“Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (1789-1915)” di Vinzia Fiorino

Prof.ssa Vinzia Fiorino, Lei è autrice del libro Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (1789-1915) edito da Viella. La Rivoluzione francese, pur proclamando l’eguaglianza di tutti i cittadini, esclude categoricamente le donne dalla vita politica: come si sviluppa il dibattito rivoluzionario attorno ai diritti delle donne?
Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (1789-1915), Vinzia FiorinoConsidero la Rivoluzione francese il contesto fondativo e in un certo senso ineludibile per lo studio dei moderni modelli di cittadinanza; modelli che escludono le donne fin dal loro atto di nascita. La rilevanza della Rivoluzione e il dibattito che si sviluppa fino all’Impero napoleonico non è solo cruciale, ma fuoriesce dalla storia nazionale francese per investire almeno tutta l’Europa continentale. Ma procediamo con ordine: nel corso della Rivoluzione si distinguono subito, in modo netto, i diritti individuali imprescrittibili che sono ­- con tutte le ambiguità rispetto al genere e alla «razza» – universali da quelli di cittadinanza che segnano l’appartenenza alla comunità politica e che possono appartenere o ai più ricchi (ossia agli uomini che pagano un certo censo, come previsto dalla prima Costituzione del 1791) o a tutti i soggetti di genere maschile (così come secondo la Costituzione del 1793, discussa e approvata ma mai messa in pratica). Le due prime Costituzioni ci dicono già moltissimo di tutta la complessa vicenda della cittadinanza come costrutto profondamente gendered: nel primo caso si stabilisce che solo i proprietari possono essere cittadini e ciò conduce ad un interrogativo: le donne sono proprietarie? Durante la rivoluzione si introduce un principio importante, ossia l’uguaglianza tra i generi nel diritto successorio: fratelli e sorelle avrebbero potuto ora ereditare le proprietà famigliari in parti uguali. Si tratta di un passaggio non da poco; con il matrimonio, però, i beni ereditati dalle figlie, nella stragrande maggioranza dei casi, saranno gestiti dai mariti. L’autorizzazione maritale, confermata nel Code Napoléon del 1804, vieta alle donne (coniugate ovviamente) di alienare, ricevere in dono, gestire direttamente i propri averi. Un diritto di proprietà così svilito non poteva certo immettere alla sottoscrizione del contratto sociale, che il diritto di voto simboleggiava soprattutto in quel contesto germinale. Resta comunque un interrogativo: le nubili? E le vedove? Loro sì che erano a tutti gli effetti proprietarie, ma non per questo cittadine. La proprietà dunque era condizione necessaria ma non sufficiente per divenire cittadine; bisognava essere prima di tutto maschi. La costituzione del 1793 lo conferma chiaramente richiamando le ragioni di una insuperabile inferiorità naturale per escluderle; argomento profondo e duraturo, su cui tornerò.

La costituzione del 1795 ci permette di individuare un altro aspetto cruciale della costruzione monosessuale della cittadinanza: il nesso non è nuovo, ma ora è ben esplicitato e lega il diritto di cittadinanza alla difesa militare della patria. La costituzione termidoriana riconosce i diritti di cittadinanza infatti a chi ha partecipato ad un certo numero di campagne militari consolidando, ancora una volta, il carattere maschile della cittadinanza.

Naturalmente molte rivoluzionarie, talvolta a titolo personale, talvolta in gruppi ma sempre a nome di tutte le donne, rivendicano sia i diritti civili sia quelli politici. Da una parte Olympe de Gouges (autrice della celebre Dichiarazione della donna e della cittadina del 1791), Etta Palm, Mary Wollstonecraft si muovono sulla linea illuminista, pur riconcettualizzando temi e significati profondi dei diritti soggettivi. Altre, come Théroigne de Méricourt, per rivendicare la cittadinanza delle donne insistono sul nesso tra sfera politica e difesa della Nazione rivendicando l’uso delle armi e degli abiti maschili. Si travestiranno suggerendo così un’identità ibrida alquanto destabilizzante; volevano infatti opacizzare proprio quei tratti fisici femminili percepiti come antitetici alla sfera politica.

Come si organizza l’attività dei movimenti suffragisti?
Credo sia corretto parlare di movimenti suffragisti in Francia solo a partire dagli anni settanta/ottanta del Novecento, cioè dal momento in cui emergono diverse realtà organizzate con un cospicuo numero di militanti, una stampa autonoma, una presenza periodica nei quotidiani e, non ultimo, una serie di rapporti internazionali ben strutturati.

Non tralascerei, tuttavia, alcune militanti di formazione sansimoniana che, nel contesto della rivoluzione del 1848, proprio quando tutti i francesi diventano elettori, hanno posto questa domanda: nell’espressione “tutti i francesi sono cittadini” (del decreto governativo) sono comprese anche tutte le francesi? Il governo rivoluzionario rispose loro chiaramente di no, perché le donne non erano ancora abbastanza istruite e perché la natura assegnava loro altri ruoli sociali. Le militanti, in questo contesto prevalentemente operaie, inaugurano come mezzo di lotta politica anche la pratica delle candidature simboliche, formalmente illegali, ma efficaci sul piano della propaganda politica.

Con la Terza Repubblica il quadro cambia significativamente: i movimenti si articolano anche in base alle diverse appartenenze ideologiche, e qui è importante sottolineare che in Francia, come in Italia, i rapporti delle femministe con i gruppi politici (radicali, socialisti e così via) sono sempre stati complessi proprio per le difficoltà di questi ultimi di confrontarsi con una politica segnata dalla categoria di genere. Ma torniamo alle principali caratteristiche dei movimenti: in primo luogo, molte militanti consolidano precisi rapporti con alcuni parlamentari in grado di condurre delle specifiche riforme; tra le più sentite ricordo: la ricerca della paternità, la fine dell’autorizzazione maritale e soprattutto la possibilità per le operarie (il cui numero al tempo era in costante crescita) di ricevere direttamente il proprio salario, avere un libretto di risparmi senza che tutto questo fosse “autorizzato” dal marito. In questo periodo emergono importanti personalità tra cui ricordo Hubertine Auclert che ha fatto del suffragismo la battaglia più importante della sua militanza. Due almeno gli elementi che la caratterizzano: la più compiuta concettualizzazione dello stato assistenziale, capace di intervenire sulle disuguaglianze reali, e l’incontro con le donne maghrebine che aveva avuto modo di conoscere durante un lungo soggiorno in Algeria. Le memorie scritte di questa esperienza sono interessanti perché fanno emergere un altro punto di vista sul difficile rapporto che nel tempo si era stabilito tra la Francia e la preferita tra le sue colonie. Intrecciando le asimmetrie di genere con quelle di «razza», ho cercato di far emergere talune contraddizioni sia nel pensiero della Auclert sia nella cultura politica della Terza Repubblica.

Come si articola la concezione ottocentesca del ruolo delle donne nella società?
Nel corso del XIX secolo si delinea un idealtipo che assegna alle donne l’esclusivo ruolo domestico. L’identificazione del femminile con la sfera privata non è certo una novità, ma adesso la separazione tra pubblico/privato si configura come una sorta di dogma. Nell’età contemporanea, però, gli assetti politici generali vanno legittimati: in questo caso il ruolo esclusivo delle donne nella sfera domestica è legittimato anche da un discorso scientifico che le “costruisce” come esseri più sensibili e delicati, con capacità intellettuali ridotte, destinati alla riproduzione e alla prima educazione dei figli. Le fibre dei tessuti nervosi e muscolari prima, le dimensioni della scatola cranica e il peso del cervello poi insistono su una insuperabile inferiorità che le allontana dalla politica; entrambi questi saperi, se ci pensiamo, riflettono sulla libertà dell’essere umano sia pur da punti di vista diversi. Aggiungerei la cristallizzazione di alcune dicotomie importanti che prendo in considerazione per i suoi esiti politici: da una parte una donna “posta sull’altare”, sublimata per il suo ruolo di fattrice della specie; dall’altro “una poco di buono”, incline alla corruzione e all’immoralità. I due poli di questa estremizzazione escludono l’essere femminile come soggetto morale dotato di una propria libera coscienza e quindi possibile titolare di diritti civili e politici. Interessante notare come il modello culturale che ha strutturato l’essere femminile sia utilizzato anche per definire, sul finire del secolo, le masse; nuovo soggetto collettivo sempre più presente nella sfera pubblica e al centro della grande crisi del sistema rappresentativo.

Quale nuova stagione di lotta inaugura Madeleine Pelletier?
Per prima cosa presenterei la sua figura, forse non così nota al pubblico italiano: di origini umilissime, si laurea in medicina (grazie ad una borsa di studio) e poi si specializza in psichiatria. Evidenziare la fallacia di alcune importanti conclusioni cui sul finire del secolo era giunta la scienza positivista sarà per lei un obiettivo tenacemente perseguito. Ha infatti buoni argomenti scientifici per dimostrare l’infondatezza di teorie che asserivano l’inferiorità biologica delle donne che ho già richiamato. Di formazione socialista, sarà sempre molto sensibile ai temi sociali e alle disuguaglianza materiali secondo una prospettiva di genere. Lontana tanto dagli apparati di partito quanto dalle correnti ideologiche, si reca a Mosca all’indomani del ‘17 per verificare i cambiamenti delle condizioni di vita delle donne, ma constata solo il totale fallimento della rivoluzione d’ottobre che definisce “un fantasma autoritario maschile”. Il suo, peraltro, era e resta un socialismo antiburocratico e libertario, tratto che aveva già impresso alla Solidarité des femmes, l’organizzazione che aveva diretto. Calata nella militanza suffragista, in qualche occasione elettorale anche simbolicamente candidata e poi ancora fondatrice della rivista mensile «La Suffragiste», è la riflessione sul nesso tra controllo del corpo femminile e assenza di diritti politici la cifra più interessante del suo contributo teorico. La critica radicale al patriarcato, alla sessualità maschile e l’impegno in favore della pratica abortiva rendono il suo approccio del tutto originale e pertanto un po’ marginale in quel contesto.

Vinzia Fiorino insegna Storia contemporanea all’Università di Pisa. Tra le sue pubblicazioni: Matti, indemoniate e vagabondi (Venezia, 2002) e Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (Pisa, 2011).

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