
È proprio per questa dialettica tra passato e presente che non credo sia possibile rispondere a una domanda sul fascismo in Pasolini senza accennare, da un lato, all’iter intellettuale del poeta e, dall’altro, al contesto storico italiano della prima metà degli anni ‘70. La riflessione sul fascismo si articola compiutamente nel cosiddetto “periodo corsaro”, in anni dominati dalla strategia della tensione e da cambiamenti radicali nel costume degli italiani. Eppure le origini della sua prospettiva possono essere fatte risalire molto indietro nel tempo. Pasolini infatti analizza il fascismo avendo come punto di riferimento il “mondo popolare” (ovvero quel mondo contadino, operaio, e sottoproletario) che era stato il protagonista assoluto della sua parabola letteraria: in un primo momento questo mondo sarà incarnato dal Friuli contadino, poi dalla Roma sottoproletaria delle borgate; e infine, negli anni ’60, dalle culture contadine dei paesi del cosiddetto “Terzo mondo”. Il fascismo, per come viene teorizzato negli anni ’70, si presenta proprio come la negazione di tutto questo mondo, il suo negativo fotografico. Non è un caso che il primo articolo in cui Pasolini usa l’espressione “nuovo fascismo” si intitoli Acculturazione e acculturazione: il fascismo si identifica sostanzialmente come quel momento in cui la borghesia colonizza, per così dire, il mondo popolare, distruggendo tutti quei modi particolari di essere uomini che si sono storicamente sedimentati nel tempo. Espressioni quali “mutazione antropologica”, “genocidio” o “borghesizzazione” fanno riferimento allo stesso fenomeno, ovvero la morte delle culture popolari e la loro sostituzione con una cultura di classe, borghese. Questo, in buona sostanza, il cuore della posizione pasoliniana.
Il problema è che tra il vecchio e il nuovo fascismo è avvenuto uno scarto non indifferente. Il fascismo è sempre un fenomeno borghese, ma l’identità della borghesia è cambiata notevolmente e, assecondando i movimenti del capitale, ha dismesso i vecchi valori “clerico-fascisti” per abbracciare quelli dell’edonismo e del consumo. Inoltre, se il vecchio fascismo aveva dei mezzi rudimentali per estendere la propria egemonia, il nuovo fascismo si avvale di tutta una serie di mezzi di comunicazione di massa (primo fra tutti la televisione) che consentono una diffusione capillare dei suoi messaggi. È proprio in riferimento a questi cambiamenti che Pasolini arriva a considerare il nuovo fascismo ancora più pericoloso del vecchio. Il regime mussoliniano non era riuscito a far altro che a omologare superficialmente gli italiani, mentre la civiltà dei consumi riusciva a penetrare in profondità, fin dentro le fibre.
Qual era il suo giudizio dell’antifascismo e degli antifascisti del suo tempo?
Questo è uno dei punti più ambigui di tutta la riflessione pasoliniana e non stupisce che citazioni sulla falsariga del “fascismo degli antifascisti” si ripresentino con una certa ciclicità all’interno del dibattito pubblico nazionale. A scanso di ogni equivoco, forse è bene ricordare che Pasolini, negli Scritti corsari, sosteneva di considerare la sua riflessione “quanto di più realmente antifascista si potesse dire”. Penso che a fronte delle frequenti strumentalizzazioni che ne sono state fatte, questo sia un punto che va posto con una certa chiarezza. L’antifascismo è un principio assolutamente ineludibile, e per convincersene basterebbe leggere poesie come La Resistenza e la sua luce, o gli articoli degli anni ’60, pubblicati su “Vie nuove”. Il problema, però non è tanto la considerazione che Pasolini aveva della Resistenza e dell’antifascismo storico, ma il suo giudizio su certo antifascismo contemporaneo. Per spiegare questo nodo cruciale forse è bene fare un passo indietro e tornare per un attimo alla divisione tra vecchio e nuovo fascismo. In buona sostanza Pasolini oppone ad ogni fascismo un antifascismo specifico. Ad ogni veleno il suo antidoto. Il vecchio fascismo mussoliniano trovava il suo contraltare nell’antifascismo classico della Resistenza. Il nuovo fascismo della civiltà dei consumi, invece, pone una sfida più complicata, dal momento che sono occorsi cambiamenti radicali non solo nella società italiana, ma proprio nel modo in cui il capitale si riproduce. Pasolini parla molto spesso di “neocapitalismo”, e di come quest’ultimo abbia minato alla base tutti quei valori borghesi che sorreggevano il vecchio fascismo. Il nuovo Potere, dice Pasolini, non sa che farsene di parole come Dio, Patria e Famiglia. Allora, questa la conclusione logica, il nuovo fascismo impone la necessità di edificare un nuovo antifascismo. Al nuovo veleno bisogna contrapporre un nuovo antidoto.
La polemica sul “fascismo degli antifascisti” fa invece riferimento a quello che Pasolini chiama “antifascismo archeologico”, ovvero a un “antifascismo di tutto comodo” che invece di attaccare il nuovo totalitarismo, dirige la propria attenzione verso un vecchio fascismo che non tornerà più. Davanti al nuovo veleno il vecchio antidoto non solo non è efficace, ma può essere addirittura dannoso. I “gerarchi DC”, rivendicando un antifascismo del tutto nominale, sperano di ottenere una sorta di salvacondotto, un riparo per le loro azioni. A Pasolini interessa proprio questo: svelare il fascismo sostanziale della classe dirigente italiana criticando il suo antifascismo di facciata.
Quali peculiarità caratterizzano la riflessione pasoliniana sul fascismo?
Credo siano sostanzialmente tre. Da un lato la prospettiva, il punto di osservazione dal quale Pasolini analizza la realtà, si presenta come qualcosa senza paragoni in tutto il panorama intellettuale italiano. Pasolini è stato uno dei pochissimi ad aver messo il mondo popolare (le culture contadine, proletarie e sottoproletarie) al centro di una interpretazione del fascismo.
Dall’altro, un’ulteriore peculiarità potrebbe essere rappresentata dalla vastità della sua riflessione, che arriva a toccare una quantità molto ampia di temi, e a coniugare – questa la cosa fondamentale – un’analisi di natura socio-antropologia, con una che coinvolga, in maniera stringente, l’attualità politica. Se da una parte il fascismo è strettamente connesso al tema dell’omologazione borghese, della “mutazione antropologica” degli italiani, dall’altro Pasolini si interroga su come questo cambiamento radicale si sia articolato politicamente. Le sue invettive contro la Democrazia Cristiana, gli articoli sulla strategia della tensione, e il romanzo Petrolio, al centro del quale domina la figura di Eugenio Cefis, vanno a posizionarsi come nodi di una rete di testi che, in ultima istanza, costituiscono, nel loro complesso, la riflessione di Pasolini sul fascismo.
Infine, la riflessione di Pasolini ha una natura fortemente militante. Qui mi ricollego a quanto detto nella prima domanda: tutte le interpretazioni del fascismo sono frutto di una dialettica tra passato e presente, ma in alcuni casi il rapporto tra questi due poli risulta sbilanciato. Pasolini non è interessato a creare un’analisi dal valore puramente storiografico, ma piuttosto ha l’ambizione di comprendere e denunciare i cambiamenti radicali che si stavano dispiegando nella società italiana. Il referendum sul divorzio, il problema dell’aborto, la progressiva scomparsa dei dialetti, erano spie di un radicale mutamento dei costumi che Pasolini connetteva con i grandi eventi della storica nazionale, come il dipanarsi della “strategia della tensione”, e il potere sempre più penetrante delle multinazionali. È chiaro che quando Pasolini parla del fascismo, parla soprattutto del mondo in cui vive, e in misura molto minore del passato regime.
In che modo si integrano la natura intimamente letteraria dei suoi scritti con l’ispirazione politica della sua prospettiva?
Si può rispondere in più modi a questa domanda. Prima di tutto mi verrebbe da dire che produzione letteraria e riflessione politica sono indistinguibili da un punto di vista formale. Pasolini, in buona sostanza, non distingue tra scritti letterari e scritti politici. La sua riflessione sul fascismo è presente nel cinema (in particolare Salò), nella sua produzione in prosa (il romanzo Petrolio), e poetica (nel libro dedico un intero capitolo alla poesia Saluto e Augurio). Insomma, il suo pensiero politico non si sviluppa all’esterno, in qualche luogo asettico, ma all’interno degli scritti letterari.
Inoltre la natura letteraria e l’ispirazione politica sono collegati anche da un punto di vista genealogico. Ho già fatto rapidamente riferimento a questo aspetto nelle domande precedenti: Pasolini guarda al fascismo e alla contemporaneità da un punto di vista fortemente personale. E la sua prospettiva, al centro della quale si erge il mondo popolare, è da ricondurre direttamente alla sua produzione letteraria. In pratica Pasolini guarda la realtà non con gli occhi di un analista, ma con gli occhi di uno scrittore, di un poeta, anche quando parla del fascismo.
Alessandro Viola è dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale