“Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione” di Monica Galfré

Prof.ssa Monica Galfré, Lei è autrice del libro Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione edito da Einaudi. Nella vicenda di Marco Donat-Cattin rivive la frattura generazionale che ha segnato il nostro Paese negli anni Settanta: in che modo essa chiamava in causa, oltre che la classe politica del Paese, anche l’istituto della famiglia?
Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione, Monica GalfréNel maggio 1980 scoppia lo scandalo che travolge la vita politica e privata di Carlo Donat-Cattin, uno dei politici più influenti della Repubblica, più volte ministro, in quel momento vicesegretario della Dc, il partito che da 35 anni si identifica o quasi con lo Stato. Si scopre che suo figlio Marco milita ai vertici di Prima linea, una delle principali organizzazioni terroristiche di sinistra attive negli anni di piombo. La notizia, che si combina a circostanze inquietanti degne di una spy story, fa da detonatore a uno dei più gravi scandali della storia repubblicana. Mentre si scopre che Marco è coinvolto nell’omicidio del magistrato Emilio Alessandrini, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga è accusato di favoreggiamento per aver passato al vicesegretario del suo partito informazioni riservatissime sulla situazione del figlio. Al contempo il dolore privato della famiglia Donat-Cattin e il percorso di Marco, comune a molti altri giovani, mettono sotto gli occhi di tutti lo strappo senza rimedio che si è consumato nel corso degli anni Settanta.

Al di là della crisi di credibilità politica che lo scandalo inevitabilmente produce, esso dà voce al conflitto generazionale in senso proprio, non solo figurato, perché colpisce una famiglia reale, non comune eppur rappresentativa della vita del paese. Non ha torto chi ricorda in quei giorni che l’identificazione tra Stato e Dc trasforma questa vicenda familiare in un affare politico. Marco è un giovane come tanti; almeno in parte la sua storia assomiglia a quella della generazione nata alla metà degli anni ’50, che incontra la politica negli anni della contestazione e crede di cambiare il mondo.

Quali sono le responsabilità che possono essere imputate alle famiglie di fronte alla scelta armata dei loro figli? È una domanda che dopo lo scandalo risuona ovunque e si carica di una drammaticità nuova. L’interrogativo incrocia una dimensione intima e allo stesso tempo pubblica. La famiglia rimanda agli affetti più privati di ciascun individuo, ma la famiglia è anche la prima cellula della società e prefigura le regole di convivenza espresse dalle istituzioni. Tanto più in un caso come quello dei Donat-Cattin, dove il padre è un importante uomo politico, esponente di un partito per il quale la famiglia ha un significato identitario forte.

In questo senso il dramma della famiglia Donat Cattin contribuisce a trasformare il terrorismo in un problema di tutti e fa in modo che il paese se ne riappropri. Già nell’Italia nichilista (Mondadori 1982), il libro scritto a caldo dal grande giornalista Corrado Stajano, la vicenda Donat-Cattin appare come l’epifania di un sistema di potere corrotto e intriso di familismo; ma allo stesso tempo non manca un ampio quadro di intuizioni e riflessioni sulla società del tempo. Nell’insieme, però, la portata della vicenda e la caratura dei protagonisti ha favorito le letture dietrologiche, volte a enfatizzare la cultura del sospetto e del mistero.

Eppure, al di là del rapporto conflittuale esistente tra Carlo e Marco Donat-Cattin, il problema si mostra subito più diffuso, riguarda famiglie di giornalisti, politici, professionisti, non esclusi i comunisti, a conferma di un fenomeno eversivo più esteso di quanto si fosse immaginato. Nelle sedute della Commissione parlamentare su via Fani e poi della Commissione parlamentare sul terrorismo e sulle stragi riemerge a più riprese il problema dei figli estremisti e coinvolti a vario titolo nel fenomeno eversivo, ma solo in termini di sicurezza della Stato. In realtà, allargando lo sguardo, il contrasto tra generazioni appare una resa dei conti assai più ampia, giocata tutta al maschile, tra padri e figli, che sancisce il crollo finale della società patriarcale, in un mondo in cui il potere è però ancora degli uomini. Un dramma che scorre parallelo a quello delle famiglie delle vittime. Il caso vuole che proprio in quei giorni, sulle stesse pagine dei giornali, accanto a Carlo Donat-Cattin, compaia Ulderico Tobagi, il padre del giornalista Walter Tobagi, ucciso il 28 maggio da una formazione armata di sinistra. In comune i due non hanno molto, se non la tragedia di un figlio con un destino diverso da quello sognato, volti diversi della stessa Italia, di una modernizzazione a marce forzate che sovraccarica i figli di speranze, li fa crescere amati, ricoperti di attenzioni, viziati, e che finisce col sovrapporre il riscatto sociale del boom, la contestazione e l’estremismo.

Il passaggio di testimone si alimenta per sua stessa natura di incomprensione e, anche quando è fisiologico, si risolve sempre in un parricidio simbolico. Ma nella scelta armata i figli drammatizzano la rottura insanabile che si è consumata a tutti i livelli, sul piano politico, culturale e della mentalità, a partire dal boom e poi dal ’68, che spezza il legame tra generazioni. Di fronte al terrorismo i padri si affacciano su un abisso, sul mistero della morte violenta, che inghiotte ogni ragione e scompagina ogni punto di riferimento, politico e umano. È un qualcosa che essi percepiscono come innaturale e che sembra spostare la partita sul terreno ultimo dei destini dell’umanità.

Quali vicende hanno segnato lo scandalo Donat-Cattin?
È il primo pentito del terrorismo, Patrizio Peci, ad accennare alla militanza in Prima linea del figlio di Carlo Donat Cattin. La notizia trapela anzitempo e nel giro di pochi giorni ne nasce un vero e proprio caso. Prima sono arrestati il giornalista del «Messaggero» Fabio Isman e il potente numero due del Sisde (il servizio segreto civile) Silvano Russomanno, accusati di aver illegalmente diffuso il verbale Peci. Poi, quando un altro pentito nonché amico di Marco, Roberto Sandalo, tira in mezzo il presidente del Consiglio Francesco Cossiga, i magistrati che si occupano del caso chiamano in causa il cosiddetto tribunale dei ministri, la Commissione per i procedimenti di accusa, e poi il Parlamento riunito. Per la prima volta un capo del governo è sottoposto a giudizio (e poi assolto) per decidere se demandare il caso all’Alta Corte.

In un paese fiaccato da dieci anni di terrorismo, il caso Donat-Cattin-Cossiga è il combustibile ideale per alimentare il calderone della politica, anche per via delle circostanze poco chiare in cui le notizie sono rese note. Immediatamente prende corpo il sospetto che lo scandalo sia stato rivelato ad arte per colpire, in un momento politico delicato, di passaggio, il partito di maggioranza nella persona del suo potente vicesegretario. In virtù del Preambolo firmato dallo stesso Donat-Cattin, la Dc ha da poco archiviato il compromesso storico con il Pci, rilanciando l’alleanza con il Psi. Sullo sfondo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e del boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca, il clima è quasi da guerra fredda e le elezioni amministrative, che si tengono nel giugno 1980, non contribuiscono a placare gli animi. «Cercavano i terroristi fra i nipoti di Carlo Marx, ne trovano uno tra i figli di Donat-Cattin», commenta caustico il comunista Giancarlo Pajetta.

Ma ben presto appare chiaro che lo scandalo non è stato costruito ad arte, anche se in molti sono interessati a sfruttarne gli effetti. La notizia che Marco Donat Cattin, figlio del vicesegretario della Dc, milita ai vertici di una formazione armata, trova conferma giorno dopo giorno; così come sempre più credibile appare l’ipotesi che la terza carica dello Stato sia imputabile di favoreggiamento. Nonostante la comprensione per l’angoscia di Donat-Cattin padre, si tratta di un vero e proprio shock. Del resto, anche si è già registrato il primo cambio di marcia, il paese è in quel momento al culmine dei cosiddetti anni di piombo.

Quali circostanze rendono ancora più inquietante la vicenda?
Solo ora sappiamo che il 1980 può essere considerato, grazie ai pentiti, l’inizio della fine del terrorismo. Tuttavia, in quei mesi, mentre la cosiddetta marcia dei 40.000 chiude il ciclo della conflittualità operaia aperto dall’autunno caldo, l’attacco eversivo è al suo apice. A cadenza giornaliera o quasi si susseguono gravissimi attentati di matrice diversa, dall’omicidio di Walter Tobagi a quello neofascista del giudice Mario Amato, dalla misteriosa strage di Ustica agli 85 morti della bomba alla stazione di Bologna. In questo clima di allarme il comportamento di Donat-Cattin e di Cossiga sembra saldare aspetti privati e risvolti politici in una vicenda che tocca un nervo scoperto della vita del paese e fa emergere pratiche del potere molto discutibili. Per la prima volta nella storia repubblicana, il capo del governo è messo sotto accusa dagli organi competenti, che discutono ampiamente non solo la posizione di Cossiga, ma anche quella di Donat-Cattin padre. Non meno temibile, per i due consumati uomini politici, è il grande processo mediatico al quale il paese li sottopone. Anche se dopo una breve eclissi torneranno entrambi a ricoprire ruoli di rilievo – nel 1985 Cossiga è eletto addirittura presidente della Repubblica – il caso Cossiga-Donat Cattin ha l’effetto di incrinare la credibilità delle istituzioni e di attenuare i confini tra terrorismo e Stato, di quello Stato che solo due anni prima, in occasione del caso Moro, aveva rifiutato qualsiasi trattativa con le Br. Nel 2007 lo stesso Cossiga, ormai pienamente identificatosi nel ruolo di «picconatore», ha ammesso le responsabilità che aveva fino ad allora negato.

Il coinvolgimento nel caso Donat-Cattin dei vertici del servizio segreto civile, il Sisde, e insieme del mondo dell’informazione, dilata gli scenari e ne rende indefiniti i contorni, alimentando illazioni, allusioni, ipotesi delle più diverse e fantasiose. Per Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione parlamentare sul terrorismo e sulle stragi dal 1996 al 2001, lo scandalo Donat-Cattin diventa addirittura la riprova dei rapporti torbidi, «indicibili», esistenti tra classe dirigente e terrorismo di sinistra. Su quella Dc, insiste Sergio Flamigni, grava la responsabilità delle vittime che si sarebbero potute risparmiare, se Marco non avesse goduto di «protezione, silenzi, condizionamenti di Polizia e Carabinieri» (S. Flamigni, I fantasmi del passato. La carriera politica di Francesco Cossiga, Kaos, Milano 2001, p. 180).

Ma sono immagini distorte, inquinate, che spostano l’attenzione sugli aspetti più torbidi e rischiano di nascondere alte verità. Quelle cioè di un dramma che fa toccare quanto sia diffuso il fenomeno eversivo, quanto sia radicato nella società, smentendo l’idea che le sue origini risiedano altrove e che si possa formulare una ipotesi univoca sulle sue matrici sociali e culturali.

A distanza di quarant’anni, in che modo il caso Donat-Cattin consente di fotografare, in un’unica istantanea, il dramma del terrorismo e l’Italia nel dramma del terrorismo?
Viste le caratteristiche del caso Donat-Cattin-Cossiga, non sorprende che la tentazione sia sempre stata quella di raccontarlo istruendo una sorta di processo virtuale, con il rischio però di non restituirne il senso più profondo. Per fargli dire tutto quello che oggi ha da dirci, ho raccontato questa storia dividendola in due parti. La prima, lasciando sullo sfondo le vicende di Marco e della sua famiglia, ricostruisce il caso Cossiga-Donat Cattin propriamente detto, così come monta nell’arena mediatica ed è poi affrontato a livello istituzionale. Al centro della seconda parte, che è il vero cuore del libro, c’è invece la storia di Marco Donat Cattin, politica e privata, dalla contestazione del ’68 all’approdo a Prima linea, fino all’arresto, al pentimento e alla tragica morte. L’idea è di far dialogare l’immagine pubblica del terrorismo, distorta dalle esigenze dello scontro politico, e il terrorismo come fenomeno reale, analizzato attraverso il percorso di un militante la cui storia è per certi versi paradigmatica, per altri poco rappresentativa del fenomeno nel suo complesso. La convinzione che mi ha guidato è che il fenomeno eversivo sia inscindibile dalla materia viva di cui si nutre; e che, almeno fino a un certo punto, esso si alimenti della stessa linfa vitale del movimento, di valori e di convinzioni che diventano tanto forti e totalizzanti da piegare su di essi la vita propria e altrui.

In questa doppia ottica il caso Donat-Cattin ci appare una storia tutta italiana, non tanto perché strizza l’occhio alle opacità e ai vizi della politica nostrana; ma perché si rivela un intreccio di realtà, fasi e dimensioni che si è più spesso abituati a contrapporre: storia della Repubblica e storia del terrorismo, pubblico e privato, sentimenti e ragione, visibile e invisibile, orrore e normalità, vita e morte. Lo scandalo si colloca nel momento in cui il mondo sorto dalle ceneri della seconda guerra mondiale, quello che i padri hanno consegnato ai figli, si dissolve lentamente portandosi via tutte le sue certezze. Marco appartiene a una generazione che, attraverso l’impegno politico e i sogni di un mondo migliore, incarna le grandi speranze e le grandi delusioni del ’900, che negli anni ’70 vivono il loro culmine.

In questo senso il caso Donat-Cattin è un dramma che mette al centro sentimenti e i grandi temi della vita, in primo luogo il dolore e la morte, subìti e inflitti, anche nella loro accezione di sentimento privati. I vissuti individuali diventano indispensabili per capire la lacerazione prodotta dagli anni di piombo, che strazia le singole persone prima che la società, e coinvolge le famiglie, di tutti, anche di chi ne è responsabile.

Ho cercato per questo di raccontare queste vicende senza separarle dal loro contesto e senza eludere i risvolti privati ed esistenziali. Non si è trattato di ricostruire delle biografie intime, che le fonti disponibili non avrebbero in nessun caso reso possibile, ma rileggere quelle vicende nella loro duplice dimensione, pubblica e privata, grazie all’incrocio di fonti diverse. Tra queste si sono rivelati decisivi gli atti dei processi a Prima linea e in particolare gli interrogatori di Marco e di molti altri imputati, per quanto essi siano il prodotto, nei contenuti e nei toni, della dialettica penale dell’emergenza, dello stato d’animo e della posizione processuale dell’imputato. Le deposizioni dei vari imputati sono, per loro stessa natura, il racconto di una guerra, per quanto sui generis, ma come le maglie di una rete lasciano filtrare anche la vita.

La cifra ultima della storia di Marco, che ho raccontato nella seconda parte del libro, è proprio il rapporto tra la vita e la morte, che si riflettono l’una nell’altra nello specchio del terrorismo. Responsabile di gravissimi omicidi, Marco rimane ucciso non appena scontata la sua pena, mentre soccorre una donna coinvolta in un incidente. Nella sua morte – che in parte lo riscatta – sembrano bruciare i folli sogni rivoluzionari di una generazione.

A distanza di quarant’anni, spenti da tempo i riflettori e i clamori, il caso Donat-Cattin ci appare una storia in grado di fotografare, in una unica istantanea, il dramma del terrorismo e l’Italia nel dramma del terrorismo. Oggi il caso Donat-Cattin acquisisce un rilievo autonomo come dramma individuale e collettivo. Mentre i misteri, i complotti, i sospetti spiegano ormai ben poco, se non la difficoltà a guardare dentro quel dramma. Resta in primo piano la vita reale dei protagonisti, principali, secondari e di sfondo. In poche parole, la vita del paese.

Monica Galfré (Firenze 1963) è docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Firenze. Si è occupata di scuola ed editoria, Sessantotto e terrorismo. Tra i suoi libri: Il regime degli editori. Libri, scuola e fascismo (Laterza 2005), La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987 (Laterza 2014), Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento (Carocci 2017), La scuola è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana (Viella 2019).

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