
Kaplan era nato ad Odessa, in Russia, nel 1918. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1923, era divenuto cittadino statunitense sette anni dopo, nel 1930. Si era formato nelle università di Chicago e della California ed era stato allievo di veri e propri mostri sacri della filosofia: Bertrand Russell, Rudolf Carnap e Charles Morris. Nel corso della sua carriera accademica, aveva insegnato tra l’altro alla New York University e ad Harvard e poi si era trasferito in Israele, andando ad insegnare nell’università di Haifa. Tra il 1947 e il 1958 era stato eletto Presidente della American Philosophical Association. Già da queste informazioni, siamo in grado di verificare come Kaplan abbia avuto un ruolo di primo piano nella filosofia statunitense, anche dal punto di vista editoriale. Egli è infatti autore di diversi libri e di numerosi articoli. Per questo insieme di ragioni, nel 1966, la rivista Time lo inserì in copertina come uno dei migliori professori degli Stati Uniti. Kaplan è dunque un accademico, ma anche un grande divulgatore dei temi filosofici. Debbo dire che questa capacità si nota proprio ne Il duologo che è un libro chiarissimo, a differenza di molti libri di filosofia che adottano uno stile a volte un po’ oscuro, confondendo oscurità e profondità del pensare. Nel suo necrologio, scritto da Allan Casebier e Irving Copi per l’American Philosophical Association, viene ricordata una frase che Kaplan diceva di se stesso: “Sono per formazione un positivista, per inclinazione un pragmatista, per temperamento un mistico”. Non è una sintesi fantastica?
Come si sviluppa la filosofia del dialogo di Kaplan?
In genere, si designa con “filosofia del dialogo” una parte della filosofia ebraica contemporanea in cui, a diverso titolo, rientrano pensatori come Martin Buber, Emmanuel Lévinas, Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner. Alla luce di quanto scritto ne Il duologo, sicuramente potremmo inserire in questo elenco anche Abraham Kaplan. Nel suo testo, Kaplan fa riferimento alla distinzione tra Io-Tu ed Io-Esso, propria della filosofia di Buber. Quando Il duologo venne scritto, nel 1969, la principale opera di Buber Ich und Du non era stata ancora pubblicata in inglese (apparirà l’anno successivo, nel 1970). Ed, infatti, facendo riferimento al filosofo austriaco, Kaplan si sente in dovere di specificare che si tratta del “filosofo e teologo che ha insegnato all’università ebraica di Gerusalemme”. Esiste, dunque, una matrice comune che sicuramente collega Kaplan a Buber. In aggiunta, Kaplan è preoccupato di cogliere la comunicazione non come una tecnica, come accade oggi. Basta infatti fare un giro in una libreria, per rendersi conto che ci sono interi settori dedicati alla “comunicazione strategica” o alle “tecniche” del comunicare. Per Kaplan, invece, la comunicazione è il volto stesso della razionalità, cioè di ciò che in ultima analisi ci rende umani.
In questo senso, mi torna in mente quel passaggio de Il duologo in cui Kaplan spiega che discorso scientifico e discorso filosofico sono differenti perché il primo deve essere impersonale per essere fedele a se stesso, mentre il secondo dovrebbe non dimenticare l’invito di Socrate “Venite, ragioniamo insieme!”. La triste presa d’atto di Kaplan è che “Ciò che ci viene proposto come paradigmatico è il linguaggio che utilizziamo per comunicare con le macchine”. C’è, dunque, una soglia, segnalata anche dal massiccio ricorso al linguaggio impersonale, oltre la quale la distanza della filosofia dalla realtà si converte in congedo vero e proprio.
Quali dinamiche caratterizzano la categoria del duologo?
Il duologo si verifica ogniqualvolta, pur essendo convinti di comunicare, stiamo di fatto facendo un monologo. Le forme in cui ciò accade sono molteplici. Non occorre parlare tanto perché ci sia un duologo. A volte, perfino l’ascolto può essere un duologo. Si pensi a quando vogliamo carpire dall’altro informazioni e preferiamo lasciarlo parlare. Sembrerebbe un atto di generosità, ma non lo è affatto.
In questi casi, infatti, l’ascolto è una tattica per rendere l’altro un oggetto. Queste dinamiche sono così frequenti che non ci facciamo più caso. Per questo, credo che dovremmo cogliere le dinamiche del duologo in un almeno tre direzioni. La prima è, appunto, la inconsapevolezza che ci consegna alla immanenza fusionale, cioè al fatto di non riuscire più a trovare la nostra esatta collocazione nell’ordine delle cose. In tale condizione, siamo piuttosto fusi insieme alle cose del mondo. Ritrovare se stessi è possibile, cercando di fare discernimento, praticando una vera e propria vigilanza. La seconda direzione in cui il duologo può svilupparsi è l’autosufficienza di cui è espressione la placidità con cui a volte guardiamo il mondo. Allo sguardo placido, pieno di sé, andrebbe sostituito lo sguardo inquieto, pronto a mettersi in discussione e a migliorarsi costantemente. La terza direzione è costituita dallo svuotamento di sé. Non basta, infatti, accorgersi in teoria di avere uno sguardo autosufficiente su se stessi. Quella stessa autosufficienza va poi superata in pratica, provando a vedersi dal punto di vista dell’altro. È solo a quel punto che il rischio del duologo è scongiurato. Vorrei, se possibile, insistere su questa necessità di colmare il divario tra l’aver inteso qualcosa ed il metterlo in pratica: non basta pensare l’esperienza, occorre anche esperire il pensare.
In che modo è dunque possibile recuperare una comunicazione autentica?
Questa stessa domanda fa da sottofondo ad un ebook che avevo scritto qualche tempo fa, intitolato Ascolto e comunicazione (Morcelliana, 2020). Io penso che comunicare in modo autentico debba presupporre la disponibilità a rinunciare ad avere ragione. Non si tratta di fare di tutto per avere torto, questo no, non dico questo. Si tratta, invece, di mettere in conto una disponibilità fondamentale, consistente nel riconoscere che, se voglio prendere sul serio il mio interlocutore e le sue ragioni, non posso entrare in uno scambio comunicativo come se andassi in guerra, avendo già deciso prima che solo io ho ragione. Bisognerebbe essere sinceramente aperti nei confronti dell’altro e dunque pronti ad ammettere che la ragione sarà stabilita non indipendentemente ma insieme al mio interlocutore. Quando comunichiamo non siamo come i pupari della tradizione siciliana delle marionette che tengono in mano i fili e muovono gli altri a piacimento. Dovremmo essere disposti ad essere “smascherati”. Solo se togliamo la maschera che solitamente indossiamo, potremo sperare di vedere anche il volto dell’altro.
Giovanni Scarafile è professore associato di Filosofia Morale nell’Università di Pisa e Liu Boming Professor nell’Università di Nanchino NJU. È componente dello Steering Committee della FISP. Fédération Internationale Des Sociétés De Philosophie. La sua ultima monografia è: Mind the Gap. L’etica oltre il divario tra teorie e pratiche (ETS 2020).