
Quali motivazioni si celano dietro quello che Giovanni Ansaldo definì “il suicidio del Ventennio”?
Sotto la patina dell’umorismo, si celava un carattere malinconico. Ma il motivo del suicidio di Formiggini non risiede in questo tratto del suo carattere. Angelo Fortunato decise e pianificò fin nei dettagli la propria morte, il proprio “darsi la morte”, come atto politico di protesta estrema contro le leggi razziali. Fu il primo suicida contro i provvedimenti che dimostravano e realizzavano il contagio nazista di Mussolini, che Formíggini definì “hitlerizia”. L’editore si uccise e lasciò scritto di farsi cremare, e queste due scelte lo misero contro la Legge di Mosè, al punto che la comunità ebraica della sua città, Modena, si rifiutò in seguito di ricordarne il sacrificio con una targa nella Sinagoga della città. Formíggini era ebreo, anzi discendeva da una delle più illustri famiglie ebraiche modenesi, ricchi gioiellieri e poi banchieri degli Estensi che annoverarono anche figure storiche di rilievo come Moisé Formiggini, deputato della Repubblica Cispadana, bonapartista e promotore della futura Accademia Militare di Modena, delegato alla compilazione del Codice di commercio napoleonico e membro del Gran Sinedrio di Parigi del 1807. Ma Angelo Fortunato fu un ebreo sui generis, fautore dell’assimilazionismo, che peraltro era la corrente prevalente all’epoca tra le comunità dell’Europa occidentale. Sposato a una non ebrea, Emilia Santamaria – altra figura di primissimo piano della cultura italiana di allora, pioniera della pedagogia insieme alla Montessori e alle sorelle Agazzi – Formiggini lasciò, gettandosi dalla Torre della Ghirlandina di Modena il 29 novembre 1938, una Lettera agli Ebrei in cui suggeriva perfino di festeggiare la domenica e non il sabato, e dismettere l’abitudine di chiamare i figli con nomi strettamente “ebraici”. La sua appartenenza alla cultura e famiglia ebraica è però evidente nel suo amore per il Libro, nella sua vena umorista, e nell’ossessione della conservazione della memoria nazionale e familiare. Negli ultimi mesi volle aggiungere al proprio cognome, firmandosi nelle lettere, quello materno, Nacmani, inconfondibilmente ebraico. Purtroppo, il suicidio non produsse la rivolta auspicata, perché il suo corpo fu immediatamente rimosso, i funerali vietati di giorno così come i necrologi sui giornali. E solo alcuni fogli stranieri piansero la sua morte.
Come si sviluppò la parabola editoriale di Formíggini?
Negli ultimi mesi lo stesso Formíggini scriveva sotto il proprio nome, nelle buste di cancelleria, “liquidazione”, e si qualificava firmando come “Il Fuoruscito” (da cui il titolo del mio libro). Con lui si estinse anche la casa editrice, che già era in declino, anche perché non allineata al regime, ed era diventata società anonima, poi dovette essere ceduta, dopo che negli ultimi anni erano cresciute le difficoltà economiche e si era via via assottigliato il patrimonio familiare col quale Formíggini aveva potuto coprire i buchi e finanziare le sue più costose imprese editoriali (l’ultima, un libro raffinatissimo sulla sua città, “Modena d’una volta”). Alienò la Biblioteca Circolante senza ricavarci nulla, e lasciò alla Biblioteca Estense lo stravagante e ricchissimo museo denominato “La casa del ridere”. Presto sarebbe stata rasa al suolo anche la sua splendida casa sul Campidoglio. Lasciò scritti e lettere che davano corpo alla sua protesta suicida e la moglie, Emilia, riuscì alla fine a raccoglierli in un libro che resta uno dei più terribili atti d’accusa contro l’antisemitismo fascista, pubblicato dopo la guerra: “Parole in libertà”.
In che modo le leggi razziali colpirono lui e gli ebrei italiani?
Il primo vero passo verso la persecuzione fu il censimento razzista del 22 agosto 1938, anche se l’antisemitismo era stato lungamento coltivato e preparato in una serie di iniziative editoriali e pseudo-culturali di ambienti per lo più legati al cattolicesimo, ma senza troppo seguito. Dal censimento risultò che gli israeliti italiani sfioravano i 49mila. Ancora nel 1933, nella famosa intervista al giornalista ebreo tedesco Emil Ludwig, Mussolini aveva escluso che si potesse “provare biologicamente che una razza sia più o meno pura… L’orgoglio nazionale non ha affatto bisogno dei deliri di razza”. Cinque anni dopo, tutto era cambiato. La priorità ormai era quella di allinearsi a Berlino. Il Duce cominciò a teorizzare che nella vituperata attitudine “borghese” fosse principalmente all’opera la spinta dissolvitrice della “razza spirituale” giudeo-cristiana. Ai primi di maggio del 1938 scese in Italia una delegazione dell’Ufficio razza nazista, per coordinare la politica antisemita. Il 5 agosto apparve il manifesto degli “scienziati” fascisti sulla razza. Ai primi di ottobre, ecco le deliberazioni del Gran Consiglio del Fascismo in cui si dichiararono “l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale”. E partirono i primi provvedimenti concreti. Divieto d’iscrizione al Partito fascista e decadenza dal seggio in Parlamento per deputati e senatori ebrei, di possedere o essere dirigenti di aziende di qualsiasi natura con 100 o più dipendenti o essere proprietari di oltre 50 ettari di terreno, di prestare servizio militare in pace e in guerra, poi l’allontanamento dagli impieghi pubblici, e dei bambini ebrei dalle scuole, degli studenti e professori ebrei da licei e Università. Infine, divieto dei matrimoni misti, perdita della patria potestà sui figli non ebrei (poteva essere il caso di Formíggini, che con Emilia aveva adottato un bimbo, Ferdinando Cecilia) e divieto di impiegare lavoratori domestici non ebrei. Furono allontanati 200 professori di ogni ordine e grado, 400 funzionari e impiegati statali, 500 dipendenti privati, 150 militari, e vennero radiati dagli ordini 2500 liberi professionisti. Più 5600 studenti, 200 dei quali universitari. Angelo Fortunato fu il primo e il più famoso suicida, ma furono almeno una trentina gli altri ebrei suicidi. Il tenente colonnello Giorgio Morpurgo si trovava in Spagna, decise di partecipare a un’ultima azione uscendo allo scoperto prima dell’ordine di attacco, si diresse verso il nemico cantando “Giovinezza”, fu colpito più volte prima di cadere. Con lo stesso spirito, Formíggini si gettò dalla Ghirlandina il 29 novembre urlando “Italia! Italia! Italia!”. Si uccise per protesta, prima ancora che da ebreo, da patriota e da italiano.