
Esistono specificità linguistiche del discorso politico?
Dal punto di vista dell’analisi linguistica non si può dire che esistano delle caratteristiche formali che siano esclusive del linguaggio politico rispetto ad altri linguaggi settoriali. I linguisti usano gli stessi strumenti per analizzare sia il linguaggio politico che la lingua comune. Si può dire invece che esistono diversi stili comunicativi, sempre più influenzati dalla mediatizzazione della parola pubblica. Il cosiddetto “politichese” (chiamato in francese “langue de bois”) è stato sostituito dalle battute “virali” provocatorie o ingiuriose, riprese ad nauseam sui canali televisivi, i social media ecc. Il discorso politico è certo un discorso enunciato da donne e uomini politici nell’esercizio delle loro funzioni ma, come dice De Mauro, la pòlis e la parola sono intrinsecamente legati. Ogni parola enunciata nello spazio pubblico in riferimento alla “cosa pubblica” può e deve essere considerata discorso politico.
Quali sono le strategie discorsive e persuasive sfruttate dal Front National?
Gli osservatori e opinionisti sono soliti attribuire il crescente assenso popolare del partito di Marine Le Pen al cosiddetto processo di “dédiabolisation”. In realtà questa strategia di legittimazione del partito risale alla nascita del FN nel 1972. Si traduce essenzialmente in un cambiamento di paradigma linguistico, messo in atto per contrastare la retorica progressista e marxista degli anni 70. Ad esempio, la sostituzione dell’espressione “il senso della Storia” (“le sens de l’Histoire”) con “i casi della Storia” (“les aléas de l’Histoire”) non è di poco conto. Per il partito di estrema destra, infatti, la ricostruzione critica degli eventi storici, tramite l’analisi delle cause e conseguenze, è inutile. La responsabilità dell’uomo è pressoché inesistente rispetto alla casualità incontrollabile dei fatti. Non ci dobbiamo stupire allora se alcune parole così cariche di senso storico come “Holocauste”, “Occupation”, “Collaboration” vengono desemantizzate dal discorso frontista, ad esempio quando le si usa abusivamente con accezione metaforica (dunque senza la maiuscola) per riferirsi a semplici fatti di attualità. Paradossalmente però, volendo sedurre gli elettori tradizionalmente a lei opposti, ha in qualche modo “appaltato” il lessico della sinistra radicale, parlando ad esempio, sorprendentemente, a proposito degli immigrati, di “esercito di riserva del capitale” (“l’armée de réserve du Capital”)!
Se dobbiamo caratterizzare la strategia retorica di Marine Le Pen, possiamo dire che i suoi sviluppi argomentativi sono ambigui, spesso costruiti sull’insinuazione e segnati da inflessioni verbalmente eccessive per stigmatizzare la parte antagonista o per designare un capro espiatorio (i migranti, “il sistema”, la “casta”). Da qui il sistematico discredito del dire dell’Altro tramite aggettivi quali “presunto”, “cosiddetto”, ecc., che opacizzano i referenti e di conseguenza il filo del ragionamento. Questi sono alcuni degli elementi linguistici che caratterizzano quello che ho chiamato il “disordine del discorso”.
Quali differenze è possibile ravvisare tra la comunicazione dell’anziano patriarca Jean-Marie Le Pen e la figlia Marine?
La difficoltà per un linguista che vuole fare un’analisi del discorso risiede nel fatto che deve rilevare gli impliciti. Jean-Marie Le Pen ha assunto, rispetto alla figlia, alla quale ha conferito l’investitura del Front National, il ruolo di Commendatore. Il padre non esita a ribadire che le camere a gas in cui morirono i 6 milioni di ebrei sono un mero “détail de l’Histoire”, aggiungendo che, “personalmente, lui, non ne ha mai visto”. “Marine” dimostra un certo imbarazzo davanti ai giornalisti che le chiedono di reagire alle “gaffes” del padre. La figlia minore di Jean-Marie tenta di giustificarlo dicendo che è un uomo impulsivo, e che, così facendo, vuole intralciare per gelosia la sua inarrestabile ascesa politica. Non risponde mai però sul contenuto delle dichiarazioni o cosiddette battute del fondatore del partito. L’abilità di Marine Le Pen consiste nel fatto che la sua strategia di comunicazione è strettamente controllata dagli spin doctor. In quasi tutti i suoi interventi pubblici, ad esempio, si rileverà l’espressione “submersion migratoire” (“sommersione migratoria”) senza mai che vengano pronunciate le parole “straniero/i” o “immigrato/i”. Se nella stessa frase o lo stesso paragrafo dai toni denigratori, rileviamo in co-occorrenza “communautarisme” e “djihadiste”, oppure “terrorisme” e “immigration massive et incontrôlée”, è chiaro che la conclusione implicita che si evince è “i musulmani – quelli presenti sul territorio francese e i rifugiati che aspettano di essere accolti in Europa – sono dei terroristi djihadisti”. La principale differenza tra il padre e la figlia consiste nel fatto che la figlia insinua e il padre invece espone senza sotterfugi il suo credo. Non si potrà certo accusare Marine Le Pen di essere dichiaratamente razzista o antisemita. Ma perché allora, ci si potrebbe chiedere, sul giornale online del partito (NationsPresse.info ormai sparito dal web), le personalità politiche o sportive di colore erano sistematicamente rappresentate con il riso sardonico del diavolo? Cosa intende esattamente Marine Le Pen quando parla della casta politica e finanziaria “nomade”, “senza radici” (“hors-sol”) e “apolide”? Come fa notare qualcuno, queste ultime parole riecheggiano la retorica petainista degli anni 30, che riemerge pericolosamente sotto dichiarazioni apparentemente innocue.
Da dove originano i miti e i simboli del nuovo Front National?
I discorsi di Marine Le Pen imbastiscono una narrazione che si integra perfettamente nel cosiddetto “romanzo nazionale”. Vuole essere l’incarnazione della Francia e della Nazione. La rievocazione dei miti permette di saldare l’appartenenza a una identità nazionale. Ad esempio la figura di Giovanna d’Arco rappresenta la santa laica che liberò i francesi dagli invasori, che sacrificò la propria vita per ricostruire il reame. Tradizionalmente celebrato a maggio dai cattolici e dal partito di estrema destra, questo personaggio leggendario, archetipo dell’eroina patriota, appartiene alla memoria collettiva dei francesi, che dovrebbero riconoscere in lei e in Marine Le Pen una salvatrice.
Inoltre, la leader frontista sfrutta in modo intelligente e perspicace il significante del suo nome di battesimo: “Marine” che rimanda al colore detto “bleu marine”, il colore della marina militare e anche il colore della nazione francese. Appare spesso vestita in “bleu marine”, usa metafore marinare, mette in avanti le sue origini bretoni. Facendosi chiamare con il solo nome “Marine”, rimuove il cognome ingombrante del padre “Le Pen” e, allo stesso tempo, ostenta una sua femminilità. Così l’ultima campagna delle presidenziali era sorretta da un apparato iconografico significativo: il logo tradizionale della fiamma tricolore è stato cancellato come è stato cancellato il cognome Le Pen. Con lo slogan “Marine Présidente” e una rosa “bleu marine” (rosa presa in prestito al partito socialista), la persona della candidata si presenta direttamente agli elettori, dando una svolta decisamente populista alla propaganda del partito, “né di destra né di sinistra”.
Quali delle strategie comunicative del Front National sono riconoscibili nel linguaggio politico di partiti e movimenti politici nostrani?
Sappiamo che il partito di Matteo Salvini e quello di Marine Le Pen fanno parte dello stesso gruppo parlamentare europeo: “L’Europa delle Nazioni e della Libertà”. I contatti fra i due partiti sono abbastanza stretti e frequenti. È evidente come il discorso di Salvini sia cambiato in questi ultimi due o tre anni, forse perché ha voluto adottare la strategia vincente dei cugini transalpini. Per potere allargare il proprio elettorato ha dovuto creare un nemico comune a tutti gli italiani, designando lo straniero come responsabile del malessere sociale, economico e culturale del paese. Il nome del suo movimento “Noi con Salvini”, ci dimostra come il leader leghista si sia orientato verso una retorica di tipo populista. Ma, ci si potrebbe chiedere, chi è questo “noi”? “Noi, italiani”, “noi lombardi”, “noi siciliani”, ecc.? “Noi” si può definire solo tramite la stigmatizzazione e il rigetto di una parte antagonista, designata attraverso il pronome “loro”. Salvini oppone nei suoi discorsi “la gente normale” (“noi”) agli Altri, la casta, gli immigrati, probabilmente anche in riferimento all’espressione autodenigratoria usata comunemente dagli italiani: “questo non è un paese normale”. La creazione di un’identità collettiva attraverso questo “noi”, per un paese come l’Italia, non è affatto agevole. Sembra difficile riattivare una memoria collettiva che coincida, come in Francia, con un patrimonio storico-culturale, materiale e immateriale, comune. Quando Marine Le Pen si sforza di rievocare la Grandeur e la France éternelle, Salvini invoca i simboli cattolici (rosario e bibbia), nei quali tutti gli italiani potrebbero riconoscersi.
Sempre più spesso sentiamo adottare dai politici, anche nostrani, il termine «patrioti»: qual è il valore assiologico di questo fenomeno?
Il termine “patriote” è nato come parola contestualizzata in un contro-discorso, da opporre al vocabolo dispregiativo, “nationaliste”, con il quale si qualificava fino a una quindicina di anni fa il partito di estrema destra. Il vocabolo “patriote” era caduto in disuso nei discorsi politici sin dal periodo della resistenza. La sua riabilitazione sembra essere stata una mossa vincente da parte di Marine Le Pen poiché questo termine ha il vantaggio di essere polisemantico, avendo designato nel corso della Storia movimenti e gruppi di schieramenti opposti. Durante la seconda guerra mondiale, i patrioti resistenti si scontravano con i collaborazionisti del governo di Vichy quando gli stessi petainisti si dichiaravano, a loro volta, patrioti, contro la fronda “giudeo-comunista”. Qualche studioso fa giustamente notare che l’ideologia del Front National si avvicina a quella del movimento boulangista della III Repubblica, ambedue caratterizzate da una forma di nazionalismo repubblicano, da un richiamo all’ordine e all’autorità e dalla volontà di spazzare via la casta politica corrotta al potere. Il patriota di Marine Le Pen è la quintessenza dell’essere francese (idealmente il francese di “ceppo francese”, ossia “de souche”), disposto a difendere la patria anche con le armi e con il sangue, come recita la Marsigliese: “Allons enfants de la Patrie… Aux armes citoyens”.
Naturalmente non si può fare a meno di associare il termine francese a quello italiano “i patrioti” usato da Giorgia Meloni. I suoi accenti passionali che accompagnano il tentativo di circoscrivere il senso che intende dare alla parola sono molto simili a quelli che cerca di ravvivare Marine Le Pen nei suoi discorsi intrisi di pathos. Conformemente all’etimologia, la nozione di patria, ossia “la terra dei padri”, richiama comunque l’attaccamento viscerale alla terra degli avi, il dovere di trasmettere la loro memoria e i loro valori etici. Da qui la difesa dei due leader dello ius sanguinis e il rigetto dei principi di una democrazia moderna che oppone alla difesa della patria, entità immutata nel tempo, l’idea di nazione in perpetua costruzione e ridefinizione. Aggiungiamo che, dal 2018, Les Patriotes è il nome che Florian Philippot, artefice della strategia di comunicazione di Marine Le Pen alle presidenziali, ha dato alla sua formazione politica dissidente, e questo costringerà Marine Le Pen a rimodellare il paradigma di senso del suo partito.