“Il fantasma di Lucrezio. La perduta traduzione del De rerum natura di Giovan Francesco Muscettola” di Valentina Prosperi

Prof.ssa Valentina Prosperi, Lei è autrice del libro Il fantasma di Lucrezio. La perduta traduzione del De rerum natura di Giovan Francesco Muscettola, pubblicato dalle Edizioni della Normale. Il Suo studio prende le mosse da una constatazione: la mancanza di una traduzione cinquecentesca italiana, integrale o parziale, dell’opera di Lucrezio; quali le ragioni?
Il fantasma di Lucrezio. La perduta traduzione del De rerum natura di Giovan Francesco Muscettola, Valentina ProsperiDevo fare una rapida premessa. Il libro segue a quasi vent’anni un altro che scrissi su Lucrezio nel Rinascimento (Di soavi licor gli orli del vaso. La fortuna di Lucrezio tra Umanesimo e Controriforma, Aragno 2004). Negli anni non ho mai abbandonato l’interesse per questo tema e ho avuto la fortuna di poter contare nel frattempo su molti e importanti nuovi studi sullo stesso argomento. Penso ai contributi di Mario De Caro, ai libri di Ada Palmer e Alison Brown, al best-seller di Stephen Greenblatt – the Swerve, How the World became Modern – che addirittura fa della riscoperta di Lucrezio la chiave interpretativa di tutto il rinnovamento intellettuale umanistico. Comunque, alcune delle linee interpretative che avanzavo nel mio vecchio libro mi sembravano ancora produttive; e in particolare, penso che sia ancora valido il concetto che allora proposi di ‘codice dissimulatorio’, per spiegare come Lucrezio riuscì ad aggirare la censura cattolica e a circolare quasi senza restrizioni nella cultura italiana. In altre parole, notavo allora come, ogni qual volta che un letterato italiano si trovava a citare Lucrezio – il che accade continuamente e in ogni genere di testi – facesse precedere la citazione da una vistosa presa di distanza verso le dottrine epicuree più invise alla fede cattolica: la mortalità dell’anima e l’indifferenza divina nei confronti degli esseri umani. È un fenomeno diffusissimo e quello che mi colpiva, allora come oggi, è che nessuna categoria – tranne forse e parzialmente quella dei medici – poteva sottrarsi all’obbedienza al codice, neppure nei diari privati o negli epistolari: era indispensabile accompagnare ogni menzione anche del solo nome di Lucrezio con un attacco alla sua filosofia. Questa autocensura volontaria universale si rivelò però un’arma a doppio taglio per Lucrezio: il codice era ritenuto sufficiente solo quando a maneggiare il De rerum natura erano letterati, dotti, umanisti, ecclesiastici. Ma il discorso era completamente diverso per il pubblico più ampio. In questi casi, il pericolo posto da Lucrezio era avvertito come troppo alto e nessuna presa di distanza poteva consentire, agli occhi della Chiesa cattolica della Controriforma, che lo si divulgasse alle categorie tradizionalmente escluse dalla cultura alta e dalla conoscenza del latino, come le donne. Da qui il tabù della traduzione in italiano. Così, mentre gli autori classici trovavano nuove fasce di pubblico grazie alle traduzioni poetiche in italiano – da Virgilio, a Ovidio, a Stazio e Lucano – a Lucrezio questo venne precluso.

Il fenomeno era già stato studiato da Mario Saccenti per la traduzione di fine Seicento di Alessandro Marchetti, la prima che ci sia arrivata in lingua italiana: laddove il Lucrezio latino era sempre riuscito ad evitare l’Indice dei libri proibiti, la traduzione di Marchetti vi fu immediatamente compresa e Marchetti stesso dovette affrontare l’Inquisizione. Gustavo Costa ha pubblicato i documenti dell’Archivio del Sant’Uffizio nei quali gli inquisitori esprimevano apertamente il timore che un Lucrezio italiano andasse in mano al popolo e alle donne. Addirittura l’arcivescovo di Napoli arrivò a predicare in cattedrale contro l’”empio Lucrezio” di Marchetti, indicandolo come responsabile persino di alcuni recenti terremoti. Tornando al Cinquecento, più che di censura si può parlare di autocensura da parte dei letterati: le uniche due traduzioni di cui sia rimasta notizia, quella di Tito Giovanni Ganzarini e quella di Muscettola, alla quale è dedicato questo libro, scomparvero prima ancora di circolare. Ganzarini, spaventato dalle potenziali accuse di empietà, rimandò all’infinito la stampa della sua traduzione che rimase in forma manoscritta e dopo la sua morte si perse senza aver mai incontrato alcun lettore; Muscettola si piegò prontamente alle critiche dell’unico che lesse la sua traduzione, Antonio Sebastiani Minturno, e a quanto ne sappiamo non tentò mai più di farla circolare.

Quale impianto censorio si sviluppò, nel Cinquecento, nei confronti dell’opera lucreziana?
Come dicevo, per Lucrezio nel Cinquecento si deve parlare forse più di autocensura che di censura vera e propria. Il DRN evitò la condanna all’Indice e questo fu fondamentale nel garantirne una circolazione ampia e non clandestina. Fu la comunità dei letterati a escogitare, fin dalla riapparizione del testo nel 1417, forme di autocensura preventiva, che distinguevano tra il valore poetico di Lucrezio da un lato e la “follia” delle sue dottrine materialistiche, soprattutto quelle che negavano l’immortalità dell’anima, l’aldilà e la provvidenza divina. Una delle modalità più raffinate di questo distanziamento era quello di imitare e anzi integrare passi lucreziani nei propri componimenti (quelli in latino, ma anche quelli italiani) ribaltandone però il significato originale attraverso un nuovo contesto, o variando alcune parole. I passi più famosi erano quelli preferiti in questo senso: la condanna della religione, gli elogi di Epicuro, si trasformavano abilmente in elogi della religione e in condanne di Epicuro. Tuttavia, non si deve credere che l’autocensura dei letterati dipendesse da una forma diffusa di ingiustificata viltà: abbiamo casi documentati nei quali, di fronte a una eccessiva disinvoltura nel maneggiare Lucrezio – quando cioè il letterato non adottava il codice – l’Inquisizione si attivava prontamente. Il reprobo allora si trovava a tremare per le possibili e molto concrete conseguenze del suo eccessivo entusiasmo lucreziano. È quello che accadde al filosofo padovano Sperone Speroni, maestro di Tasso.

La sorte di Lucrezio si giocava insomma sulla lama di rasoio di una circolazione limitata e ristretta, derogando alla quale la reazione delle gerarchie ecclesiastiche non si faceva attendere. La cosa interessante è che proprio gli alti prelati cattolici ebbero per Lucrezio una vera passione e furono forse gli unici a non doversi inchinare al codice: fu un cardinale e futuro papa, Marcello Cervini, a salvare il DRN dall’iscrizione all’Indice del 1549 e molti altri inquisitori ed ecclesiastici ebbero sempre una speciale predilezione per la poesia lucreziana. Antonio Possevino gli riconosceva una qualità ‘morale’ tale da renderlo preferibile a Virgilio, e Monsignor Della Casa discuteva amabilmente e liberamente di questioni testuali lucreziane con Pietro Vettori. Lucrezio venne persino integrato nella predicazione post-tridentina (ovviamente per i passi non ‘pericolosi’): nelle raccolte di sermoni non è raro trovare Lucrezio citato come autorità morale. Alla fine, però, l’effetto di questa compressione censoria sulla circolazione di Lucrezio fu soprattutto negativa per la nostra cultura, anche perché si protrasse fino ancora a tutto il Settecento: come ha studiato Patrizia Delpiano, mentre il resto d’Europa conosceva il progresso scientifico e filosofico, in Italia la Chiesa si scagliava contro gli Illuministi anche perché li riteneva veicolo dei filosofi pagani, e specialmente del “mattissimo” Lucrezio.

In che modo prese forma un antagonismo con il “Lucrezio cristiano”?
Lucrezio ha sempre esercitato un’attrazione quasi irresistibile sui suoi lettori, antichi e moderni, anche su quelli ideologicamente più lontani e avversi al suo materialismo lucido e spietato. I poeti cristiani e i Padri della Chiesa, come ha studiato soprattutto Philip Hardie, avevano fin da subito escogitato modelli di lettura neutralizzanti nei confronti di un modello che avvertivano altissimo ma pericoloso: spesso l’espediente era quello di usare Lucrezio contro se stesso, di adottarne gli stilemi per veicolare contenuti opposti; lo vediamo in Prudenzio, in Paolino di Nola. I Padri della Chiesa invece, soprattutto Lattanzio, per attaccarlo insinuavano il dubbio che Lucrezio nutrisse una segreta e insopprimibile fede religiosa che affiorava nel poema suo malgrado: era una specie di lettura in chiave Anti-Lucrèce chez Lucrèce, del tutto pretestuosa, è chiaro, ma indicativa del dilemma provocato da Lucrezio nei suoi ammiratori cristiani. Come reagire di fronte alla forza persuasiva di una poesia straordinaria della quale si aborrivano però i contenuti? Come i poeti cristiani avevano cercato in certo modo di sostituirsi a Lucrezio con poemi che ne imitavano la lingua e il modello, lo stesso avvenne in età moderna. Fin da subito, nel Quattro e Cinquecento, si assisté al fenomeno di poeti italiani che mutuavano da Lucrezio interi passi adattandoli a contenuti cattolici: specialmente significativo il caso dell’Inno a Venere trasformato mille volte in preghiera cristiana, alla Madonna, a Dio o agli angeli. Col passare del tempo, si avvertì la necessità di opporre al De rerum natura un anti-Lucrezio cattolico. Il De animorum immortalitate di Aonio Paleario, poema latino intriso di memoria lucreziana, ne offre un esempio. Ma l’esigenza si fece ancora più forte quanto più la circolazione di Lucrezio minacciava di estendersi, e cioè quando si arrivò alla traduzione in italiano: è allora che in Italia si corse ai ripari contro il De rerum natura italiano di Marchetti traducendo l’Anti-Lucretius del Cardinale di Polignac. Lo stesso Marchetti, sul finire della sua vita, non trovò di meglio, per fare ammenda del suo Lucrezio italiano, che comporre un poema filosofico cristiano, rimasto però allo stato di frammento. Ma, in realtà, io credo che il vero Lucrezio cristiano, in Italia, sia stato Torquato Tasso, col poema cosmogonico Mondo creato, dove il modello lucreziano è forte e visibile, sia pure declinato in chiave assolutamente ortodossa.

Chi era Giovan Francesco Muscettola e cosa sappiamo della sua traduzione del De rerum natura?
Prima di tutto, devo chiarire che l’inseguimento di Muscettola e della sua vicenda letteraria e biografica è nel libro se non proprio una scusa, almeno un filo conduttore per parlare di Lucrezio in quell’ambiente e in quel tempo: la cultura umanistica soprattutto napoletana di metà Cinquecento, dalla Pontaniana in avanti, con incursioni in altri ambiti, come quello delle alte gerarchie cattoliche e della predicazione post-tridentina, nei quali la presenza del DRN è, forse perché meno attesa, più sorprendente. Quanto a Giovan Francesco Muscettola, aristocratico napoletano e letterato dilettante, è il cavaliere inesistente, l’eroe inafferrabile della storia che racconto: il suo nome si è salvato solo per aver tradotto Lucrezio; ce lo ricorda Tiraboschi e solo per questo la notizia ha raggiunto anche noi. La traduzione risultava perduta e nessuno se n’era mai occupato, ma Tiraboschi offriva anche una pista di indagine: una lettera a Muscettola nella quale il critico e poeta Minturno dava il suo giudizio sulla traduzione. Da questa lettera sono partita in una ricerca sul filo dei documenti che mi ha molto appassionato; alla fine entrambi – autore e traduzione – hanno rivelato più del previsto: Muscettola era figlio di Giovanni Antonio, un personaggio di grande spicco, ambasciatore di Carlo V e amico di Vittoria Colonna, di Paolo Giovio, inserito nell’élite politica e culturale del suo tempo. Alla morte – precoce – del padre, Giovan Francesco ne raccolse in certo modo l’eredità ma con molto minore successo. La fallita traduzione fu la prima di una serie di iniziative culturali che intraprese senza portare a termine: fondò l’Accademia dei Sereni che venne presto soppressa dal viceré Toledo, per sospetti di eresia; affascinò i contemporanei, che spesso lo citano come uno degli ingegni migliori e più promettenti della Napoli del tempo, ma non lasciò niente di scritto; per tutta l’ultima parte della sua vita si dedicò a comporre un’opera di storia contemporanea che non vide mai la luce. È come se la stroncatura ricevuta da Minturno per la traduzione lucreziana segnasse una cesura fatale nella sua vicenda di letterato, malgrado il grande spirito che i contemporanei gli riconoscevano.

Quanto alla traduzione, tutto quel che ce ne resta è la descrizione malevola che ne dà Minturno nella lettera che citavo prima, ma non è poco. Minturno ci rivela che si trattava di un testo in endecasillabi sciolti, nel quale l’autore cercava di rendere i versi latini molto alla lettera: quindi era una traduzione al passo coi tempi, simile ad altre che negli stessi anni traducevano in endecasillabi sciolti Virgilio e altri autori classici. Minturno sosteneva invece il ricorso alla rima anche nella traduzione, per non perdere ‘gli ornamenti’ propri della lingua italiana: e, fedele alla prassi teorizzata, Minturno tradusse in rima alcuni passi lucreziani nelle sue opere. Perché poi il punto è questo: nonostante i divieti e le censure, implicite ed esplicite, nella poesia del Rinascimento si trova un’infinità di frammenti del DRN tradotti in italiano. Direi che sommandoli insieme in un ideale collage non si arriva a ricomporre tutto il poema latino ma gran parte di esso sì: si ha proprio l’impressione tangibile di una spinta collettiva a misurarsi con Lucrezio sul piano della traduzione che non può realizzarsi.

Quali vicende segnarono la storia della traduzione fantasma?
La traduzione scomparve immediatamente, dopo aver incontrato un solo lettore, che ne fu, posso dire, l’assassino deliberato e a sangue freddo. Muscettola l’aveva inviata a Minturno, che era un letterato in ascesa ed era stato amico di suo padre, per averne un parere e, com’è naturale, un incoraggiamento. Invece la reazione di Minturno fu glaciale: si legge nella sua risposta tutto l’imbarazzo e la preoccupazione di chi sa esattamente a quali rischi si esponeva chi allora pensasse di allargare il pubblico dei lettori lucreziani. Un rischio che evidentemente sfuggiva al giovane Muscettola, per ragioni forse di età, di ceto sociale o di frequentazioni: Giovan Francesco veniva dal contesto della Pontaniana, era in contatto con Scipione Capece; la consuetudine col DRN doveva sembrargli un fatto ovvio e naturale. Non aveva capito che nel suo entusiasmo stava per violare un tabù non scritto ma non per questo meno categorico: il divieto di tradurre Lucrezio.

Valentina Prosperi è professore associato di Filologia classica all’Università di Sassari; la sua ricerca si concentra sullo studio della trasmissione e fortuna di autori, problemi e temi della cultura e letteratura classica nella prima età moderna. Ha scritto soprattutto su Lucrezio, Ditti Cretese e Darete Frigio, Omero e il mito di Troia nel Rinascimento.

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