
È davvero difficile stabilire con certezza il volume complessivo degli ingressi per mancanza o inaffidabilità dei dati almeno sino al 1879. Di certo l’immigrazione italiana risultò in costante crescita dal 1860, ma fu negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta del XIX secolo che gli italiani divennero la componente maggioritaria rispetto alle altre provenienze (tra il 1885 e il 1889 furono il 48,9% di tutti gli arrivi nella capitale, che assorbiva la stragrande maggioranza degli immigrati nel paese). A partire dagli inizi del Novecento, poi, i movimenti di italiani verso l’Uruguay crebbero in termini assoluti, ma il saldo netto diminuì costantemente se paragonato alla fine del secolo precedente. In termini percentuali, infatti, il picco della presenza si registrò nel 1889, quando i nostri connazionali erano circa il 22% dell’intera popolazione di Montevideo (circa 47.000), mentre nonostante il grande incremento di flussi tra il 1908 e il 1927 i cittadini italiani oscillarono tra i 62.000 e i 65.000 in tutta la nazione.
È opportuno segnalare, infine, che essi diedero un contributo fondamentale alla crescita e alla modernizzazione del paese, ed ebbero un peso rilevantissimo nella classe media e in quella imprenditoriale e industriale (con comparti, come il tessile e le farine, dove giunsero ad avere posizione di monopolio).
Quale politica adottò il regime mussoliniano per attirare i connazionali residenti nel Paese sudamericano nell’orbita del fascismo?
È noto che rispetto al tema migratorio Mussolini fu pervaso sin da subito dalla suggestione di poter rendere in qualche modo le comunità espatriate parte della “rivoluzione” fascista, ma, soprattutto, di sfruttare gli emigrati, mobilitandoli attraverso la propaganda e utilizzandoli poi ai fini di potenza del regime. Il fascismo, dunque, provò a utilizzare i connazionali come strumento di una “diplomazia parallela” al fine di creare, attraverso di loro, un centro di influenza italiana in America Latina, basata soprattutto su vincoli etnici e culturali.
Ovviamente l’azione del regime fu rivolta in primis ai paesi di maggior peso politico-economico, come l’Argentina e il Brasile, ma non minore fu l’attenzione riservata ad altri contesti come quello dell’Uruguay. Anche in questa nazione, infatti, il governo mussoliniano ricorse alle armi di propaganda politica e culturale e, soprattutto, sbandierò il ritrovato prestigio internazionale per accrescere la sua influenza in seno alla comunità immigrata e, di rimando, a porzioni della classe dirigente locale. Il messaggio che si cercò di veicolare fu quello di una patria che per la prima volta mostrava attenzione verso i propri figli lontani. Al contempo, però, l’Italia s’impegnò a dare di sé un’immagine di modernità e di potenza, presentando il regime come incarnazione non solo del progresso tecnico ma anche di una cultura universale come quella latina. Un elemento, quello della latinità e di una pancultura latina, che divenne sempre più forte man mano che si palesarono le propensioni imperialiste del duce.
Anche in Uruguay fu riservata grande attenzione al mondo dell’associazionismo etnico, che si cercò di attirare nell’orbita del fascismo, cosa che in parte riuscì, specie tra le élite della collettività, anche se con eccezioni di peso come quella del Circolo Garibaldino, pur nel contesto più generale di un mondo associativo in fase di declino. Un certo rilievo fu dato alla propaganda culturale e alla scuola, in particolare cercando di controllare fin da subito la Scuola italiana di Montevideo, un’azione che però iniziò a completarsi solo verso la fine degli anni Venti. Per quanto riguarda l’azione politica diretta, c’è da dire che i risultati furono magri e i Fasci ebbero davvero uno scarso seguito, mentre miglior sorte – in parte – toccò al Dopolavoro.
Maggior peso ebbero i mezzi di comunicazione, radio e cinema e, soprattutto, la stampa che si schierò praticamente in maniera totale e fin da subito con il regime, finendo per divenirne il megafono. La stampa in lingua italiana fece anche da “ancella” a quello che risultò l’elemento chiave del tentativo di fascistizzazione della collettività, ovvero il corpo diplomatico. Questo risultò decisivo, come in altri contesti, nel dispiegare la propaganda e nell’agglutinare le forze della collettività e indirizzarle, economicamente e politicamente, a favore del fascismo. Ciò si poté notare soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Venti e poi negli anni Trenta sino all’invasione dell’Etiopia e alla guerra di Spagna che in un certo senso segnarono l’auge e l’inizio della caduta di un presunto consenso del fascismo tra i nostri connazionali.
Quali vicende segnarono le relazioni italo-uruguaiane nel corso degli anni Venti?
Gli anni Venti risultarono in un certo senso un periodo preparatorio a un incremento delle relazioni tra i due paesi, che sarebbe avvenuto poi nel decennio successivo. Fino all’inizio di questo decennio, comunque, i rapporti diplomatici Italia e Uruguay furono cordiali, anche se non molto intensi. Gli eventi che portarono al potere Mussolini e i suoi primi passi al governo richiamarono, però, l’attenzione della politica locale, che in una parte più nazionalista e conservatrice guardò con interesse all’avvio di quella esperienza, mentre specialmente all’interno del Partido Colorado al potere (di tendenze riformiste nella sua componente maggioritaria) si tese a denunciarne le possibili derive e il pericolo per le libertà che sembrava incombere sulla penisola.
Una delle costanti del decennio risultò, comunque, la continua affermazione della vicinanza tra i due paesi e della fratellanza italo-uruguaiana, anche come base per un possibile incremento delle relazioni bilaterali. Questa traeva, del resto, fondamento dal contributo dato dagli immigrati alla crescita e allo sviluppo, anche democratico, della nazione sudamericana. Ciò divenne subito evidente in occasione dell’elezione nel 1922 di José Serrato alla presidenza della Repubblica, esponente dei colorados e, anzitutto, discendente di italiani. Tale elemento venne ribadito in maniera più palese nel corso del 1924, prima con la permanenza della crociera di propaganda della Nave Italia a Montevideo e poi con la visita del principe ereditario Umberto di Savoia. Evento, quest’ultimo, a cui tra 1927 e 1928 fece seguito una missione straordinaria uruguayana in Italia proprio per ringraziare casa Savoia e il governo.
Di contro due furono i momenti di maggiore tensione. Il primo in seguito all’omicidio Matteotti e alla successiva assunzione di responsabilità politica da parte del duce; il secondo, in occasione della firma del Concordato con la Chiesa cattolica. In particolare quest’ultimo fu foriero di polemiche, poiché la gran parte dello spettro politico uruguayano, convinto sostenitore della separazione dei poteri tra Stato e Chiesa, vide con sospetto e criticò fortemente un accordo che sembrava minare alla radice la laicità del sistema italiano.
Per quanto riguarda, invece, la diffusione del fascismo tra gli italiani esso vide l’avvio molto stentato delle attività del Fascio di Montevideo, mentre la diplomazia cercò di intraprendere un’opera di propaganda culturale e, nel contempo, si accolse l’arrivo del colonnello De Pinedo durante il suo volo sulle Americhe. La propaganda iniziò a essere più strutturata nell’ultimo terzo del decennio, con la rappresentanza diplomatica peninsulare fortemente impegnata a comprendere i meccanismi della democrazia consociativa uruguayana al fine di cercare una difficile conciliazione tra il messaggio mussoliniano e il sentimento democratico presente tra i connazionali che lì risiedevano.
Quali ripercussioni ebbe la depressione mondiale in Uruguay e in che modo ciò avvicinò i due paesi?
Con il 1929 si materializzò per l’Uruguay l’esaurimento di un ciclo caratterizzato da espansione dei diritti, laicismo e riformismo. Un ciclo che si era già incrinato al principio degli anni Venti, ma che con la morte del suo protagonista indiscusso, José Batlle y Ordòñez, rendeva palese la sua eclissi. Contemporaneamente, peraltro, cominciarono a mostrarsi tutte le crepe e la vulnerabilità di un sistema economico eccessivamente dipendente dalle esportazioni e caratterizzato da grandi squilibri della bilancia dei pagamenti e alti livelli di debito estero.
Tuttavia, gli effetti della crisi economica mondiale del ’29 sul paese sudamericano non si fecero sentire immediatamente, ma furono pesantissimi nel biennio 1931-1933, coinvolgendo in primo luogo il decisivo settore delle esportazioni con pesanti ricadute sull’occupazione e sul valore della moneta nazionale. In simile contesto, anche il sistema politico palesò le proprie difficoltà. In particolare dopo l’assunzione come presidente del membro del Partido Colorado Gabriel Terra, nel 1931, iniziarono ad affiorare pulsioni golpiste e corporative e, soprattutto, guadagnò consenso l’orientamento teso a riformare il sistema per rafforzare i poteri presidenziali anche in virtù delle difficoltà nel rispondere alla crescente crisi economica.
La rottura definitiva dell’ordine istituzionale arrivò con il golpe del 31 marzo 1933 condotto dallo stesso Terra, con l’appoggio di parte delle forze di opposizione e dei militari. Fu l’inizio di un processo di riforma costituzionale che si sarebbe compiuto di lì a un anno con la conferma del presidente fino al 1938. Ad assistere al precipitare degli eventi vi fu il nuovo responsabile della Legazione italiana, Serafino Mazzolini, figura che risultò chiave nell’avvicinamento tra i due Stati. Il diplomatico italiano non poté che salutare con soddisfazione il putsch, specie in quanto, all’interno del movimento che l’aveva sostenuto, sembravano affiorare chiari indirizzi corporativi e segnali di apprezzamento e vicinanza verso l’esempio fascista. Questi, tuttavia, non trovarono attuazione compiuta nella nuova costituzione, che, peraltro, non metteva in discussione il sistema partitico. Indubbia fu, comunque, la vicinanza e la concordanza che Mazzolini seppe creare con Terra. Questa relazione, unita alla sua intraprendenza di fascista (quasi) della prima ora, consentì al diplomatico italiano di dispiegare tutte le armi della propaganda e di suscitare una forte risposta emotiva da parte della collettività ai suoi richiami verso i sentimenti nazionali e l’accettazione di un regime che, ormai, sembrava apprezzato a livello internazionale.
La nuova fase permise alla diplomazia italiana di agire in maniera praticamente indisturbata presso gli italiani, nonché di condurre in porto un importante trattato commerciale con l’Uruguay agli inizi del 1935. Non solo. Durante il conflitto italo-etiope, infatti, nonostante le pressioni britanniche e la condanna in sede di Società delle Nazioni da parte del paese rioplatense l’atteggiamento di Montevideo fu volutamente ambiguo, consentendogli in sostanza di non attuare mai le sanzioni contro l’Italia. La successiva rottura dei rapporti diplomatici con la Spagna repubblicana e con l’Unione Sovietica da parte dell’Uruguay sembrò avallare l’opinione di un certo filo fascismo del fronte terrista. Nondimeno, proprio la guerra di Spagna determinò una incrinatura. La partecipazione italiana al conflitto risvegliò le forze dell’antifascismo, non solo italiano, fino ad allora messe all’angolo, mentre più in generale, il definitivo avvicinamento al nazismo da parte di Mussolini fu visto in maniera negativa e con una certa apprensione dall’opinione pubblica uruguayana.
Quale evoluzione caratterizzò le relazioni italo-uruguaiane dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la restaurazione democratica in Uruguay?
La guerra mondiale, come sostengo nel testo, che non a caso termina proprio con il 1940, segna uno spartiacque nei rapporti italo-uruguayani, ma anche nel sentimento della collettività italiana che lì risiedeva. La decisione italiana di entrare nel conflitto venne accolta, infatti, con sconcerto da gran parte dell’opinione pubblica locale e di quella dei connazionali. Per di più, quasi in contemporanea, il governo di Montevideo, in un clima di crescente sospetto e timore per il diffondersi delle idee nazi-fasciste nel subcontinente, approvò un provvedimento di controllo sulle attività delle associazioni straniere, che limitò definitivamente l’operato delle istituzioni etniche e della propaganda fascista. La presa ideologica del regime, quindi, mostrò tutta la sua fragilità mentre nel contempo si incrementarono le attività dell’antifascismo, che proprio in Uruguay troverà uno dei suoi centri nevralgici in ambito sudamericano.
Tra il 1940 e il 1942, quindi, la nazione rioplatense consolidò il proprio allineamento pro alleati e il suo attivismo in ambito interamericano. Il 1942 fu decisivo. L’anno si aprì con la rottura delle relazioni diplomatiche tra i paesi dell’Asse e l’Uruguay. Poco dopo si compì la “restaurazione democratica” attraverso il cosiddetto golpe bueno del 21 febbraio, l’emanazione di una nuova costituzione, le elezioni di fine anno e l’inizio di una nuova fase riformista. In agosto Montevideo ospitò la conferenza dell’associazione antifascista democratica (non comunista) Italia Libera, che ottenne il pieno sostegno del presidente Alfredo Baldomir (nonché di Washington) e che rappresentò il momento di inizio di una riflessione sull’Italia del dopoguerra.
Le relazioni tra l’Italia e il paese sudamericano ripresero formalmente nel novembre del 1944, ma la nomina di un rappresentante diplomatico italiano avverrà solo alla fine dell’anno seguente e la rappresentanza, riaperta nel 1946, verrà elevata al rango di Ambasciata solo due anni dopo. Nell’immediato dopoguerra i rapporti tra i due Stati ripresero, comunque, nel segno della cordialità, prima con un accordo per lo scongelamento dei beni bloccati nel 1947 e poi con la Dichiarazione di amicizia del 1949. In questo frangente tornò, dunque, a essere centrale, sia per le necessità della penisola che per la fase di crescita vissuta dall’Uruguay, il tema dell’emigrazione. Sebbene su numeri molto più bassi del periodo dell’esodo di massa e sulla base di criteri di selezione più stringenti da parte uruguayana, vi fu una ripresa del fenomeno migratorio verso la sponda montevideana del Plata. Pertanto, l’immigrazione italiana risultò, anche in virtù dell’accordo siglato nel 1952, in crescita costante sino alla metà degli anni Cinquanta, quando iniziò a declinare definitivamente.
Valerio Giannattasio è professore di Storia e Istituzioni delle Americhe presso il Dipartimento di Scienze Politiche Jean Monnet dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Ha pubblicato volumi, saggi e articoli sulla comprensione dell’America Latina e la propaganda fascista durante il regime di Mussolini, sulla storia contemporanea della regione latinoamericana, sulla politica estera italiana nel subcontinente e sulle reti politiche euro-latinoamericane.