“Il fango e l’oro. Parigi da Voltaire a Breton” di Riccardo Campi

Prof. Riccardo Campi, Lei è autore del libro Il fango e l’oro. Parigi da Voltaire a Breton edito da Carocci: come nasce e si sviluppa il mito letterario di Parigi?
Il fango e l'oro. Parigi da Voltaire a Breton Riccardo CampiPer rispondere con una formula − che varrà quel che valgono le formule −, si potrebbe dire il “mito letterario” nasce quando Parigi cessa di funzionare come topos retorico e comincia a essere assunta quale oggetto “reale” di un discorso “romanzesco”, ovvero di un discorso finzionale che si vuole verosimile. Il Settecento, e già nel corso del Seicento non ne mancano esempi isolati, ha conosciuto molti romanzi in cui Parigi, con le proprie strade e piazze, con la propria folla e il proprio traffico di carri e carrozze, compare quale contesto reale della narrazione. Tuttavia la funzione che la città svolge in essa è piuttosto quella di un topos ereditato dai “moralisti” e dalla poesia satirica e burlesca del secolo precedente: Parigi viene per lo più presentata al lettore quale immagine − reale, certo, ma stereotipata e convenzionale − della metropoli pericolosa, sudicia, corruttrice. Gli esempi che si possono addurre sono numerosi e illustri: dalla Parigi visitata dai viaggiatori persiani di Montesquieu o cui approdano la Marianne e il “villan rifatto” di Marivaux a quella descritta nel capitolo XXII del Candide di Voltaire o nelle lettere di Saint-Preux a Julie nella Nouvelle Héloïse di Rousseau, la città, e le avventure e gl’incontri dei personaggi che si muovono in essa, non sono altro che pretesti per riflessioni generali sui vizi e i difetti della società, degli uomini e dei loro costumi. Tuttavia in questi romanzi, che sono da annoverare tra i capolavori letterari del secolo, la metropoli come tale, nella concretezza dei suoi spazi pubblici e privati, è, di fatto, assente. O, se vogliamo, essa è presente soltanto come luogo astratto: è più un segno convenzionale per designare la corruzione morale, l’irragionevolezza degli usi sociali, delle mode e delle abitudini. Si tratta, appunto, di un topos retorico-filosofico, come la Parigi di cui, verso la fine dei XVII secolo, un “moralista” quale La Bruyère contrapponeva i costumi, i difetti e le ridicolaggini a quelli della Corte di Versailles.

Eccezione eminente rispetto a questa tendenza è la rappresentazione di Parigi offerta da Prévost in Manon Lescaut nel 1733. In questo romanzo, per la prima volta, la metropoli sembra intrecciarsi al destino romanzesco dei due giovani amanti: essa, anzi, con la propria vita movimentata e piena di sorprese, ne alimenta le avventure − e, soprattutto, le disavventure. Sarebbe perfino lecito suggerire che è proprio Parigi, dove i due si rifugiano dopo il colpo di fulmine che si è abbattuto su di loro alla stazione di posta di Amiens, che fornisce la maggior parte delle circostanze “romanzesche” del racconto: benché, a rigore, la città non venga mai descritta, essa costituisce lo spazio reale e ben riconoscibile in cui hanno luogo le peripezie dei protagonisti, le quali conferisco all’intrigo la sua drammaticità, ossia il suo interesse. Ma sarebbe avventato dire che con questo romanzo sia nato il “mito letterario” di Parigi, tenuto conto che esso non sembra aver fatto scuola nel corso del secolo. Il mito letterario di Parigi potrà nascere solamente quando la città stessa diventerà un “personaggio” della narrazione romanzesca, dotato (come tutti i personaggi romanzeschi) di tratti e di una fisionomia propri; in breve, quando a Parigi verrà attribuita una vita sua propria, e ciò avverrà solo nel secolo successivo, dopo che Balzac avrà fatto della metropoli e dei suoi segreti l’oggetto principale delle proprie Scènes de la vie parisienne.

In che modo Balzac innova la tradizionale visione letteraria di Parigi?
Se mi è concessa un’esagerazione, mi piacerebbe dire che la Parigi di Balzac non sarebbe stata immaginabile senza l’enorme affresco che di essa fornì Louis-Sébastien Mercier nel proprio smisurato Tableau de Paris, apparso tra il 1781 e il 1788, in dodici tomi (che altri sei tomi di un Nouveau Paris rivoluzionario e post-rivoluzionario, apparsi tra il 1798 e il 1799, completano). Questo accostamento permette di misurare con precisione, se non altro, la novità dell’impresa balzachiana e la sua portata. Mercier, per primo, aveva descritto in una miriade di capitoli disparati per dimensione, argomento e stile ogni aspetto della città, perfino i più infimi, miseri e spregevoli, ma l’immagine caleidoscopica che ne risulta, benché infinitamente affascinante per noi lettori postumi, rimane statica e improntata a una visione essenzialmente “moralistica” o, per meglio dire, riformatrice. I diversi aspetti, per lo più negativi, della metropoli vengono presentati al lettore, affinché questi si persuada della necessità di apportarvi le riforme che Mercier invoca: il “moralista” si è trasformato in riformatore illuminato, conformemente allo spirito del secolo. Se il nostro sguardo postumo resta affascinato dagli aspetti pittoreschi della vita urbana descritti nel Tableau, l’intenzione di Mercier non era certo di fare della letteratura (e, non a caso, oggi è studiato più dagli storici che dai letterati). Con Balzac, l’affresco di Mercier si anima, per così dire, si drammatizza; un critico autorevole come Henri Mitterand, ha osservato che Balzac «narrativizza» (narrativise) lo spazio urbano ‒ se il neologismo è abbastanza infelice, il suo significato è perfettamente chiaro: nei romanzi che compongono le Scènes de la vie parisienne, tra cui si contano (non lo si dimentichi) alcuni dei capolavori balzachiani quali L’Histoire des Treize, Splendeurs et misères des courtisanes e La cousine Bette, ma anche in testi quali Le Père Goriot, L’Envers de l’histoire contemporaine o Le Colonel Chabert, Parigi, con le sue strade, case, giardini, faubourgs, diventa «una componente essenziale della macchina narrativa». In questo senso, si può dire senza esagerare che la città diventa un personaggio tra gli altri o, forse, il personaggio che domina tutti gli altri e ne determina comportamenti e destini. Con Balzac, di certo, la metropoli ha trovato la propria voce; Balzac non sarebbe così altro che lo scrivano incaricato registrarne il “romanzesco”, ossia le infinite storie, drammi e intrighi segreti che si celano in essa, e che conferiscono a ciascuna delle sue strade e dei suoi quartieri un carattere e una fisionomia propri.
Per questo, nei romanzi di Balzac, le lunghe descrizioni di case e strade e le digressioni sulla loro storia e su coloro che vi abitano sono sempre funzionali alla narrazione: è come se dalla città stessa e dai suoi abitanti scaturissero, come da una sorgente inesauribile, le storie che Balzac narra. Per una volta, dunque, non era una mera iperbole retorica la sua affermazione secondo cui Parigi è la «città dai centomila romanzi».

Come si intrecciano romanzesco e realtà della Ville Lumière nell’opera dei romanzieri?
Per poter spiegare come il “romanzesco” s’intrecci alla “realtà” parigina nei romanzi realisti del XIX secolo bisognerebbe forse riuscire a rispondere previamente a un’altra domanda, ben altrimenti difficile: come, a partire da un certo momento (diciamo, per semplificare: a partire da Balzac), la “realtà” di una metropoli quale Parigi ha potuto diventare l’oggetto di una narrazione romanzesca, ossia essere investita di una rilevanza e dotata di una pertinenza letterarie che hanno potuto conferire a Parigi quello statuto di “mito letterario” di cui si parlava dianzi. Bisognerebbe, cioè, ricostruire l’archeologia (in senso foucaultiano) della scrittura realista ottocentesca, ossia comprendere in quale modo i molteplici discorsi che amministratori, medici, economisti, architetti, urbanisti tennero, fin dal XVII secolo, sulla città e sui suoi reali problemi pratici poterono essere assunti e riconosciuti pertinenti come “materiale” del discorso romanzesco. Ben prima di assurgere a tema letterario, infatti, Parigi erano stata sentita e descritta come un problema di “police”, come si diceva all’epoca, ossia amministrativo e di ordine pubblico, il quale esigeva di essere analizzato, compreso e risolto in maniera razionale (dai cimiteri da spostare fuori dalle mura della città agli ospizi di mendicità, dalla sicurezza alla pianificazione urbanistica, dall’illuminazione delle strade alla creazione di un sistema fognario, dagli ospedali ai mercati). D’altra parte, fin dal XVII secolo (e anche da prima: si pensi alle poesie di Villon), Parigi era presente nella letteratura, ma unicamente in quanto oggetto retorico inscritto nel quadro delle convezioni poetiche del classicismo o della scrittura “moralista”, i cui oggetti (argomenti, temi) erano ammessi in conformità alla teoria tradizionale della separazione dei generi e degli stili, ossia, come dicevamo, soltanto in quanto topoi “comici”.

Gli aspetti multiformi della concreta, infima realtà urbana, che la poetica classica condannava a essere trattati nelle forme codificate dei generi minori (dalla satira fino alla “poésie poissarde”) hanno potuto alimentare il “romanzesco” solamente a patire dal momento in cui il sistema dei generi è entrato in crisi, perdendo la propria forza normativa. Di questo radicale mutamento di paradigma estetico, mi è parso che potesse essere presa come esempio significativo l’immagine del fango parigino. Come testimoniano le Satire di Boileau, la poesia burlesca di Bertaut o di Scarron o certe pagine del Roman bourgeois di Furetière, fin dal XVII secolo, la letteratura aveva conosciuto il fango parigino, nero, maleodorante, come uno degli aspetti più sgradevoli della vita quotidiana parigina; in testi come quelli citati, tuttavia, esso compariva come un mero segno convenzionale, tipico del sermo humilis di generi inferiori quali la satira, ma che non sarebbe stato ammissibile in opere letterarie il cui registro stilistico avesse una diversa finalità estetica, quali la tragedia. È nei romanzi di Balzac che il fango parigino diventa un dettaglio (“reale”) che non comporta più alcuna connotazione “comica”. Il fango viene ormai assunto nella trama del testo, e descritto, allo stesso titolo di altri dettagli (vestimentari, fisionomici, alimentari, architettonici, di arredamento…) che servono allo scrittore per presentare e rendere verosimile − cioè accettabile e credibile per il lettore − la vicenda narrata e i personaggi del racconto. È come tale che, dopo Balzac, il fango farà la propria costante apparizione nei romanzi di Flaubert, dei Goncourt, di Alphonse Daudet, di Zola, contribuendo a dare al “romanzesco” quella verosimiglianza che la nuova poetica realista esige (e che per Prévost, malgrado il suo presunto “realismo”, non aveva ancora un valore normativo: nessuno dei personaggi di Manon Lescaut viene mai descritto con le scarpe o gli abiti inzaccherati, né c’era bisogno che lo fosse).
Riuscire a dare ragione di questo cambiamento di statuto letterario di un dettaglio infimo e ignobile come il fango significherebbe spiegare le cause e le motivazioni della “frattura epistemologica” che separa la concezione “classica” della letteratura da quella moderna.

Come appare Parigi nelle opere dei surrealisti?
A questo proposito, non bisogna dimenticare il rifiuto dei surrealisti − violentemente espresso da André Breton all’inizio del primo Manifesto surrealista (del 1924) − della tradizionale forma del romanzo, ereditata dal secolo precedente. Tanto il romanzo realista o naturalista che quello cosiddetto psicologico o di analisi vengono rifiutati per il loro carattere, al contempo, razionalmente costruito e arbitrario: è un’intera concezione della letteratura, anzi è la concezione stessa di letteratura quale è stata praticata per secoli in Occidente, che viene così negata e denunciata come una vuota, gratuita finzione. La scrittura surrealista, anche quando non si vuole “automatica”, si pone sempre radicalmente in antitesi rispetto a qualsivoglia idea di mimesi: la sua funzione, nei testi surrealisti, non è mai referenziale. Essa è piuttosto una forma di esperienza, che permette di dare espressione a immagini che affiorano dall’inconscio non mediate né censurate da alcuna preoccupazione estetica e, tanto meno, morale − o almeno questo è quanto i surrealisti chiedevano alla scrittura e a ciò che tradizionalmente viene chiamata “letteratura”.
È avendo ben presente questa ambizione di superare le forme e l’idea stessa della letteratura che bisogna interpretare la rappresentazione di Parigi quale emerge dai testi surrealisti. In alcuni di essi come Le paysan de Paris di Aragon e, ancor più, Nadja di Breton, la metropoli − per dirlo sinteticamente − non tanto è l’oggetto della scrittura, quanto piuttosto l’occasione, lo spazio concreto di un’esperienza autentica del “meraviglioso” di cui la scrittura non vuole essere altro che la traccia, la registrazione fedele. In altre parole, per i surrealisti, Parigi s’impone come il luogo reale in cui è possibile cogliere quello che Breton chiamava “il vento dell’eventuale”, ossia in cui è possibile, per chi è disposto a cercarlo, l’incontro con il “meraviglioso” della “surrealtà”, nella quale il mondo razionale della veglia e quello irrazionale del sogno perdono i loro contorni e si fondono. Non sarà eccessivo dire che Parigi, le sue strade, i suoi parchi notturni, i suoi passages, i suoi caffè e sale teatrali (meglio se fatiscenti e un po’ losche) diventano, per i surrealisti, la condizione materiale e, al contempo, spirituale della scrittura stessa. Si direbbe che − e per Breton fu certamente così − Parigi e l’esperienza surrealista siano un’unica cosa, appartengano alla medesima dimensione.

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