“Il Kanun di Skanderbeg” a cura di Donato Martucci e Genc Lafe

Prof. Donato Martucci, Lei ha curato con Genc Lafe l’edizione del Kanun di Skanderbeg, con la traduzione integrale del Kanuni i Skanderbegut di Frano Illia, pubblicato dalle Edizioni Grifo: quale importanza riveste nella storia e nella tradizione del popolo albanese il Kanun?
Il Kanun di Skanderbeg, Donato Martucci, Genc LafeIl Kanun, anzi sarebbe meglio dire i Kanun, giacché diverse sono le raccolte di consuetudini giuridiche albanesi, sono testimonianza sia della complessità giuridica che avevano raggiunto le tribù (fis) albanesi in un periodo in cui non esisteva un potere statale centralizzato, sia delle virtù morali ed etiche, in qualche misura idealizzate, che dovevano dirigere i comportamenti degli uomini liberi delle montagne. Queste norme, tramandate per secoli in forma esclusivamente orale e messe per iscritto tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, raccontano di genti fiere e bellicose che mal sopportavano le imposizioni dei vari invasori che si succedettero nelle loro terre e preferivano autogovernarsi seguendo le proprie consuetudini (ciò non vuol dire che queste consuetudini non siano state influenzate in qualche misura da precetti “alieni”). Sono un tesoro di informazioni su innumerevoli aspetti della vita di organizzazioni sociali ormai disgregatesi e mutate in modo consistente. La nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la morte, l’organizzazione familiare, quella delle più estese fratellanze e dei fis, il commercio, la giustizia, le relazioni tra compaesani e con i forestieri ecc. ecc., nulla o quasi è sfuggito ai raccoglitori delle consuetudini albanesi, questi testi sono una miniera da un punto di vista storico, antropologico, giuridico, letterario e linguistico.

Come si è evoluto storicamente il Kanun?
A questa domanda non è semplice rispondere, proprio perché, come ho già detto, per secoli queste norme consuetudinarie si sono tramandate esclusivamente in modo orale e quindi, non avendo fonti scritte precedenti da poter comparare, le mutazioni del diritto consuetudinario dobbiamo inferirle dalle raccolte stesse.

Nel corso dei secoli il diritto consuetudinario albanese ha dovuto costantemente relazionarsi con altre forme di diritto provenienti ora dai più moderni centri urbani (vedi Scutari), ora dai differenti dominatori che si sono succeduti sul territorio. Molti si sono posti il problema di come far fronte a questo pluralismo giuridico ben radicato e diversi sono stati i tentativi da parte di governi centrali di regolarizzare e migliorare la situazione giuridica della popolazione albanese. Padre Giuseppe Valentini ne individua cinque principali (in uno studio pubblicato nel 1943).

Il primo, sarebbe stato quello veneziano, che comunque venne messo in opera nelle città e non nelle montagne.
Il secondo tentativo fu quello turco, che istituì nella città di Scutari un tribunale centrale per le montagne del nord, chiamato Xhibal, che giudicava secondo il Kanun.
Il terzo fu quello del Montenegro che, costituito in gran parte di tribù originarie albanesi, si reggeva con leggi tradizionali molto affini al Kanun. La regolarizzazione venne posta gradualmente in opera dai principi, che con costanza, sapienza e un tempo sufficientemente lungo, riuscirono a dotare il territorio di una vera giustizia governativa.
Il quarto tentativo fu quello posto in essere dalla casata dei Gjomarkaj, che si limitava più che altro ad intervenire come pacificatrice, cioè come arbitra e conciliatrice, nelle controversie di vendetta.

L’ultimo tentativo, secondo padre Valentini, fu quello del clero cattolico, e specialmente della Missione Volante Albanese dei Padri Gesuiti, che si adoperarono ad ottenere, per motivi religiosi, pacificazioni altrimenti ritenute impossibili, ed inoltre anche a modificare la legislazione in materia morale e sociale.

Quale valore storico-letterario ha la compilazione del codice che porta il nome di Skanderbeg?
La compilazione di questo specifico Kanun ha un grande valore storico-letterario su due piani di lettura: innanzi tutto, ci racconta degli usi e dei costumi di una parte dell’Albania, quella delle regioni centro-settentrionali, così come le ha trovate don Frano Illia tra il 1936 e il 1966, l’arco di tempo in cui le ha raccolte. Già allora questi usi erano in veloce trasformazione, soprattutto grazie al regime di Enver Hoxha, e le norme trascritte si riferiscono spesso al recente passato degli informatori; queste norme riprendono e integrano molto spesso quelle più note pubblicate nel 1933 dai frati francescani e raccolte da Shtjefën Kostantin Gjeçovi (Kanun di Lek Dukagjini), che si riferivano soprattutto alla regione della Mirdita. Il Kanun di Skanderbeg è più esteso e descrittivo, sovente nei paragrafi non vengono citate solo le norme ma ne viene proposto anche il commento. Molto interessante è pure la contaminazione delle norme consuetudinarie con i precetti e i riti dell’Islam (cosa che non avviene nella raccolta di Gjeçovi). Da un punto di vista linguistico, di notevole interesse sono i proverbi e i modi di dire, così come il dialetto utilizzato nella redazione albanese. Nella nostra traduzione abbiamo cercato di mantenere la costruzione originale delle frasi e abbiamo lasciato in albanese (con nota esplicativa) alcuni termini difficilmente traducibili che rendono meglio l’universo simbolico entro il quale agivano le persone che osservavano queste norme.

Su un altro piano di lettura, questo testo è importante da un punto di vista storico-letterario, per la sua stessa vicenda redazionale. Don Frano Illia, dopo aver raccolto il materiale, venne incarcerato per vent’anni dal regime comunista di Hoxha con l’accusa di spionaggio in favore del Vaticano. Da lì in poi parte la richiesta di restituzione dei manoscritti da parte di Illia ai vertici politici del regime; la vicenda si concluderà soltanto dopo la scarcerazione del sacerdote e la pubblicazione del volume in albanese presso una casa editrice italiana nel 1993.

Quali principi morali sono alla base del Kanun?
I Kanun albanesi si basavano tutti su alcuni principi fondamentali che costituivano l’humus culturale, l’universo simbolico aderendo al quale il singolo si integrava nella società e costruiva, come suo membro, la propria identità.

Fondamentalmente questo codice consuetudinario era una speciale mentalità etica, fondata sul sentimento d’onore, di fedeltà, di libertà non priva di senso di responsabilità; sostanzialmente si limitava a pochi principi di indole statutaria che definivano quale fosse il governo delle comunità, monarchico nella famiglia, repubblicano con senato e tribunato nelle più estese comunità. Il resto, compreso anche tutto il bagaglio folklorico e la legge della vendetta di sangue faceva parte delle acquisizioni accidentali del Kanun.

Possiamo quasi dividerlo in due parti, una fondamentale e immutabile, l’altra accidentale e mutabile, come affermava padre Giuseppe Valentini. La parte fondamentale comprendeva sia i principi morali teorici (institutiones) che lo statuto positivo della tribù e della famiglia e i diritti e doveri dei componenti. La parte accidentale comprendeva, invece, le determinazioni mutabili secondo luogo e secondo tempo, specialmente in materia di giustizia commutativa e penale e in alcuni punti di procedura.

Il principio morale cardine è la Burrnija, termine che deriva da burrë, che significa uomo. La Burrnija comprende quei comportamenti che fanno dell’uomo una persona virtuosa, valorosa, dall’animo illuminato, buona e benefica. La Burrnija è l’essere uomo nel senso più nobile e spirituale del termine.

Il secondo principio morale è la besa. Questa è la sintesi delle virtù etiche dell’uomo che tiene fede agli impegni e che attribuisce alla parola data il valore di un comandamento inviolabile.

La Besa è inscindibilmente legata alla Burrnija giacché concedere la Besa significa affermare il valore del proprio onore che da solo sta a suggello di qualsiasi promessa, e la considerazione della propria personalità capace d’impegnarsi in un compromesso. Chi concede la Besa è quindi un vero burrë. Violargli la Besa perciò, direttamente o indirettamente, cioè non tenerne conto o fare sì che anche involontariamente un individuo vi manchi, significa per conseguenza impedire all’individuo di essere un burrë.

Altra caratteristica degli albanesi descritti dai Kanun è il forte sentimento di libertà personale, secondo varie gradazioni (della donna, del giovane, dell’uomo sposato, del pater familias), ma sempre in modo tale da escludere ogni idea di schiavitù.

La libertà si spingeva fino al punto di poter accettare o non accettare persino le norme consuetudinarie: così recita il Kanun di Scanderbeg: «Se vuoi essere uno di noi, fa’ come dice il villaggio e il bajrak. Attieniti al nostro Kanun. Il Kanun è una legge uguale per tutti. Altrimenti non sei uno dei nostri. Ti separerai dalla comunità, nel bene e nel male» (KS § 47).

Fondamentale era anche il concetto di uguaglianza: questo si esplicitava soprattutto in una parità di valore e di trattamento rispetto alla legge. Riprendendo i paragrafi del Kanun di Lek Dukagjini di Gjeçovi possiamo ricostruire, tra le interpretazioni del raccoglitore e quelle dei montanari, questo sentimento di uguaglianza: «Il Codice delle Montagne albanesi non fa distinzione tra uomo e uomo. Un’anima vale quanto un’altra; davanti a Dio non c’è distinzione» (KLD § 593); «L’uomo prestante ed il deforme hanno lo stesso valore. Il bello può nascere dal brutto, ed il brutto dal bello. Nella estimazione di se stessi ciascuno non pesa meno degli altri» (KLD § 594). Tutto questo perché, in una società priva di Stato, se si distinguessero gli uomini in base alla ricchezza, all’origine e alla posizione sociale, i poveri e i deboli sarebbero uccisi e maltrattati senza modo di reagire. Questo principio di uguaglianza è molto importante anche in materia di faida non permettendo quindi, proprio perché “sangue vale sangue” (cioè la vita di un individuo vale esattamente quanto quella di un altro), l’uccisione di più persone, ma di uno solo come vendetta in caso di omicidio o altro caso previsto dalle norme. Sempre il Kanun di Lek Dukagjini afferma: «Se ad arbitrio si desse luogo alla distinzione del sangue, il difettoso fisicamente e d’origine modesta verrebbe ucciso anche senza motivo; e così aumenterebbero le uccisioni perché nessuno chiederebbe giustizia per l’uccisione di un difettoso fisicamente e debole d’animo» (KLD § 890); «Il buono può nascere dal cattivo e il cattivo dal buono – Anima per anima, tutte le crea Dio» (KLD § 891).

Intimamente legato alla Burrnija, alla Besa, alla libertà personale e all’uguaglianza è, infine, il concetto dell’onore (nder).

L’onore, osserva Ernest Koliqi, consiste nella considerazione e nei debiti riguardi che l’individuo pretende secondo quanto per consuetudine gli spetta, e saprà difendere questo suo diritto sacrificandogli i beni, la famiglia e la vita.

Da tali principi teorici discendono i sei concetti più ricorrenti nella psicologia e nella pratica dei Kanun, cioè l’ospitalità (chiamata accoglienza dell’amico, mikpritja), la protezione (ndorja), l’intercessione (ndërmjetsija), la garanzia (dorzânija), il deposito delle ultime volontà (amaneti) e la vendetta (gjakmarrja, ripresa del sangue). Questi altro non sono che le conseguenze concrete dei principi fondamentali.

Qual è l’organizzazione sociale disegnata dal Kanun?
Tutti questi principi non sono regolati in astratto, ma sono calati in una realtà ben precisa, in una struttura sociale che già agli inizi del novecento, quando le norme sono state raccolte, stava subendo forti cambiamenti, che sono poi diventati veri e propri stravolgimenti con l’instaurarsi del regime comunista e con la sua successiva caduta e la venuta di un regime democratico.

Le società che si regolavano attraverso le norme consuetudinarie erano strutturate in questo modo: la cellula fondamentale era la famiglia patriarcale a discendenza patrilineare, poi venivano le fratellanze, i fis, il villaggio e il bajrak. Ciascuna comunità aveva comunque dei capi, nessuno di loro era principe assoluto, ma solo esecutori delle decisioni dell’assemblea (kuvend). Questa poteva essere convocata sia dallo stesso capo, sia da chiunque all’interno dell’assemblea avesse diritto al voto. La figura del capo era più intesa come una guida che come un comandante, sia nella vita di tutti i giorni, che nei casi di guerra. Il Kanun di Lek Dukagjini si riferisce ai capi come alle prime autorità delle stirpi (Krenët e fisevet), e specifica che la loro carica era ereditaria. Anche il capo, in caso di trasgressione delle norme del Kanun, era soggetto alla multa, come ogni altro albanese.

Ogni comunità, oltre ad avere un capo e un’assemblea che veniva convocata in casi straordinari, era dotata anche di un Senato, un’assemblea degli anziani (pleqsija). In linea di massima i senatori (pleq), erano di famiglia nobile, ma oltre questi potevano essere chiamati a far parte del Senato altri për urti, ossia per le loro personali doti di prudenza e per la loro esperienza in affari giudiziari e politici. Il Senato, benché la carica fosse ereditaria, aveva la fisionomia di un’assemblea di esperti che interpretavano il Kanun, ossia ne determinavano il modo di eseguirlo; non però contro il volere della collettività, perché una specie di tribunato della plebe (gli stërpleq, alla lettera bis-vecchi, rappresentanti e difensori della plebe, del popolo minuto) aveva sempre potere di veto; anzi in certe regioni la plebe prese persino il sopravvento sul Senato (come la «Djelmnija» o gioventù di Shala).

In base a tali principi così si struttura la società kanunale albanese: ogni comunità (katun o villaggio, bajrak o bandiera, fis o tribù, stirpe) ha i suoi capi (primates, capitani, vojvodi, o bani, o conti per i fis; bajraktarë o alfieri per la bandiera) e i senatori per diritto ereditario, e in casi eccezionali scelti anche per merito di saggezza. Questi formano l’organo direttivo ordinario sotto il controllo degli stërpleq (tribuni della plebe) che rappresentano anche quelle famiglie che non hanno ereditariamente posto nel Senato. In casi straordinari si raduna tutta l’assemblea (kuvend), un uomo per casa, cioè per ciascuna famiglia, anche del popolo minuto: qui ciascuno “ha bocca” cioè ha voce, diritto di parola e di voto. Dove non giunge la competenza dell’assemblea del villaggio, si raccoglie quella della bandiera o della tribù.

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