
Il capitano Bellodi, originario di Parma ma in servizio in un paesino della Sicilia, si trova a dover investigare su una serie di omicidi. Ed è con il primo omicidio che si apre il romanzo: è un’alba grigia e silenziosa quando “si sentirono due colpi squarciati” e un uomo che stava per salire sull’autobus viene freddato a colpi di lupara. Il clima di omertà che circonderà tutte le indagini è già tutto in queste prime pagine, nei volti e nell’atteggiamento dei passeggeri dell’autobus: gli uomini con “facce che sembravano facce di ciechi, senza sguardo”, le donne, che di solito chiacchierano o imprecano, “ora stavano in silenzio, le facce come dissepolte da un silenzio di secoli”.
Il morto, Salvatore Colasberna, è un piccolo imprenditore, presidente di una cooperativa edile e il capitano Bellodi avvia la propria indagine nel settore degli appalti edilizi, che scopre ben presto essere controllati dalla mafia.
Tuttavia le indagini sono difficoltose. In paese tutti tacciono e i pochi che osano parlare vengono prontamente fatti fuori. Muore Paolo Nicolosi, che ha visto l’uccisore di Colasberna fuggire dal luogo del delitto e ha riconosciuto nel fuggitivo un tale Diego Marchica detto Zicchinetta. Muore poi Calogero Dibella, confidente dei carabinieri, che aveva insinuato nel capitano il dubbio che si trattasse di un omicidio di stampo mafioso e che gli aveva fatto i nomi di due individui coinvolti: Rosario Pizzuco e Don Mariano Arena. È proprio Don Mariano, noto capomafia locale, ad essere il mandante dei delitti, benché tutti lo descrivano come “un galantuomo: tutto casa e parrocchia; e in età, poveretto, con tanti malanni addosso, tante croci”, “un uomo eccezionale: tanto più se si pensa che è sprovvisto di istruzione, di cultura… Ma voi sapete quanto più della cultura valga la purezza del cuore”.
Per incastrare i colpevoli, Bellodi ricorre a un falso verbale di interrogatorio in cui induce Marchica a pensare di essere stato tradito e accusato degli omicidi da Pizzuco. Marchica ammette quindi l’uccisione di Colasberna e accusa Pizzuco di quella di Nicolosi, mentre Pizzucco ammette solo un coinvolgimento indiretto. Intanto l’arresto dei tre sospettati – Marchica, Pizzuco e Arena – ottiene grande rilievo sulla stampa, soprattutto a causa dei legami di Arena con la politica: i giornali pubblicano le foto di Arena con il ministro Mancuso e viene aperto un dibattito Parlamentare sul caso.
Si arriva così alla parte forse più coinvolgente del romanzo, quella in cui i due mondi, quello del mafioso Don Mariano e quello dell’integerrimo capitano Bellodi, si scontrano. Don Mariano sembra prima intoccabile: “sedette guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spense in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico.” Poi con spocchia espone a Bellodi la sua classificazione del genere umano, diventata celebre, in cui gli uomini sono suddivisi in “gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”. Bellodi, avendo subito compreso che è praticamente impossibile riuscire a incastrare Arena dal punto di vista penale, fa ruotare astutamente l’interrogatorio sugli aspetti fiscali, domandando al mafioso conto del suo reddito, troppo alto per poter derivare dalla sola rendita dei suoi terreni.
Ma purtroppo non c’è un lieto fine ad attendere il lettore.
Le pressioni politiche dall’alto portano all’archiviazione del caso: per l’omicidio di Colasberna a Diego Marchica viene fornito un finto alibi, l’omicidio di Nicolosi viene insabbiato indentificandolo come omicidio passionale, per “quei motivi passionali che per la mafia e la polizia sono, in eguale misura, una grande risorsa”. E per quanto riguarda la mafia, “Noi due, siciliani, alla mafia non ci crediamo” dice spavaldo il politico coinvolto nei dibattiti parlamentari, “questo, a voi che a quanto pare ci credete, dovrebbe dire qualcosa. Ma vi capisco: non siete siciliano, e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura.”
Sono trascorsi esattamente trent’anni dalla morte di Sciascia, quasi sessanta da quando Il giorno della civetta è stato scritto e ventisette da quando è morto Giovanni Falcone, l’uomo che, proprio come anticipava il capitano Bellodi, ha seguito i “portafogli mafiosi”, ossia le indagini finanziare nella sua inchiesta contro la cosca Spatola-Gambino-Inzerillo. “Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti” dice Bellodi nel romanzo, “sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso”. Una frase che diventa sempre più vera, ora che la mafia, ben lontana dall’essere scomparsa, è andata cambiando volto e modalità di azione.
Il giorno della civetta è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere o magari rileggere. Perché è coinvolgente, come i migliori gialli, perché ha una prosa splendida, e perché pare scritto oggi. Basta sostituire alla lupara il narcotraffico, agli appalti edilizi l’alta finanza e alla Sicilia il mercato globale.
Silvia Maina