
Quali vicende hanno segnato l’impegno del generale nella lotta al terrorismo brigatista?
Una prima fase ebbe inizio nel 1974, all’indomani della liberazione di Mario Sossi, il magistrato sequestrato dalle Br, che in tal modo avevano compiuto indubbiamente un salto di qualità. Fu in quel momento che il governo si convinse ad autorizzare la formazione di una struttura specializzata – il primo Nucleo antiterrorismo – che era incardinata all’interno della brigata di Torino, che il generale comandava dall’anno precedente. Questa struttura, composta da pochi uomini e che adottava una metodologia per certi versi innovativa (anche se non mancavano legami con tradizioni investigative precedenti, come quelle anti-banditismo sperimentate dallo stesso dalla Chiesa nel secondo dopoguerra) riuscì in breve tempo ad ottenere risultati di grande rilievo, a partire dall’arresto, avvenuto nel settembre di quello stesso anno, di due dei “capi storici” delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Nonostante questi successi, il Nucleo fu sciolto l’anno successivo, sia a causa della sottovalutazione della minaccia brigatista, che si riteneva avesse ormai imboccato la sua parabola discendente, sia a causa delle ostilità nei confronti del ricorso ad una strumentazione di contrasto che esulasse dall’ordinario. La seconda fase dell’azione antiterrorismo di dalla Chiesa prese avvio nel 1978, dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Fu in quel momento che, in un clima di emergenza nazionale, il generale fu incaricato dal nuovo ministro dell’Interno Virginio Rognoni di guidare una nuova struttura che, per quanto riguarda le modalità operative, riprendeva quelle del 1974-75, anche se le sviluppava e potenziava ulteriormente. Anche in quel caso i risultati non tardarono ad arrivare, con la scoperta di covi e l’arresto di numerosi brigatisti. La svolta nella lotta alle Br arrivò poi all’inizio del 1980, nel momento in cui il generale non era più a capo della struttura speciale, ma alla guida della divisione “Pastrengo” di Milano, posizione dalla quale in sostanza passavano sotto la sua direzione tutte le forze dei carabinieri del Nord Italia. Fu allora, infatti, che venne arrestato Peci che, come detto, divenne il primo “pentito” delle Br. La sua testimonianza non fu importante soltanto nel merito, per ciò che effettivamente rivelò, ma anche per il fatto di essere stato un esempio per tanti altri che come lui avevano fatto la scelta della “lotta armata” ma che adesso si decidevano a collaborare. Da quel momento le Br e gli altri gruppi terroristici entrarono in una crisi irreversibile.
Quali iniziative hanno accompagnato il suo incarico di prefetto del capoluogo siciliano?
Iniziative specifiche di contrasto dalla Chiesa non poté intraprenderne molte, dal momento che restò in carica soltanto per pochi mesi. È interessante però ragionare sulle convinzioni che aveva maturato a proposito della lotta alla mafia al momento di essere designato per quell’incarico. In particolare riteneva che uno degli elementi che contraddistingueva maggiormente il fenomeno mafioso fosse la sua capacità di diffondersi in altri contesti, dunque prima di tutto a tutta la Sicilia e non solo alla sua parte centro-occidentale, ma anche al Nord Italia. Spiegò bene il punto nel corso dell’intervista a Giorgio Bocca dell’agosto 1982 – poche settimane prima del suo assassinio – dicendo che “chiunque pensasse di combattere la mafia nel ‘pascolo’ palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo”. Per questo motivo, fin da quanto il governo aveva cominciato a pensare ad un suo invio nel capoluogo siciliano, dalla Chiesa aveva sostenuto la necessità che, oltre al ruolo di prefetto, gli fossero attribuiti dei più ampi poteri di coordinamento. Oltre a questo aspetto concreto che, com’è noto, ebbe grandi difficoltà di realizzazione, direi che il suo incarico a Palermo è stato importante per il significato complessivo che assunse, quello cioè dell’invio da parte del governo del più strenuo difensore delle istituzioni in un momento e in un contesto tanto drammatici, quando era in pieno svolgimento l’offensiva corleonese sotto la forma della “seconda guerra di mafia” e degli “omicidi eccellenti”. Il neo-prefetto fin da subito aveva cercato di creare attorno alla sua figura un clima positivo, di trasformare la sfiducia e la rassegnazione di gran parte dell’opinione pubblica locale in aperto sostegno all’azione di contrasto alla mafia. Del resto, dalla Chiesa aveva già dimostrato di essere molto attento all’aspetto psicologico negli anni della lotta al terrorismo, quando riteneva necessario eliminare quel consenso di cui godevano gli esponenti della “lotta armata” in alcuni ambienti specifici. Nel caso della mafia, i suoi sforzi in questo senso si concretizzarono in verità dopo il suo assassinio. Fu a partire da quel momento, infatti, che si determinò un salto di qualità nella mobilitazione collettiva nei confronti del fenomeno mafioso, portando alla nascita del movimento antimafia per come noi lo conosciamo oggi.
Dalla Chiesa si è trovato al centro di accuse e polemiche di varia natura: in quali contesti si svilupparono?
Una corrente ostile nei confronti del generale si sviluppò nel corso degli anni Settanta, soprattutto a partire da quando guidò le strutture speciali antiterrorismo. Indubbiamente quell’azione veniva condotta all’insegna di una certa “spregiudicatezza”, per citare un termine che proprio dalla Chiesa avrebbe usato quando fu chiamato a riferire davanti alla Commissione Moro. Una delle pratiche oggetto delle maggiori critiche era quella dell’infiltrazione all’interno dei gruppi terroristici, dal momento che comportava dei rischi da diversi punti di vista, anche se la sua efficacia era indubbia, come dimostra il fatto che si riuscì ad effettuare il già menzionato arresto di Curcio e Franceschini proprio grazie ad un infiltrato, Silvano Girotto, meglio conosciuto come “frate mitra”. Altrettanto efficace e allo stesso tempo “borderline” da un punto di vista formale, era poi la tecnica del ritardato arresto dei soggetti individuati dagli inquirenti, quella cosiddetta “dei rami verdi”, per cui si evitava di proposito di arrestare tutti e subito nella speranza che grazie a chi era restato in libertà si potessero conseguire ulteriori risultati in termini investigativi. Sospetti e ipotesi della natura più varia furono poi formulati in occasione di vicende specifiche, soprattutto del blitz nel covo di via Monte Nevoso a Milano del 1978, nel quale fu ritrovato il cosiddetto “memoriale” di Aldo Moro. Fin dai giorni successivi ci fu chi sostenne che il generale non lo avesse consegnato subito e per intero ai magistrati come avrebbe dovuto, ma che prima lo avesse fatto leggere a qualcun altro (Andreotti?) o che lo avesse tenuto per sé per una qualche non meglio identificata ragione. Le autorevoli smentite in quel caso non furono sufficienti e anzi le voci negli anni successivi si moltiplicarono, in particolare dopo che, nel 1990, nel corso di lavori di ristrutturazione a quell’appartamento, fu trovata una nuova e più ampia versione del “memoriale”. Per andare su un piano più generale, c’era chi riteneva che la figura di dalla Chiesa stesse diventando troppo ingombrante e che si fosse finito con il personalizzare eccessivamente la lotta al terrorismo. Infine c’erano anche tutti coloro che, in buona o in cattiva fede, ritenevano che il continuo ricorso ad una strumentazione di tipo straordinario come erano le strutture speciali da lui guidate potessero ledere alcuni dei principi alla base dello Stato di diritto.
Chi furono i mandanti del suo assassinio?
Al delitto dalla Chiesa avevano dedicato particolare attenzione già gli inquirenti del maxiprocesso della metà degli anni Ottanta. Secondo Giovanni Falcone l’assassinio del prefetto non poteva che ascriversi allo schieramento dei corleonesi e dei loro alleati, i quali in tal modo avevano voluto subito colpire colui che – anche da un punto di vista simbolico – rappresentava l’estremo tentativo delle istituzioni di fronteggiare una situazione tanto complessa come quella che si era determinata allora a Palermo. Il giudizio del 1995 su questi fatti ha ribadito l’ergastolo per gli esponenti della “cupola” di Cosa Nostra e successivamente, grazie alle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, si è anche riusciti a fare luce sugli esecutori materiali. Tuttavia, è rimasta molto forte in una parte dell’opinione pubblica l’idea che l’omicidio non andasse esclusivamente inquadrato all’interno di dinamiche mafiose, ma che ci potesse essere stato il coinvolgimento di altri interessi, delineando dunque una pista politico-istituzionale. A rafforzare quest’idea sono state anche le dichiarazioni di alcuni pentiti come Buscetta, secondo il quale il mafioso Gaetano Badalamenti gli avrebbe detto che “lo hanno mandato a Palermo [= dalla Chiesa] per sbarazzarsene di lui”. In questo modo ad alcuni è sembrato possibile ipotizzare un collegamento con il ritrovamento delle carte di Moro, i cui originali sarebbero stati conservati da dalla Chiesa e poi trafugati dalla cassaforte di villa Pajno, la residenza del prefetto del capoluogo siciliano, ad opera di un qualche apparato deviato. Mi pare però che con una simile versione si ragioni su un piano del tutto ipotetico, in cui si finisce per non tenere in considerazione le complesse ragioni che avevano determinato la mancata attribuzione dei poteri di coordinamento richiesti da dalla Chiesa. Alcuni episodi verificatisi la notte immediatamente dopo il delitto di via Carini che non si è riusciti del tutto a chiarire non possono essere utilizzati per avvalorare la tesi di un complotto preordinato ai suoi danni, come se ogni circostanza possa essere esattamente incasellata all’interno di un preciso disegno.
Vittorio Coco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo. Si è occupato di storia della mafia, del fascismo e, negli ultimi anni, di storia delle polizie. Oltre alla recente biografia di Carlo Alberto dalla Chiesa, è autore dei volumi La mafia dei giardini. Storia delle cosche della Piana dei Colli (Laterza, 2013) e Polizie speciali. Dal fascismo alla repubblica (Laterza, 2017).