
Il secondo obiettivo del finanziamento pubblico è quello di prevenire la corruzione in politica limitando la capacità dei grandi interessi societari di assoggettare il processo politico al proprio controllo. Questo in particolare è stato l’obiettivo che la “legge Piccoli” – la legge che introdusse il finanziamento pubblico ai partiti politici nel 1974 – volle conseguire. La legge fu introdotta in seguito all’emergere dello ‘scandalo dei petroli’ nel dicembre 1973: era accaduto che i petrolieri avevano finanziato i partiti di governo il quale, a sua volta, aveva concesso facilitazioni e aumenti dei prezzi. Fulvio Lorefice racconta nel libro attraverso una disamina dei dibattiti parlamentari e dei principali quotidiani dell’epoca che il finanziamento pubblico fu introdotto, discusso e presentato come primo passo verso la “moralizzazione della vita politica”. Con l’introduzione di un contributo statale i partiti politici sarebbero stati, si diceva, meno permeabili a gruppi di pressione privati e si sarebbe, soprattutto, scoraggiato la ricerca di finanziamenti illeciti. Sappiamo bene che le cose sono andate molto diversamente.
Come si è giunti, dopo quarant’anni, alla sua abrogazione, nel 2014?
Paradossalmente, si è giunti alla abrogazione del finanziamento pubblico diretto (è importante sottolineare che l’abrogazione riguarda esclusivamente le forme di finanziamento diretto ai partiti politici) apportando le stesse motivazioni con le quali il finanziamento pubblico era stato introdotto: moralizzare la vita politica.
Come continuare a giustificare il finanziamento pubblico ai partiti politici quando i livelli di corruzione in politica non sembravano essere affatto diminuiti? C’era evidentemente qualcosa che non andava nella disciplina sul finanziamento pubblico e nella normativa sul finanziamento alla politica più in generale. Nel libro sono evidenziate le numerose lacune e criticità di tali norme, sia a livello locale (come nel contributo di Marco Almagisti e Alberto Stefanelli) sia a livello nazionale (come nei contributi di Pizzimenti e della sottoscritta). L’opacità normativa riguarda inoltre anche le fondazioni politiche, come sottolinea il contributo di Mattia Diletti, le cui attività non sono direttamente collegate al finanziamento di un partito come se esse non siano strumento di azione politica e come se tramite le fondazioni non passasse una parte del sostegno economico dei privati alla politica. A tutto questo va aggiunta la mancanza di meccanismi di controllo efficaci e l’assenza di un sistema sanzionatorio adeguato. La normativa particolarmente lacunosa è pertanto un primo aspetto da considerare.
A questo vanno aggiunte le manovre bulimiche del legislatore italiano volte ad accrescere in maniera esponenziale l’ammontare dei fondi a disposizione dei partiti politici a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Questo è un elemento che è stato spesso sottolineato non solo da noi studiosi ma anche da organismi internazionali come il Gruppo di Stati contro la Corruzione e dalla Corte dei Conti. Va ricordato a tal proposito l’intervento particolarmente duro del Procuratore Regionale della Corte dei Conti per il Lazio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 che fece esplicito riferimento a manovre “apertamente elusive e manipolative” delle disposizioni sul finanziamento alla politica e di “artifici semantici” utilizzati per ripristinare i privilegi abrogati con il referendum del 1993.
A fronte di tutto questo, complice naturalmente lo straordinario successo elettorale del Movimento 5 stelle che ha calamitato lo scontento nei confronti della classe politica proprio sollevando le tematiche dell’anticorruzione e dei privilegi della ‘casta’, il timore di venire definitivamente travolti dall’ondata di sfiducia dei cittadini ha spinto i partiti all’abrogazione del finanziamento pubblico diretto e a mutare quindi il sistema del finanziamento alla politica in maniera radicale.
Ci tengo a sottolineare che attuando questa scelta, l’Italia è oggi tra i pochi paesi europei, sola con la Svizzera, in cui non è prevista l’erogazione di contributi pubblici diretti per finanziare le campagne elettorali o le attività ordinarie dei partiti politici.
Cosa ha significato, per la politica nostrana, il finanziamento pubblico ai partiti?
Alla domanda potrei rispondere in molti modi. Bisogna intendersi, cosa intendiamo per politica? Per i politici il finanziamento pubblico è stato senza meno un canale privilegiato di accesso a ingenti risorse economiche. Per i cittadini, uno spreco di denaro pubblico. Secondo molti, il finanziamento pubblico avrebbe anche avuto l’effetto collaterale di inibire la ricerca autonoma di fondi da parte dei partiti politici. Consentendo ai partiti di rendersi economicamente autonomi, avrebbe disincentivato i loro sforzi di cercare di mantenere legami stabili e duraturi con i cittadini. Perché d’altra parte farsi carico della messa in atto di strategie di autofinanziamento se i finanziamenti arrivano dallo Stato, ingenti e a cadenza regolare? D’altra parte, i finanziamenti statali avrebbero deresponsabilizzato anche i cittadini, che proprio visti gli ingenti finanziamenti pubblici non si sentirebbero investiti dalla responsabilità di offrire un contributo anche economico alle attività dei partiti.
Ma il finanziamento ai partiti politici è stato anche altro. È stato il riflesso di una particolare concezione dei partiti politici. Come spiega il contributo di Antonio Floridia nel libro, una riflessione sul finanziamento alla politica non può essere separata da una riflessione sul ruolo dei partiti politici nelle nostre democrazie. Se ai partiti è riconosciuto il ruolo di attori fondamentali e necessari ad articolare e strutturare il dibattito pubblico è anche necessario che siano sostenuti da risorse pubbliche. Così è stato nei primi degli anni Settanta. Oggi sembra una concezione andata persa.
Quale bilancio si può trarre dell’esperienza del finanziamento pubblico ai partiti?
Il bilancio è senza meno negativo. Possiamo facilmente constatare come la disciplina sul finanziamento alla politica non abbia raggiunto gli obiettivi auspicati. Si pensi in primo luogo al contrasto della corruzione politica. Lungi dal contrastare forme di corruzione, il finanziamento pubblico ha costituito un secondo (quantitativamente assai rilevante) canale di entrate per i partiti politici, senza che questi abbiano rinunciato ad altri tipi di risorse, ivi comprese quelle irregolari. Va detto che questo non è un problema solo italiano. In tutto il continente europeo, i problemi relativi alla corruzione sono rimasti irrisolti malgrado la normativa sul finanziamento alla politica e malgrado le ingenti risorse statali versate nelle casse dei partiti politici.
L’esperienza del finanziamento pubblico ai partiti avrebbe dovuto insegnare molte cose al legislatore. Per prima cosa, non si può pensare al finanziamento pubblico come una disciplina a sé stante. La disciplina del finanziamento pubblico va inserita all’interno di una normativa più ampia e complessa, quella al finanziamento alla politica, all’interno della quale vanno adeguatamente regolamentate le fonti di finanziamento in entrata (sia pubbliche che private), le spese effettuate da partiti politici e candidati, i meccanismi di rendicontazione e trasparenza e infine un sistema efficace di controllo e sanzioni. In secondo luogo, la stessa normativa sul finanziamento alla politica non può essere pensata come una isola a sé. Anche essa è parte di una cultura politica, fatta di norme, regole e prassi e abitata da attori che interagiscono al suo interno. Sarebbe auspicabile che gli abitanti della politica traessero insegnamento dai propri errori … e invece troppo spesso, che sia per garantire introiti o per ricorrere pulsioni demagogiche, hanno perso occasioni importanti di dare luogo a una riforma del sistema di finanziamento alla politica efficace e di lungo periodo.
Quali prospettive per la gestione dei “costi della politica”?
È una domanda importante che anche il libro si pone. Sicuramente è una mistificazione sostenere, come hanno fatto i proponenti della riforma, che grazie all’abolizione del finanziamento pubblico i cittadini torneranno ad avere un ruolo centrale nel finanziamento ai partiti politici. Il finanziamento privato non comprende solamente iscrizioni e donazioni da parte di singoli cittadini, considerate a buona ragione espressione positiva di un loro coinvolgimento attivo nell’attività politica e indice di legittimità politica dei partiti. Questa ampia categoria di entrate include anche donazioni da parte di grandi imprese e gruppi di interesse, di portata economica significatamene superiore rispetto alle donazioni dei cittadini e con implicazioni significatamene differenti per il processo democratico. Possiamo immaginare un ritorno alla politica sovvenzionata dal basso? Tutti gli elementi a nostra disposizione indicano in senso contrario. Nella letteratura politologica si parla dei militanti come «reliquia storica», mentre il numero degli iscritti ai partiti è registrato in progressivo e sostanziale calo in tutta l’Europa. Anche immaginando uno scenario di revival di militanti e iscritti pronti a sostenere anche economicamente i partiti politici, è improbabile che tali forme di micro-finanziamento possano riuscire a supplire alle necessità che i costi della politica e delle campagne elettorali di oggi impongono. È molto più probabile, invece, che gli attori della politica si rivolgeranno a fonti di finanziamento più generose e che a fare la parte del leone saranno le imprese e i grandi interessi economici, che i partiti saranno inevitabilmente orientati a premiare per mezzo di politiche a loro vantaggio.
Si noti non da ultimo come l’abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti politici – e torno così alla risposta alla prima domanda – ha anche importanti implicazioni sul piano dell’uguaglianza di accesso alle cariche pubbliche, accesso ora pienamente distorto a favore di chi è dotato di maggiori risorse economiche e si ripercuote quindi anche sul piano del funzionamento delle istituzioni democratiche. Insomma, le prospettive sono a mio avviso tutt’altro che rosee.