“Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo” a cura di Paolo Giovannini e Marco Palla

Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, Paolo Giovannini, Marco PallaProf. Paolo Giovannini, lei ha curato con Marco Palla il libro Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo pubblicato da Laterza: quanto erano diffusi la corruzione e il malaffare durante il fascismo?
Per quanto il fenomeno sia di difficile quantificazione, i sondaggi effettuati anche in questo volume, come in alcuni studi precedenti, ci inducono a sottolineare il forte contrasto che si viene a stabilire fra un regime che pretendeva di correggere i mali dello Stato liberale, di forgiare un «uomo nuovo», e il proliferare durante il Ventennio fascista dell’affarismo, della corruzione, del clientelismo e del nepotismo in una forma addirittura assai più estesa rispetto al passato.

Si tratta di una realtà che fino ad ora non è stata adeguatamente trattata dalla storiografia, che in linea generale ha considerato affarismo e corruzione come elementi tutto sommato ‘fisiologici’, come aspetti marginali, comunque di non fondamentale importanza per la comprensione del fenomeno fascismo, meritevoli, al massimo, di qualche rapido cenno. L’argomento dell’affarismo e della corruzione fino a questo libro non è stato affrontato come fattore strutturale del sistema politico fascista.

Per di più, anche dal punto di vista dell’opinione pubblica, ha resistito, perpetuandosi praticamente sino a oggi, il falso mito del fascismo estraneo al cono d’ombra dell’affarismo della corruzione, costruito negli anni del regime e mai sottoposto una concreta verifica.

Queste sono le principali motivazioni che ci hanno indotto per la prima volta a porre al centro della ricostruzione storica la cosiddetta ‘questione morale’ nel periodo fascista, senza schermi interpretativi aprioristici e visioni prevenute, al di fuori di qualsiasi sensazionalismo o ‘scoopismo’. Curatori e autori sono stati unicamente guidati da un approccio scientifico, come attestano i continui riferimenti alle fonti archivistiche

Quali affari si celavano spesso dietro l’ideologia?
Gli affari sono davvero assai diversificati. Ogni ras, trasformatosi in gerarca, cerca di avvantaggiarsi delle peculiarità delle economie periferiche, facendo riferimento ai caratteri delle zone da loro controllate, laddove queste costituiscono la base per l’ascesa politica a livello nazionale.

In tal senso nel libro si è teso a privilegiare la dimensione periferica, che ci è sembrata un punto di vista capace di aprire squarci importanti nell’effettivo esercizio del ‘dominio’ fascista. A livello provinciale in particolare la documentazione prefettizia, come anche quella prodotta dalle questure e dagli enti locali, contribuisce a far luce su una molteplicità di episodi e situazioni di corruzione e affarismo, che in vari casi vanno al di là del cosiddetto ‘beghismo’, degli scontri fra fazioni contrapposte, dei contrasti fra una piccola e media borghesia emergente in camicia nera e il vecchio notabilato, permettendo di focalizzare da un interessante punto di vista specifiche dinamiche del potere locale, il costituirsi di rinnovate reti di interessi e di rappresentanza, il rapporto del centro con le molteplici e diverse periferie e viceversa.

Gli studi sul fascismo locale, facilitando lo scavo archivistico, possono contribuire efficacemente alla ricostruzione dei contorni del fenomeno. Ad esempio ci si chiede quale quadro generale emergerebbe dall’insieme dei diversi casi trattati da Leandro Arpinati nel periodo in cui, come sottosegretario del ministero dell’Interno, intraprende una velleitaria opera di moralizzazione dei fascismi provinciali e dispone accertamenti sull’arricchimento di vari gerarchi? Certamente si tratta di casi non legati in un’unica trama, ma che comunque compongono i tasselli di una realtà che appare assai diffusa.

Come nacque la ricchezza di personaggi come Volpi e Ugo Cavallero?
Al di là dei vantaggi economici che certamente il fascismo assicura ai due personaggi, e che guidano almeno in parte la loro azione, i loro casi sono rappresentativi degli intrecci di potere, delle contiguità, che durante il regime si vengono a stabilire fra alcuni ambienti finanziari e militari e il fascismo. Il magnate dell’industria elettrica privata Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, è il più eminente fra le figure di uomini d’affari, designati a far parte degli esecutivi fascisti. Egli fu uno dei pochissimi, come anche Alberto Pirelli, a essere regolarmente ricevuto dal duce, conservando per l’intero Ventennio sino alla caduta una stretta prossimità anche personale con il dittatore. Il caso di Cavallero, che prima di diventare nel 1940 capo di Stato maggiore aveva affiancato alla carriera militare la presidenza del gruppo industriale Ansaldo, è importante in quanto figura di collegamento e di sutura fra industria privata e ministeri militari negli anni del fascismo, realizzati anche a scapito dell’efficienza delle armi italiane.

‘Sporche’ furono anche le mani di alcuni dei gerarchi del regime, come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi.
Durante il fascismo si assiste a un’un’inedita professionalizzazione della politica e la politica diviene una risorsa per arricchimenti e per il miglioramento delle condizioni economiche di un nuovo personale politico, di nuove élites, composte in diverse circostanze da uomini nuovi, da parvenu di umili origini, spesso provenienti dalle file dello squadrismo. Naturalmente la casistica appare molto differenzia, anche in relazione al differente rilievo delle varie personalità. Comunque è la politica come professione a garantire una scorciatoia per il successo in affari all’ambiziosissimo, furbo e spregiudicato Farinacci, che fra il 1936 e il 1941 acquista immobili e proprietà al ritmo al ritmo di circa uno all’anno, o a consentire a un modesto armatore livornese come Costanzo Ciano, e ai suoi famigliari, di diventare fra i più ricchi del regime, con il capolavoro del più importante legame matrimoniale della storia del regime: quello fra i rispettivi primogeniti, Edda e Galeazzo, di quella nuova famiglia ‘allargata’ che sono dall’inizio degli anni trenta i Mussolini-Ciano. Lo stesso si può dire, con modalità diverse, di Carlo Scorza e Raffaello Riccardi, che alle ambizioni politiche uniscono scopi assai più prosaici.

Quali legami con la mafia ebbe il fascismo?
Questa è una domanda a cui è difficile rispondere in poche righe. Comunque, al di là delle azioni eclatanti condotte attraverso il prefetto Cesare Mori contro alcuni clan mafiosi, le collusioni e i legami appaiono connessi alle modalità con cui il fascismo si è insediato nelle regioni meridionali. Difatti nel Mezzogiorno, e in Sicilia, a parte la Puglia, dove c’era stato un significativo fenomeno squadrista, il fascismo non aveva solide radici e si era diffuso dopo la presa del potere soprattutto grazie alla tradizionale azione prefettizia in favore degli esecutivi, laddove i vecchi circoli di potere, in alcuni casi contigui o compromessi con esponenti della criminalità organizzata, si erano rapidamente convertiti o adattati al nuovo regime, vestendo la camicia nera. Si trattava per lo più di reti di potere e di promozione sociale stratificate, che continuano a operare secondo consolidate modalità, non eccettuate le relazioni mafiose. Peraltro la mafia, come in altre fasi della sua storia, mostra indubbie capacità di adeguamento al mutare delle situazioni e dei contesti, assumendo un profilo più defilato e ‘sotterraneo’.

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