
In che modo la visione religiosa degli aborigeni australiani e dei nativi nordamericani è esemplificativa del rapporto dell’uomo con il cosmo e le sue forze?
La visione religiosa degli aborigeni australiani e dei nativi nordamericani (naturalmente, prima che l’incontro/scontro con i bianchi colonizzatori la snaturasse) era una tipica visione cosmocentrica, basata cioè sul tentativo di vivere in armonia con la natura e le forze che animano il cosmo. Per riprendere la definizione che ho proposto di religione, qui il sentimento di dipendenza è nei confronti di un divino o di un sacro, variamente rappresentato, che coincide con la vita profonda del cosmo. Queste due popolazioni (che naturalmente al loro interno erano molto articolate e la cui visione del cosmo era ecologica, dipendeva cioè profondamente dal tipo di ecosistema in cui si trovavano a vivere, che andava dal deserto australiano ai ghiacci dell’Alaska) avevano in comune un sentimento religioso di dipendenza assoluta dalla natura come essere vivente. Il cosmo di queste popolazioni è animato in tutte le sue componenti, anche quelle che per noi sono inanimate, come ad esempio le pietre. Un tempo, il tempo delle origini, come raccontano i vari miti, queste realtà si erano formate – erano passate dal caos primordiale al cosmo – grazie all’azione di esseri mitici primordiali, come gli antenati per gli australiani. Il cosmo che ne era risultato era, certo, per certi aspetti, minaccioso e pericoloso; ma nel complesso, come insegna il caso degli gli animali, si tratta di mantenere un rapporto di armonia e di equilibrio con la natura che ci circonda, una terra vivente, che si lascia anche sfruttare, purché lo si faccia secondo le regole e i riti appresi dagli antenati. Una tipica visione ecologica, che non ha certo perso d’attualità
Come si sviluppa la tradizione religiosa della Cina antica?
La tradizione religiosa della Cina antica accompagna e riflette inevitabilmente la storia millenaria e complessa di questa grande civiltà. Semplificando al massimo, si può dire che nel periodo di formazione dell’impero (che formalmente si costituirà soltanto nel III secolo a.C.), la Cina non è un paese unitario ma profondamente diviso in più o meno grandi unità regionali. Si è parlato, a torto o a ragione, di medioevo cinese. Da un lato, abbiamo i grandi signori, con le loro corti fastose e la loro etica bellica; dall’altra, l’immenso mondo contadino, che vive come macchina da lavoro per queste elite. La religione rispecchia questa divisione sociale. Da un lato, una religione delle elite, che mira a legittimare il potere dei sovrani e dei nobili, è incentrata su riti che ne conservino il potere, elabora una visione dell’aldilà funzionale alla continuità, nell’altro mondo, dei privilegi delle elite. Dall’altra, una religione popolare, legata allo svolgimento della vita agricola, incentrata intorno alle feste, che lascia poco spazio alle speranze nell’aldilà. Sullo sfondo di una rivoluzione urbana che cambia profondamente questo paesaggio sociale, a partire dal VII-VI secolo prima della nostra era, si impongono nuovi bisogni intellettuali portati avanti da un nuovo tipo di intellettuali, come Confucio o i maestri di sapienza, come Lao-tsu, che stanno alla base del daoismo, una corrente filosofico-religiosa molto importante.
Quando e come entra in crisi la visione cosmocentrica?
Il caso della Cina, che ho prima ricordato, può essere portato ad esempio. Senza spingersi a parlare di evoluzione o stadi evolutivi della storia religiosa, è indubbio che certi mutamenti sociali hanno favorito questa crisi. Un cambiamento importante è rappresentato dall’imporsi di una civiltà urbana, che favorisce gli scambi, oltre che di merci, anche di idee, fa emergere figure di intellettuali nuovi, come in Grecia i filosofi, e così via. La natura, che era alla base di società di tipo agricolo, in un contesto urbano perde inevitabilmente d’importanza. La vita urbana favorisce l’individualismo religioso, la critica, il confronto di idee. Il mondo degli dei tradizionali entra in crisi. L’individuo cerca, con le sue facoltà, nuove vie e nuove risposte per i suoi bisogni, il suo senso di dipendenza dall’assoluto. Questa ricerca non si accontenta più delle divinità tradizionali che popolavano il cosmo e la natura. Il loro posto è ora preso da un divino non cosmico o sovracosmico. Sorge e si afferma l’idea di trascendenza di questo divino.
Questo processo, che si suole definire epoca assiale, ha una cronologia ampia. Certo, una svolta decisiva si compie tra VII e VI secolo a.C.: in Grecia assistiamo al sorgere della filosofia; in Israele agiscono le grandi figure profetiche che rivelano il Dio unico e trascendente; in Cina nasce una corrente come il daoismo; in India è l’epoca della scoperta del mistero dell’interiorità, in cui si cela il divino; in Iran troviamo la rivelazione etica di Zarathustra.
Quando e come avviene l’invenzione del monoteismo?
L’ho appena accennato: in Israele, tra VII e VI secolo. I testi più chiari sono quelli del Deuteroisaia, un profeta le cui profezie sono comprese nel Libro di Isaia. Questo profeta agisce dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei babilonesi nel 586, cui seguì la deportazione in Babilonia di buona parte della classe sacerdotale. Probabilmente egli fa parte di questi deportati. Per la prima volta nei suoi testi appare in modo chiaro e indubbio una concezione di monoteismo esclusivista: il Dio di Israele non è più un dio nazionale, come era stato fino ad allora, uno dei tanti dei nazionali del Vicino oriente antico, ma è l’unico Dio: gli altri dei sono idoli, cioè pure creazioni umane, fatte a immagine dell’uomo, che bisogna rifiutare e distruggere. Dio non è come l’uomo: una novità religiosa radicale, le cui conseguenze arrivano, anche attraverso i monoteismi cristiano e islamico che ne derivano, fino ai nostri giorni.
Qual è l’importanza dello zoroastrismo in questo processo?
Lo zoroastrismo è una grande religione, ancora vivente, anche se i suoi eredi, oggi denominati Parsi, sono ridotti a poche centinaia di migliaia e vivono dispersi, lontano dalla loro patria d’origine, l’Iran occidentale. Zoroastro – lo Zarathustra di Nietzsche – se si accetta una possibile cronologia, sarebbe vissuto tra VII e VI secolo a.C.: è dunque contemporaneo dei grandi profeti biblici (anzi, secondo alcuni studiosi, i profeti deportati a Babilonia potrebbero essere stati influenzati dal suo messaggio),e rientra pienamente nell’epoca assiale. Egli era un sacerdote che faceva parte della religione iranica tradizionale. Ma a un certo punto della sua vita inizia a ricevere rivelazioni da Ahura Mazda, che gli si rivela come il suo Signore e l’unico vero Dio. Dunque, una forma di monoteismo. Che però ha una caratteristica essenziale, che lo distingue dal monoteismo di Isaia. Zoroastro ritiene che nel mondo esista e agisca uno Spirito del male, un Signore del male, che lotta continuamente contro il Signore del bene, cercando di prevalere. Dunque, il monoteismo di Zoroastro presuppone una visione dualistica, l’esistenza di un principio del male, che non è ontologico, nel senso che non esiste da sempre come Ahura Mazda, ma è venuto all’essere a un certo tempo, prima della creazione, come parto gemellare del Signore supremo. Si tratta di una risposta originale all’annosa questione del male, che per Zoroastro non è una semplice responsabilità umana, in quanto preesiste all’uomo. Quest’ultimo è chiamato a decidere: se sceglierà il bene e la verità, comportandosi in modo eticamente corretto, egli avrà un premio eterno, altrimenti lo attende una punizione eterna. Lo zoroastrismo ci aiuta a comprendere un tratto fondamentale della svolta dell’epoca assiale. L’emergere di un principio trascendente, che diventa il fondamento della verità e della giustizia, favorisce una svolta etica nella vita religiosa.
Come avviene la svolta antropologica nel sentimento religioso?
La svolta antropologica si deve soprattutto al cristianesimo e alla sua idea dell’incarnazione del Figlio di Dio in un uomo, Gesù di Nazareth. Anche se il pensiero cristiano antico ha conosciuto vari modi, spesso conflittuali e alcuni alla fine rigettati come eretici, di interpretare l’idea di incarnazione, alla fine l’idea che è passata ha contribuito in modo determinante a questa svolta antropologica. Gesù il Cristo, secondo il dogma cristologico affermatosi nel concilio ecumenico di Calcedonia del 451, è vero Dio e vero uomo. Egli unisce in sé, in modo non confuso, le due nature, divina e umana, con quella divina partecipando pienamente alla divinità del Padre, con quella umana partecipando pienamente a quella umana. Solo grazie a questa condivisione totale della nostra natura, egli è in grado di riscattarci pienamente, non solo nell’anima ma anche nel corpo e nella carne, dal peccato. Questa piena assunzione della dimensione umana costituisce una svolta nel modo di concepire il rapporto con la trascendenza: che rimane trascendente, ma nel contempo è pienamente umana. Questa svolta antropologica sta alla base, molti secoli dopo, privata del suo volto divino, della svolta antropologica dell’illuminismo. In questo senso, uno studioso ha potuto parlare del cristianesimo come della religione dell’uscita dalla religione.