“Il gallo non ha cantato. Vitaliano Brancati tra fascismo e dopoguerra” di Marco Dondero

Prof. Marco Dondero, Lei è autore del libro Il gallo non ha cantato. Vitaliano Brancati tra fascismo e dopoguerra, edito da Carocci: quali tappe segnarono il percorso intellettuale e narrativo di Vitaliano Brancati?
Il gallo non ha cantato. Vitaliano Brancati tra fascismo e dopoguerra, Marco DonderoNel volume seguo innanzitutto lo svolgimento della scrittura di Brancati nel decennio 1932-41, dal primo romanzo L’amico del vincitore (1932), nel quale viene esaltato l’attivismo di matrice futurista e fascista, fino al Don Giovanni in Sicilia (1941), il libro in cui l’attivismo viene smitizzato grazie alla conquista dell’attitudine comica. Tra questi due testi, le tappe fondamentali sono costituite dal breve Singolare avventura di viaggio (1934), dove fa la sua comparsa nella scrittura brancatiana la tematica erotica, e dall’importante romanzo Gli anni perduti (composto tra 1934 e 1936 e pubblicato per la prima volta nel 1938). Gli anni perduti è composto in uno stato di disagio interiore, come scriverà lo stesso Brancati in una lettera al suo ex professore di liceo Francesco Guglielmino: «è stato scritto in un periodo molto nero della mia vita: di crisi, si direbbe con una brutta parola moderna. Era la prima volta che vedevo tutta la stupidità dell’attivismo e di coloro che, non avendo un serio modo di vivere, trovano, negli attivisti, medici o guide miracolosi». Si può dire che però fortunatamente il disagio genera il primo romanzo “maturo” dell’autore, e produce una scrittura che alterna tratti caratterizzati da un’atmosfera plumbea e dolorosamente malinconica ai primi segnali del comico e dell’ironia che caratterizzeranno la narrativa brancatiana successiva. In particolare qui l’ironia è rivolta contro il personaggio di Francesco Buscaino, sedicente professore e imprenditore che alla fine della storia si rivelerà un volgare impostore, il quale progetta di costruire e aprire al pubblico una torre panoramica nella città di Natàca (trasparente allusione a Catania). Contagiati dal suo attivismo saranno i giovani più in vista della città, felici di attendere a un lavoro grandioso che promette loro la ricchezza e al contempo li salva dalla noia profonda in cui è avvolta la vita dell’intera città, e che però si risolverà in un completo fallimento.

Che rapporto ebbe col fascismo lo scrittore siciliano?
In gioventù Brancati (nato nel 1907) aderì al partito fascista con piena consapevolezza, e anche entusiasmo. Lo scrive lui stesso in I fascisti invecchiano (1946), il volumetto in cui svolse un’impietosa analisi e – ciò che davvero conta – autoanalisi degli anni trascorsi durante la dittatura, che vale la pena citare distesamente: «Sui vent’anni, io ero fascista sino alla radice dei capelli. Non trovo alcuna attenuante per questo: mi attirava, del fascismo, quanto esso aveva di peggio, e non posso invocare per me le scuse a cui ha diritto un borghese conservatore soggiogato dalle parole Nazione, Stirpe, Ordine, Vita tranquilla, Famiglia, ecc. Per effetto di non so quale tendenza, che si annidava nel fondo della mia natura, e che ancor oggi mi fa dormire con un solo occhio come il custode nella casa già visitata dai ladri, sui venti anni io mi vergognavo sinceramente di ogni qualità alta e nobile e aspiravo ad abbassarmi e invilirmi con lo stesso candore, avidità, veemenza con cui si sogna il contrario». Non sono stati molti gli scrittori che nel dopoguerra hanno dimostrato di saper analizzare con tanto coraggio la propria adesione al regime. Per fortuna, Brancati ebbe la capacità di allontanarsi dall’ideologia fascista già nella seconda metà degli anni Trenta. Egli non fu un eroe, e continuò a intrattenere rapporti coi funzionari di regime; però seppe – proprio durante gli “anni del consenso” – sottoporre ad autocritica le proprie convinzioni, e ciò lo portò a mutare anche la propria immagine pubblica di intellettuale: da cantore del regime a osservatore ironico e critico della società e dei costumi italiani. Lo dimostrano non solo i suoi scritti narrativi (Singolare avventura, Gli anni perduti e Don Giovanni in Sicilia) ma anche i suoi scritti saggistici, specie le interessantissime Lettere al Direttore pubblicate nel settimanale «Omnibus» a partire dal 1937. Nella lettera del 16 ottobre 1937 si legge ad esempio: «Avremmo una o due cose, di una certa importanza, da dire, ma non volendo, o non potendo, parliamo di tutte le sciocchezze di questo mondo. Tali sciocchezze prendono un aspetto singolare, perché la serietà degli argomenti taciuti vi cola sopra in qualche modo, e le trasforma».

In che modo Don Giovanni in Sicilia rappresenta la consacrazione del “nuovo corso” della narrativa brancatiana?
Grazie alla disposizione al comico, che era stata solo uno dei vari tratti degli Anni perduti e nel Don Giovanni diventa, invece, centrale. Il libro è davvero un piccolo gioiello: Brancati ha ormai raggiunto lo stile più maturo della sua prosa, “semplice” ma duttile e ricco di risonanze, sia ironiche sia talora malinconiche. Anche dal punto di vista dei contenuti il romanzo presenta alcuni degli spunti più felici della sua narrativa, a partire naturalmente dalla vera e propria tematica principale, la forma peculiarissima di dongiovannismo che Brancati battezza gallismo: cioè, con le sue parole, l’«avere i sogni, e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna». Ma tale pervasività dell’immagine femminile «porta che nessuno sa poi reggere alla presenza di lei»: i galli catanesi sono dunque uomini a tutto interessati fuor che a ottenere nella pratica il “successo” con le donne, che vengono solamente agognate nella fantasia, e fatte oggetto di discorsi con gli amici. La vicenda del protagonista Giovanni Percolla si apre a Catania, dove egli conduce una vita da perfetto “gallo”; poi, dopo il matrimonio con la bellissima Ninetta, la coppia si trasferisce a Milano, dove Giovanni diventa apparentemente un uomo attivo e “moderno”. La conclusione del romanzo mostra però come un viaggio in Sicilia lo riporti immediatamente alle vecchie abitudini, eliminando la sottile patina di modernità con cui l’esperienza milanese aveva (illusoriamente) ricoperto il nucleo del suo essere e della sua condizione ideale di vita: quella di dongiovanni a Catania.

In quale contesto maturò Il bell’Antonio e in che modo esso si connette alle altre scritture che nel dopoguerra animarono la riflessione storico-politica e morale di Brancati?
Il bell’Antonio, pubblicato nel 1949, è il romanzo più famoso di Brancati, certo per la sua bellezza ma anche, è innegabile, per la sua tematica “scandalosa”: narra la storia di Antonio Magnano, giovane catanese di straordinaria bellezza ritenuto da tutti un grande amatore, il quale invece solo molto raramente nel corso della sua vita è riuscito ad avere un rapporto sessuale con una donna e soprattutto non è stato in grado di consumare il matrimonio con la troppo amata moglie Barbara. Quando la sua impotenza diviene di pubblico dominio, si scatena uno scandalo esplosivo nella società machista della Sicilia degli anni del fascismo. Nel romanzo Brancati fa agire contemporaneamente le diverse attitudini narrative e saggistiche che nelle prove precedenti avevano preso di volta in volta il sopravvento, proponendo un testo complesso e sfaccettato ma coeso. Sono fortissime ad esempio le connessioni con la scrittura giornalistica, anche mediante il riuso all’interno del romanzo di materiali derivanti direttamente da articoli su quotidiani. Il travaso appare in generale agevole, dal momento che nella scrittura saggistica di Brancati opera un “impulso narrativo” che corrisponde perfettamente all’impulso “saggistico” che opera nella sua narrativa: micro-racconti, pagine autobiografiche, ricordi nutrono i suoi articoli, così come riflessioni e argomentazioni morali innervano i suoi scritti creativi. Parlando del Bell’Antonio non si può poi non ricordare il film girato da Mauro Bolognini nel 1960 (sei anni dopo la morte prematura di Brancati), con la sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini. Un film che nonostante alcune scelte discusse (prima fra tutte lo spostamento cronologico dell’azione negli anni Cinquanta, con la conseguente rinuncia ai riferimenti al regime fascista che costituiscono una parte fondamentale del libro) acquista particolare rilievo per le prove di bravura dei protagonisti, Marcello Mastroianni (Antonio Magnano) e Claudia Cardinale (sua moglie Barbara Puglisi).

Marco Dondero (Roma 1971) è professore associato di Letteratura italiana contemporanea all’Università degli studi Roma Tre. Tra i suoi lavori: Autografi di lettere leopardiane (Edizioni del Centro nazionale di studi leopardiani, 2000), Leopardi e gli italiani (Liguori, 2000), Manualetto leopardiano (Edizioni Università di Macerata, 2008), Leopardi personaggio. Il poeta nei Canti e nella letteratura italiana contemporanea (Carocci, 2020), Il gallo non ha cantato. Vitaliano Brancati tra fascismo e dopoguerra (Carocci, 2021), le edizioni critiche e commentate del Discorso sugli Italiani di Giacomo Leopardi (Les Belles Lettres, 2003) e del Teatro di Vincenzo Padula (Laterza, 2010), la cura dei Meridiani di Vitaliano Brancati: Racconti, teatro, scritti giornalistici (Mondadori, 2004) e Romanzi e saggi (Mondadori, 2005), e di alcuni volumi collettivi (tra i quali Scrittori e giornalismo. Sondaggi sul Novecento letterario italiano, Edizioni Università di Macerata, 2009, e Un’arte che non langue non trema e non s’offusca. Studi per Simona Costa, con Costanza Geddes, Laura Melosi e Monica Venturini, Cesati, 2018).

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