
Quali modalità assumeva la pratica del sorteggio nei vari Comuni?
Una caratteristica costante di tutti i sistemi di estrazione a sorte adottati nelle città comunali è il loro carattere indiretto. In questo si può trovare una differenza molto profonda con quanto si può osservare ad esempio nella storia greca antica. Difficilmente gli uffici cittadini venivano assegnati con un mero sorteggio. Al contrario, si trattava di una procedura a più passaggi, più o meno ciechi. Innanzitutto il novero dei sorteggiati non coincideva con tutta la popolazione: gli statuti cittadini pongono di norma limiti di natura censitaria, o di appartenenza alle società professionali per essere presi in considerazione dal sorteggio; e in ogni caso vi erano molto spesso categorie escluse di principio per ragioni di natura politica, ad esempio gli aristocratici laddove erano in vigore norme ‘antimagnatizie’, o addetti a mansioni servili o infamanti. Spesso poi interveniva un pronunciamento esplicito del consiglio o del collegio incaricato, che provvedeva a votare sui nomi estratti o da estrarre: concretamente il consiglio definiva una rosa ristretta da cui si sarebbe estratto, oppure nel caso inverso l’estrazione individuava un numero eccedente di nomi, all’interno dei quali il consiglio votava i preferiti. Sembra cioè che nella cultura politica comunale si sentisse sempre l’esigenza di adottare un mix di sistemi diversi, mai un sistema solo. Non era un ingiustificato amore per la complicazione, ma semplicemente la risposta ad esigenze di per sé molto eterogenee, che quindi avevano bisogno di sistemi adeguati: da una parte l’equità nella distribuzione delle cariche, dall’altra l’affidabilità politica e tecnica degli eletti. A scombinare di nuovo il meccanismo, l’estrazione individuava normalmente non gli ufficiali ma gli elettori degli ufficiali. Questo fa emergere un tratto ulteriore delle pratiche politiche del tempo, cioè il loro essere centrate non sull’individuo ma sul gruppo sociale. Non sono io a svolgere l’incarico per cui vengo estratto, ma una persona di mia scelta, un parente o un sodale, e questo lungi dal mortificare le mie ambizioni consolida la mia posizione nella società cittadina, perché la società medievale è costituita da gruppi molto più che da individui singoli. Il carattere indiretto della designazione aveva infine un elemento significativo: per quanto la distribuzione delle cariche fosse spesso calibrata sulle divisioni della città, sia in senso topografico (per quartieri) sia socio-politico (per categorie come artigiani, membri di famiglie aristocratiche, membri delle corporazioni ecc.) i collegi di eletti avevano una funzione solo collettivamente, non come singoli. In effetti l’assenza del principio dell’elezione, a cui noi siamo così abituati, era al cuore della cultura politica comunale: la scelta consapevole di una singola persona portava con sé un individualismo troppo pronunciato per la mentalità del tempo, quindi si preferiva far sì che l’individuazione dell’incaricato o dell’ufficiale fosse prodotta in maniera per così dire involontaria, apparentemente cieca o non del tutto consapevole. Di conseguenza l’eletto non poteva davvero considerarsi un ‘rappresentante’ della città o del suo gruppo sociale – il principio della rappresentanza veniva inteso soltanto in riferimento agli ufficiali presi collettivamente.
I sistemi pratici di svolgimento dell’estrazione erano molto vari, e come spesso accade nella storia comunale mostrano una straordinaria inventiva istituzionale. Spesso l’estrazione era svolta nel contesto di un cerimoniale assai elaborato, che aveva il fine non soltanto di assicurare la correttezza della procedura per via di regole rigorose, ma anche di comunicare ai presenti il senso di un rituale collettivo, segno dell’importanza e della dignità delle decisioni che venivano prese. In fondo tutti i sistemi di voto sono rituali che mantengono una certa aura religiosa. Non di rado l’operazione dell’estrazione, o la conservazione dei materiali usati per tutto il rituale, era demandata a religiosi, perché in virtù del loro status costoro non potevano partecipare alla vita politica, quindi li si riteneva una garanzia di terzietà. La forma più consueta, almeno nella prima fase della storia del sorteggio, era quella dei cosiddetti brevi: dei rotolini di pergamena avvolti, tutti uguali all’esterno, venivano posti in un recipiente in un numero pari a quello dei membri del consiglio o dell’assemblea allargata in seno alla quale avveniva l’elezione. Gran parte dei rotolini erano vuoti, ma un numero stabilito portava all’interno un’iscrizione, una formula o il nome dell’ufficio per il quale si procedeva alla scelta. Ogni membro dell’assemblea estraeva un breve, e coloro che trovavano l’iscrizione erano eletti. Di norma, come ho già detto, l’eletto non era la persona che avrebbe ricevuto l’incarico pubblico, ma piuttosto acquisiva il diritto di nominare a sua volta l’ufficiale – talvolta poteva nominare anche sé stesso, più spesso doveva designare un’altra persona.
In che modo gli Statuti cittadini regolavano la rotazione delle cariche?
La natura indiretta dell’elezione tramite sorteggio avvicinava il sistema ad un meccanismo di rotazione delle cariche: dal momento che il criterio di fondo ‘premia’ il gruppo più che il singolo, l’effetto è quello di consolidare la circolazione degli incarichi in un gruppo o tra diversi gruppi. La rotazione conosce anch’essa una grande varietà di forme diverse. La versione più raffinata di tutto il sistema, che troviamo molto ben documentata in alcune città italiane del ‘300, è quella della cosiddetta imborsazione, a cui ho dedicato un’attenzione prevalente nel saggio. Per ognuno degli uffici da assegnare si confezionava una borsa o una scatola, all’interno della quale venivano inseriti tanti rotolini o pallottole con il nome dei cittadini che una commissione ad hoc aveva individuato come abili e degni di rivestire quell’incarico. Al momento in cui gli ufficiali esaurivano il loro mandato, una solenne cerimonia provvedeva ad estrarre il numero necessario di nomi dalle borse. Questo sistema aveva molti vantaggi. Innanzitutto consentiva di evitare l’accumulo di cariche o la ripetizione di più mandati alla medesima persona sul medesimo ufficio, perché una volta estratto il nome del candidato veniva messo da parte finché la borsa non era completamente svuotata. Le norme statutarie prevedevano infatti l’impossibilità di rivestire la stessa carica più volte entro un determinato lasso di tempo: non sempre erano rispettate, ma il criterio era ribadito con grande decisione. In secondo luogo, la ritualità del sorteggio e l’impossibilità di condizionare la scelta dell’eletto soggiacevano ad un correttivo fondamentale, cioè la scelta preliminare dei nomi da inserire nelle borse. In sostanza era quella scelta a rappresentare il cuore dei meccanismi di qualificazione politica. Attraverso l’operato di commissioni specifiche il singolo cittadino veniva ‘scrutato’, valutato nelle sue qualità e presumibilmente nelle sue relazioni in seno alla società cittadina, e quindi otteneva – o si vedeva rifiutata – la possibilità di entrare nelle borse. Una volta entrato, dal momento che come si è detto la borsa doveva essere svuotata prima di eventuali modifiche, il cittadino aveva la certezza che prima o poi avrebbe avuto il suo momento di responsabilità pubblica. Per questo nelle pagine di questo saggio ho affiancato il tema dell’estrazione come strumento tecnico a quello della rotazione delle cariche, che è l’effetto pratico del sistema nella sua versione più matura. In definitiva tutti questi meccanismi sono una forma di definizione della cittadinanza: attraverso tutte le commissioni, comitati elettorali, imborsazioni e relative riforme il singolo individuo trovava la sua collocazione nella comunità urbana, il suo riconoscimento come cittadino a pieno titolo. È la forma tipica della cittadinanza medievale: un concetto a molteplici strati – da cui la giusta espressione di ‘cittadinanze’ al plurale usata dalla curatrice del libro – che iniziano con la semplice appartenenza alla comunità e che via via acquistano peso fino ad esprime la pienezza delle attribuzioni di cittadino ‘attivo’, per usare un termine contemporaneo, attribuzioni alle quali solo una parte degli abitanti poteva aspirare. Questa considerazione è anche alla base della scelta di parlare di ‘fantasma della rappresentanza’. L’idea di rappresentanza è anch’essa un’invenzione in larga parte medievale, ma se adottiamo la nostra concezione di rappresentanza politica rischiamo sempre di fraintendere le istituzioni comunali. Il problema è la cittadinanza, cioè il modo in cui la persona è riconosciuta nella sua dignità sociale, e di questa dignità sociale fa parte anche l’accedere o il poter accedere agli uffici pubblici.
In definitiva, nella vita politica dell’Italia comunale ci troviamo di fronte ad una serie di meccanismi politici che da una parte ricordano molto da vicino le nostre pratiche istituzionali, dall’altra sono ispirati ad una logica profondamente diversa e decisamente estranea ad alcuni principi fondamentali dei nostri sistemi politici. Un motivo di più per trovare in questa fase della storia medievali spunti di comparazione e riflessione di lungo periodo utili per capire in profondità la vita delle istituzioni.