
Per quanto ci è dato sapere, i romani percepivano i pericoli insiti in intrattenimenti capaci di dilapidare i patrimoni familiari e fomentare la commissione di attività criminali. Perciò, si premurarono di isolare quelli meno innocui, rispetto ai quali era il caso e non l’abilità dei giocatori a determinare il risultato, allo scopo di vietarne la pratica o, comunque, neutralizzarne gli effetti sul piano patrimoniale. Un diverso approccio riguardò le manifestazioni ludiche che, come la lotta o le gare di velocità, contribuivano al mantenimento dell’efficienza psico-fisica dei cittadini, la cui diffusione non venne invece contrastata.
Quali misure a contrasto del gioco d’azzardo erano previste a Roma?
Va detto che già prima della nascita di Cristo, in epoca repubblicana, il diritto romano si occupava di contrastare il gioco di azzardo in vari modi. Anzitutto, coloro che lo praticavano potevano essere chiamati in giudizio da qualunque cittadino per essere condannati a pagare il quadruplo delle somme giocate. Dato che l’importo veniva devoluto a chi si fosse attivato contro i giocatori, il rischio per questi ultimi di venire convocati davanti al tribunal da qualcuno intenzionato a trarre beneficio dalla loro condanna doveva essere significativamente alto. Il pretore, ossia il magistrato a cui faceva essenzialmente capo l’amministrazione della giustizia, ritenne inoltre di togliere qualunque convenienza ai giocatori d’azzardo disponendo che il perdente potesse rivolgersi a lui per riavere indietro quanto avesse pagato come debito di gioco. Questa soluzione dovette sembrare particolarmente efficace ai posteri, dato che l’imperatore Giustiniano, nel VI secolo d.C., non solo decise di conservarla ma ne rafforzò l’efficacia, estendendo agli eredi del giocatore e alle autorità locali la possibilità di agire in restituzione e prolungando il periodo fino a cinquant’anni a disposizione per attivarsi.
La diffusione dei giochi di puro rischio fu inoltre avversata in maniera indiretta, negando tutela in caso di furto o percosse, a coloro che agevolavano lo svolgimento delle partite, come ad esempio i tenutari di bische. In epoca più tarda fu perfino disposta la confisca dei luoghi in cui venissero rinvenuti materiali e attrezzature funzionali allo svolgimento di giochi proibiti.
Il Vostro lavoro richiama il tema dei debiti di gioco e delle obbligazioni naturali: quale ne è stata l’evoluzione dottrinale?
Il debito di gioco come obbligazione naturale è concetto estraneo al pensiero giuridico romano. Nella sua formulazione un ruolo determinante è stato svolto dal Pothier, giurista francese del XVIII secolo. Superando i pregiudizi che avevano contraddistinto la riflessione medievale in argomento, egli si fece assertore della tesi secondo cui il contratto di gioco dovesse essere trattato alla stregua di qualunque altro contratto, per cui non poteva considerarsi illecito, anche se riguardasse l’azzardo, quando fosse concluso liberamente, con una equa ripartizione dei rischi tra i partecipanti e venissero rispettate le regole del gioco. Ritenne, tuttavia, che non sempre il vincolo negoziale che veniva a crearsi tra i giocatori fosse coercibile, potendo ciò aversi solo in relazione ai giochi sportivi (cd. virtutis causa), a cui era senz’altro associabile un giudizio di utilità ed apprezzamento sociale. Nei restanti casi, se il perdente non avesse onorato il debito di gioco, al vincitore non sarebbe stato disponibile nessuno strumento di tutela; se invece vi avesse provveduto spontaneamente, gli sarebbe stato impossibile chiedere indietro quanto versato, perché l’accordo stipulato per giocare era valido ed efficace.
Qualificando il debito di gioco come debito di onore, Pothier finisce tuttavia per collegare alla figura del contratto di gioco effetti che rilevano sul piano morale, quindi fuori dall’ambito in cui il contratto nasce, che è quello giuridico. La necessità di porre rimedio a questa aporia ha spinto numerosi studiosi a misurarsi con l’argomento senza tuttavia che si sia mai giunti al decisivo superamento dell’equivalenza tra obbligazione naturale e dovere extragiuridico. Come ho cercato di dimostrare intervenendo sulla questione, una possibile soluzione all’impasse potrebbe aversi rispolverando la figura dell’obbligazione giuridica imperfetta, ben nota al diritto di Roma antica.
Qual era il valore politico, sociale e giuridico dei ludi romani?
A Roma, l’organizzazione di spettacoli costituiva un’attività particolarmente remunerativa, sul piano dell’immagine, per chi se ne faceva promotore, creando un collegamento tra la sua persona ed eventi che il sentire collettivo percepiva come particolarmente importanti e lieti nella vita della comunità. Pertanto, nel corso dell’età repubblicana, quando l’accesso alle magistrature era elettivo, l’indizione di ludi era percepita come un momento essenziale per la captazione del consenso popolare da parte di chi aspirasse a coltivare la carriera politica. Con il passaggio all’impero non verranno meno i giochi né le finalità di propaganda a cui la loro celebrazione risultava funzionale.
La fortuna sul piano sociale di queste iniziative si può attribuire all’azione contemporanea di più fattori: il nesso che esse presentavano con le festività religiose, il senso artistico dei romani, la loro passione per lo sport e gli spettacoli in genere, le prospettive di lauti guadagni da parte di chi era coinvolto nella loro realizzazione.
Il diritto non poteva restare indifferente al fenomeno, ed infatti intervenne a regolarne gli aspetti più disparati. Si occupò, ad esempio, di riservare una posizione giuridica deteriore a chi si esibiva per il diletto del pubblico, impedendogli di adire la giustizia per conto altrui, aspirare alle magistrature o prestare servizio nell’esercito; vietò a chi avesse un rango sociale elevato di apparire sulla scena o unirsi in matrimonio ad attrici; stabilì che nei ludi non fossero investite risorse economiche eccessive.
In cosa consistevano i munera gladiatoria?
I munera gladiatoria altro non erano che spettacoli di combattimento tra gladiatori, che molto probabilmente i romani conobbero grazie al contatto con ambienti etruschi. La loro origine può farsi risalire all’antichissima usanza di bagnare i riti funebri con sangue umano, nella convinzione che ciò potesse indurre i morti a vivere con maggiore serenità la vita ultraterrena. Al semplice sacrificio umano si sostituì ben presto il combattimento tra le vittime sacrificali, che aveva il pregio di soddisfare anche l’esigenza di divertire quanti erano accorsi al funerale. L’elemento spettacolare si affermò al punto che quelle iniziative assunsero autonoma rilevanza, finendo per essere realizzate anche fuori dal contesto delle onoranze ai defunti. Fortuna analoga incontrò un’altra tipologia di spettacoli particolarmente idonea a venire incontro ai gusti sadici della popolazione: la lotta tra uomini e bestie, che inizialmente costituiva una modalità di esecuzione della pena capitale e, quindi, era riservata esclusivamente ai condannati a morte.
Che nesso esisteva tra ludi gladiatorii e crimen ambitus?
Il crimen ambitus ricorreva al cospetto di una serie di fattispecie che oggi definiremmo come brogli elettorali e la sua introduzione può ascriversi all’attenzione che, specie negli ultimi due secoli della res publica, i romani ebbero per il regolare funzionamento delle assemblee popolari e la libertà del voto espresso dai cittadini che prendevano parte ai comizi, sia che questi fossero convocati per provvedere alla nomina di un magistrato, sia che fossero coinvolti nella deliberazione di una legge, sia, infine, che intervenissero con funzione di giudice rispetto all’accertamento ed alla punizione di comportamenti penalmente rilevanti.
Gli spettacoli di combattimento fra gladiatori, per i riflessi spiegati sull’opinione pubblica in termini di captazione del consenso, potevano ben costituire uno strumento per l’illegittimo accaparramento di voti. Perciò, una lex Tullia de ambitu, fatta approvare da Cicerone nel 63 a.C., sancì il divieto di organizzare ludi gladiatorii a partire dal primo gennaio dell’anno precedente l’elezione. Lo stesso Cicerone ottenne dal Senato un’interpretazione estensiva di precedenti prescrizioni, per cui vennero ad essere proibite anche le cene elettorali o il regalo di biglietti per assistere ai ludi.