“Il futuro della creazione in Dio. Escatologia” di Anton Ziegenaus

Il futuro della creazione in Dio. Escatologia, Anton ZiegenausIl futuro della creazione in Dio. Escatologia
di Anton Ziegenaus
Lateran University Press

«L’escatologia non è solo uno dei tanti ambiti tematici della teologia. Le singole verità di fede non si trovano isolate l’una accanto all’altra, ma sono intrecciate fra di loro. Questa constatazione, se ha valore in generale, ha valore in misura particolare con riferimento a un trattato che si occupa del futuro dell’uomo, e non di un evento futuro in questa vita, ma del futuro assoluto. In quanto essere il cui pensiero è orientato verso la ricerca, l’uomo non può trascurare la domanda circa il senso dell’esistenza. L’interrogativo esistenziale, però, in quanto risposta totale, abbraccia tutte le singole domande e in ultima analisi mira ad una valutazione definitiva. Sia l’interrogativo esistenziale, sia l’opera redentrice di Dio, che mira alla salvezza completa dell’uomo, sottolineano la posizione centrale dell’escatologia nell’ambito della teologia tutta. Di questo orientamento escatologico, si prende consapevolezza nella collocazione dei singoli momenti della professione di fede.

Ogni singolo ambito tematico della teologia presenta pertanto una rilevanza escatologica: la dottrina della creazione e l’antropologia mirano alla seconda, alla nuova creazione. La morte di Gesù e la sua risurrezione sono fondamento dell’attesa della vita futura. I sacramenti, nel loro carattere di segni, rinviano alla realtà futura: nell’eucarestia viene anticipato il banchetto escatologico, nel sacramento della penitenza nel tempo della grazia viene anticipato il giudizio finale e, nell’unzione degli infermi, viene anticipata la guarigione definitiva da parte del Redentore alla fine dei tempi. A quel punto, la Chiesa è arrivata alla fine del suo pellegrinaggio. Così, tutti i trattati teologici sono orientati in senso escatologico.

Non solo nella teologia, ma anche nella vita del singolo, spetta una grande importanza alle questioni escatologiche. La morte, come la nascita, rientra fra gli eventi fondamentali della vita. Essa può esercitare sull’esistenza una funzione stimolante, oppure può disilludere relativamente agli idoli terreni, come il possesso e il piacere, e può scuotere l’uomo affinché non si sottometta all’ingranaggio della quotidianità. Angoscia e speranza di fronte alla morte rientrano fra le situazioni fondamentali dell’esistenza. C’è poi la questione del contenuto interiore di ogni vita: in un bilancio conclusivo, quanto può resistere il singolo con le sue colpe e le sue omissioni, cioè con le possibilità non realizzate? Nel fenomeno della tomba, diventa chiara la condizione di fondo dell’uomo come essere destinato a morire. Quanto più l’archeologia risale nella storia, tanto più si perdono le tracce dell’opera dell’uomo. Della più remota antichità rimangono quasi soltanto monumenti funerari o tumuli con arredi funebri. Essi ci parlano di dolore, di amore e di speranza.

Di fronte al ruolo centrale che le questioni escatologiche hanno nella vita del singolo, si prova meraviglia nel constatare spesso indifferenza o disattenzione: la morte diventa un tabù, la condizione di mortalità viene rimossa, la speranza circa l’aldilà viene interpretata come un’attesa immanente e la serietà della decisione viene annebbiata da un discutibile ottimismo circa la salvezza. Secondo Blaise Pascal1, le domande sulla morte e sull’immortalità riguardano così tanto l’uomo sul piano esistenziale, che chi rimane indifferente di fronte ad esse, ha sicuramente perduto ogni sensibilità relativamente alla condizione del proprio essere. Secondo lui, una tale ottusità è allo stesso tempo sorprendente e spaventosa, se si considera che l’uomo passa notte e giorno in pensieri e nell’angoscia di perdere il posto o ciò che possiede, ma non si inquieta al pensiero di perdere tutto a causa della morte. «È mostruoso che nello stesso cuore si trovino contemporaneamente questa sensibilità per le cose più insignificanti e questa inspiegabile insensibilità per le cose più elevate».

Per il settore della teologia di cui ci occuperemo vengono usate varie denominazioni. Per citare solo alcuni esempi, H. Klee parla di «Dio come colui che dà compimento». Allo stesso modo, H. Hurter parte dall’opera salvifica perfezionatrice di Dio, quando intitola il trattato: De Deo omnium rerum consummatore (= Riguardo a Dio come colui che dà compimento a tutte le cose). H. Schell parla più astrattamente: “Del compimento della salvezza”. B.F.L. Liebermann preferisce la perifrasi “De statu hominis post mortem”. L’orientamento terminologico è stato dettato da Sir 7,36: «In tutte le opere tue ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato». La Vulgata parla qui dei novissimi e per questo motivo l’ultimo capitolo nelle dogmatiche latine viene intitolato anche “de novissimis”. Questo plurale è stato tradotto con “cose ultime”. Tale formulazione è ripresa da F. Diekamp e M. Schmaus. Questa espressione, molto diffusa e introdotta attraverso antichi catechismi, è poco felice, sia perché non si tratta di “cose”, ma di azioni di Dio e di avvenimenti e condizioni nella vita dell’uomo, sia perché alle cose “ultime” spetta un posto non soltanto alla fine della storia individuale o universale; esse sono già diventate realtà in Gesù Cristo e perciò intessono già questa vita, questa storia e la Chiesa. Tuttavia, tale formula presenta il vantaggio che il parlare di parecchie “cose ultime” si contrappone ad una riduzione esistenziale della promessa cristiana all’evento puramente escatologico dell’autenticità (senza tempo e storia, senza mondo, senza una più precisa determinazione contenutistica) – per esempio nel senso di Bultmann, per il quale l’Oggi e solo esso ha questa impronta escatologica – perché la dottrina delle cose ultime abbraccia vari momenti, gradi e stadi finali (anche la possibilità del fallimento definitivo) del perfezionamento umano, oltre alla tematica del compimento della storia e del mondo.

Il già citato passo di Sir 7,36 nella Settanta è denominato: ta éschata. Il teologo luterano A. Calov († 1686) è il primo a usare proprio l’espressione eschatologia sacra. A partire dall’inizio del diciannovesimo secolo, il concetto si diffonde sempre di più. Il teologo protestante K.G. Bretschneider intende per novissimae, res novissimae s. ultimae o eschatologia (ancora in greco!) ciò che «Gesù farà ancora come Signore e giudice degli uomini, quando questo stato di cose avrà raggiunto il suo scopo finale secondo il piano di Dio e verrà trasformato per altri scopi». Bretschneider nomina quattro “cose ultime”: morte, risurrezione, giudizio e fine del mondo. F. Oberthür e E. Knüpfel usarono questa denominazione nel mondo cattolico, nel quale si affermò rapidamente.

Mentre qui l’escatologia abbracciava gli avvenimenti e le condizioni che hanno inizio con la morte, J. Weiß e A. Schweitzer sottolinearono il carattere escatologico di tutto il messaggio di Gesù. La quintessenza che l’epoca moderna deve ricavarne secondo A. Schweitzer consiste nel fatto che essa «nel concreto delle sue idee pensi in termini etico-escatologici e che nella sua concezione del mondo presenti gli equivalenti di quel volere e di quello sperare che sono in primo piano in lui (= Gesù), cioè sia dominata da pensieri corrispondenti a quelli che si ritrovano nel concetto di Gesù riguardo al Regno di Dio». Secondo Schweitzer, si tratta di realizzare l’«idea del perfezionamento morale del mondo», che è «connessa con la volontà morale». Attraverso questa sottolineatura del carattere escatologico di tutto l’operato di Gesù e di tutta l’esistenza cristiana, si mette in evidenza qualcosa di vero, però così il concetto di “escatologia” viene ampliato, dal punto di vista del contenuto, fino a diventare irriconoscibile.

Secondo l’interpretazione esistenziale di P. Tillich, il termine escatologico sta ad indicare “la presenza permanente della fine” ed è «espressione, sia pure in una determinata modalità temporale, del fatto che noi in ogni momento ci troviamo al cospetto dell’eterno». Nell'”eterno Oggi” si incontrano passato e futuro. «L’eterno non è uno stato futuro delle cose». Il fine della storia è innalzare ciò che è nel tempo e farlo entrare nell’eternità, dove questo innalzare significa che nella fine e nel fine sempre presenti della storia, ne viene preservato il contenuto positivo e viene escluso ciò che è negativo. Il giudizio universale di conseguenza significa lo svelarsi di ciò che è negativo come negativo, come nulla, e la sua separazione dal positivo nell’Oggi divenuto essenziale. Inferno, Purgatorio e Paradiso sono simboli dell'”essentificazione”, che, partendo dalla disperazione, arriva fino al raggiungimento della pienezza, passando attraverso il livello basso della pienezza stessa.

Sicuramente, l’escatologia non può essere considerata soltanto come dottrina propositiva sulle – possibilmente molto lontane – ultime cose. In questo senso, hanno la loro giustificazione l’interpretazione esistenziale di Bultmann o di Tillich, con la sottolineatura dell’essenzialità o del contenuto del momento, come pure l’interpretazione etica dell’escatologia data da A. Schweitzer. Se, pur seguendo la visione tradizionale, il giudizio di Dio che decide riguardo alla salvezza eterna o alla dannazione eterna si riferisce alle azioni nella storia, in questa deve necessariamente trovarsi anche qualcosa che abbia rilevanza in rapporto all’eternità. Però, contro l’integrazione piena, nella storia, della determinazione eterna dei fini, va sottolineato che nella storia il positivo e il negativo possono essere sempre sconfessati e che perciò non si può raggiungere niente di definitivo; sulla via esistenziale, non è possibile dare risposta alle domande che riguardano il senso delle cose o la loro inutilità, il compimento permanente al cospetto della morte oppure il futuro di tutto il cosmo.

Questa interpretazione esistenziale deriva fra l’altro dalla negazione di un Dio che operi sul piano personale e perciò anche dalla negazione dei fatti salvifici come incarnazione, miracoli, risurrezione e nuova creazione. Qui Gesù Cristo, che è l’escatologia anticipata, non può più essere concepito come pre-evento escatologico; perciò non possono essere spiegati teologicamente come escatologici né la prima e seconda parusia, né il tempo intermedio. Tutt’al più rimane ancora il richiamo esistenziale operato dal Verbo.

L’escatologia cristiana non è una futurologia in termini di filosofia della storia, ma nella fede in Gesù Cristo quale pre-evento escatologico, cioè come Parola definitiva e azione escatologica di Dio, desume il futuro definitivo dell’uomo e del cosmo e cerca di spiegare l’esistenza umana tra il “Già” della venuta di Gesù Cristo e il “Non-Ancora” della sua seconda venuta.»

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