazionale?
Negli anni ’80 e ’90 non c’erano altri paesi che si trovassero in uno stato di ‘collasso permanente’, in cui i jihadisti potessero trovare facilmente rifugio. La jihad combattuta negli anni ’80 contro i sovietici, in aggiunta, aveva creato un clima politico e culturale favorevole. Quasi tutti i partiti islamisti che combatterono contro i sovietici avevano rapporti con jihadisti stranieri e sarebbe stato inconcepibile a quel tempo tagliare i ponti e chiedere loro di andarsene. Quando poi gli Americani intervennero contro i Taliban e cominciò una nuova jihad, l’Afghanistan divenne per la seconda volta in poco più di 20 anni una causa celebre nel mondo musulmano. Nuovi volontari stranieri cominciarono ad affluirvi, ma soprattutto la causa della jihad afghana offriva ai jihadisti globali un’opportunità unica per raccogliere fondi in abbondanza. Fino al 2011, quando comincia la guerra civile in Siria, l’Afghanistan fu un’occasione d’oro per rendere il jihadismo globale una causa popolare e per finanziarlo.
Direi che l’aspetto finanziario è quello più importante. Per poter crescere oltre la fase romantica di giovanotti musulmani che passavano qualche mese a combattere in guerre altrui per la gloria e per Allah, occorrevano soldi. Finché la guerriglia dei Taliban non cominciò a decollare nel 2006, Al Qaida aveva ancora pochi soldi, era disorganizzata e aveva limitate possibilità di aiutare i suoi alleati. Fu solamente negli anni successivi che Al Qaida riuscì ad espandere considerevolmente il proprio ruolo, cavalcando la jihad afghana. Ancora recentemente, dopo che Al Qaida è stata umiliata in Siria e vi ha quasi completamente perso ogni influenza, l’organizzazione che fu di Bin Laden e Al Zawahiri ha dovuto in larga parte affidarsi alla jihad dei Taliban per continuare a raccogliere fondi in ambienti simpatizzanti con l’ideologia jihadista.
Il movimento jihadista è stato sostenuto inizialmente anche dalle potenze occidentali: in quale ottica ciò è accaduto e quando si è consumata la rottura tra i due attori?
Le potenze occidentali sostennero la jihad afghana e il movimento in suo favore nel mondo musulmano. Erano consapevoli che elementi radicali giocavano un ruolo importante all’interno di quel movimento, ma sembrano aver pensato che i paesi musulmani legati agli Americani, quali i Sauditi, sarebbero stati capaci di controllarli. L’idea era di tramutare l’Unione Sovietica da alleato ‘oggettivo’ di cause popolari nel mondo musulmano, quale il movimento palestinese, in nemico principale del mondo musulmano. L’idea era che queste energie radicali si sarebbero da allora in poi sfogate principalmente contro i sovietici. Senonché l’Unione Sovietica, come è noto, crollò poco dopo il ritiro dall’Afghanistan, nel 1991, lasciando alle ‘energie’ jihadiste nessun bersaglio migliore dell’America stessa e dei suoi alleati. I jihadisti erano anti-Americani pure prima, ma l’Unione Sovietica aveva avuto la priorità. Negli anni ’90 gli Americani ignorarono l’Afghanistan, ma pian piano il movimento jihadista internazionale ivi basato mutava, fino al punto in cui emerse la dottrina del ‘nemico lontano’, che stipulava che bisognasse attaccare l’America per costringerla ad abbandonare il Medio Oriente e tutti i regimi ad essa alleati.
Quali prospettive, a Suo avviso, per il paese asiatico e il movimento jihadista?
Il movimento della jihad globale e l’Afghanistan hanno rischiato di divergere già nel 2001-2, quando la sconfitta dei Taliban sembrava lasciare poche opportunità per ristabilirvi una base jihadista. Oggi i jihadisti di nuovo si trovano di fronte a un rischio elevato di dover rinunciare all’Afghanistan come base operativa, per via dei loro rapporti problematici con molti dei leader talibani e degli attacchi americani, che hanno già portato all’uccisione del capo di Al Qaida, Al Zawahiri, alla fine di luglio. Al Qaida ha cercato di costruire un fronte qaidista tra i Taliban, ma si è scontrata con la scarsa credibilità di questa opzione: come potrebbe sopravvivere un Emirato filo qaidista, in un paese senza accesso al mare, dipendente dai vicini per tutto (dal cibo all’elettricità al carburante) e senza risorse finanziarie sufficienti? La maggioranza dei Taliban pertanto è andata orientandosi verso un approccio più conciliante con i paesi esteri e cerca di far sloggiare i jihadisti. Sono in molti a sospettare che i Taliban più pragmatici abbiano aiutato gli Americani a rintracciare Al Zawahiri ed anche altri membri di Al Qaida che negli ultimi mesi sono caduti vittime dei droni.
Per i Taliban l’unica opzione reale per consolidare l’Emirato è almeno mettere in un angolo i jihadisti stranieri, se non proprio farli partire, e moderare le proprie politiche quanto basta per farsi riconoscere almeno dai paesi della regione. A quel punto riprenderanno un po’ di investimenti e l’economia potrebbe recuperare al punto che l’Emirato potrebbe raggiungere il punto di autosufficienza finanziaria, almeno per quanto riguarda il mantenimento di una struttura statale minima.
Dal punto di vista di Al Qaida ed altri jihadisti internazionali, l’Afghanistan non è comunque già più una base attraente, perché chiaramente gli Americani sono in grado di colpirli lì con precisione. Dove potrebbero trovare rifugio i leader di Al Qaida in futuro? L’Iran, con cui Al Qaida ha buoni rapporti potrebbe essere un’opzione, ma detrarrebbe certamente credibilità all’organizzazione e darebbe certamente agli iraniani un’influenza considerevole negli affari dei jihadisti. Le altre alternative sono per lo più in Africa, come Somalia e Mali, ma nessuna è altrettanto attraente del montagnoso Afghanistan, dove nascondersi in passato è stato relativamente facile. Pertanto, Al Qaida fronteggia un serio dilemma. Il concetto stesso che i Taliban, che Al Qaida ha aiutato per anni nella loro jihad, adesso si preparino a dare il ben servito ad Al Qaida è potenzialmente devastante per la strategia che Al Qaida ha adottato sotto la guida di Al Zawahiri, dal 2011 in poi. Già i tradimenti dello Stato Islamico, che era un tempo la branca di Al Qaida in Iraq, e poi di Al Nusra, la branca principale di Al Qaida in Siria, che si è rivolta contro l’organizzazione madre, avevano messo in crisi questa strategia. Con i Taliban che appaiono avviati sulla stessa strada, il futuro leader di Al Qaida vorrà in tutta probabilità riconsiderare le sue opzioni.
L’Afghanistan oggi ospita anche una branca dello Stato Islamico, che non ha alcuna intenzione di sloggiare e combatte l’Emirato dei Taliban con metodi sempre più spregiudicati. Si parla di una possibile alleanza di Al Qaida con lo Stato Islamico, ma si tratta comunque di un’opzione poco attraente per l’organizzazione che fu di Bin Laden: associarsi al più forte Stato Islamico in Khorasan come alleato junior sarebbe una grande umiliazione.
Antonio Giustozzi ha conseguito il dottorato di ricerca alla London School of Economics and Political Science nel 1997 e ha da allora lavorato nel mondo accademico, per organizzazioni internazionali e per vari think tanks. Ha pubblicato diversi libri in inglese, tra cui The Taliban at War e The Islamic State in Khorasan. Di entrambi è recentemente uscita una nuova edizione aggiornata. Pubblica regolarmente articoli su riviste specializzate e collabora a diversi quotidiani, tra cui, in Italia, La Repubblica.