
Quale dramma interiore attanagliava il poeta?
Il dramma era quello di dover scrivere l’Eneide per compiacere Augusto, come le Georgiche erano iussa di Mecenate. Macrobio ci dà notizia del peso che sentiva. Temeva, e lo scrisse all’imperatore, che le sue fragili spalle non avrebbero sopportato la responsabilità di un’opera così grandiosa. Scrisse il poema controvoglia, prima abbozzando una lunga stesura in prosa per poi da lì prendere spunto per comporre i versi. Ne dettava molti la mattina. Durante la giornata ne sceglieva e limava pochissimi. Lo stesso Eduard Norden, insigne autore de La letteratura romana, peraltro di parte filo-augustea (al punto che, secondo lui, l’incomprensibile provvedimento contro Ovidio, relegato a Tomi, sul Mar Nero, dall’oggi al domani, fu giusto) riconosce la paura di Virgilio nell’addentrarsi in un territorio così impegnativo e, aggiungerei, rischioso. Perché dico rischioso? Ma perché doveva esaltare il principe ma non apertamente, adularlo non era facile, tant’è vero che il suo nome ricorre solo due volte in tutto il poema. Il dramma era la conflittualità sempre latente e successivamente emergente, difficile da risolvere, l’amore-odio per Ottaviano. Questi era stato un suo grande protettore dall’epoca del secondo triumvirato, Virgilio gli era riconoscente ma, contemporaneamente, le prese di posizione sempre più autoritarie soprattutto dalla vicenda di Cornelio Gallo in poi, lo andavano respingendo.
Che rapporti intratteneva l’artista con il potere politico, in particolare col circolo di Mecenate e con Ottaviano Augusto?
Apparentemente ottimi, in specie con Mecenate, in realtà non così buoni. Rifuggiva dalla corte il più possibile, preferiva stare a Napoli o in Sicilia piuttosto che a Roma. Con la morte di Mecenate, nell’8 a.C., vengono meno, in termini culturali, i freni all’accentramento autocratico del regime, che culminerà con la relegatio di Ovidio nell’8 d.C. Così il post-classico è iniziato già nell’età augustea. Però Virgilio piacque molto ai suoi contemporanei, soprattutto grazie all’Eneide, subito percepita degna della maiestas populi Romani per non parlare del popolo napoletano che nel Medioevo, epoca in cui ebbe particolare fortuna, lo riteneva “mago”, capace di qualsiasi prodigio. Ma lui era poco o per niente interessato a tale maiestas. L’Eneide è un’opera patetica, piena di páthos, altroché equilibrio classicistico! In questo modo ho voluto trattare Virgilio, o, meglio, Virgilio si è lasciato trattare da me, liberando il classicismo augusteo dall’impostazione convenzionale che il positivismo aveva ereditato da Voltaire. L’ho collocato in modo critico nell’ambito di quel classicismo. Sono partito proprio dalla problematica della sua intenzione, cui si oppose Augusto, di bruciare l’Eneide. Mi ha lasciato sempre insoddisfatto quanto affermato da latinisti pur notevoli, cioè che intendesse bruciarla perché scontento dei suoi risultati letterari. Ed è il punto dal quale siamo partiti. Ma, daccapo, perché mai ne era scontento? Ho scritto questo libro per arrivare a una risposta possibile.
In che modo il suicidio dell’amico Cornelio Gallo appare strettamente legato all’ipotesi di distruzione dell’Eneide?
Il mio è un saggio ipotetico, ma mi sono basato su fonti ben precise. L’elegia erotica romana è stata inventata da Cornelio Gallo e tanti dopo di lui la ripresero. Fu un’invenzione del tutto originale, perché in Grecia era esistito l’epigramma erotico ma non l’elegia soggettiva. Insomma non siamo in grado di ricostruire la nascita del génos elegiaco romano perché ci mancano informazioni fondamentali, l’opera di Gallo non ci è stata tramandata. Ce ne resta solo una decina di versi, ritrovati nel 1979 su un papiro in Egitto. E non disponiamo di altro proprio perché si è fatto in modo che non ci pervenisse nient’altro. Gallo era stato governatore in Egitto, fu accusato di alto tradimento e perciò formalmente fu il Senato a doverlo processare ma il poeta prevenne quella che sarebbe stata una sicura condanna e preferì suicidarsi, il che avvenne nel 46 a.C. Caduto in disgrazia Gallo, Virgilio si affrettò a eliminarne l’elogio contenuto precedentemente nel IV libro delle Georgiche, e lo sostituì col racconto di Aristeo e il mito di Orfeo. Gallo era stato intimo amico di Virgilio fin dai tempi dell’espropriazione terriera che aveva dovuto subire, e che riuscì a evitare per l’appoggio offertogli da Gallo, Asinio Pollione e Alfeno Varo, i quali intercessero presso Ottaviano, all’epoca triumviro. La vicenda di Gallo è documentata da Ammiano Marcellino, Cassio Dione e Servio commentatore di Virgilio, basta leggere attentamente queste fonti per rendersi conto della drammaticità della situazione e delle conseguenze che ne derivarono. È chiaro che, tuttavia, in questo caso aveva ragione Augusto: Gallo in Egitto si era atteggiato a faraone, più che un rappresentante di Roma era diventato un suo antagonista. Ma Virgilio restò turbato, aveva già accennato all’amico e al suo amore per Licoride nel X libro delle Bucoliche e tutto questo andava ad accrescere la sua scarsa propensione a sentirsi in sintonia col programma di restaurazione morale propagandato da Mecenate. Di fatto, si trattò del primo pesante intervento autoritario del potere politico contro un illustre esponente della poesia.
Per quale vera, profonda ragione Virgilio intendeva bruciare l’Eneide? E per quale autentico motivo la considerava incompiuta?
Penso che la risposta sia deducibile da quanto ho detto finora. A ogni modo sono andato a fondo sul perché della critica letteraria, come è stato rilevato, non essendo contento di una motivazione sic et simpliciter di insoddisfazione autoriale. È facile perdersi in automatismi accademici, che sono lenti e spesso elusivi nell’affrontare il vero cuore delle questioni. L’autore dell’Eneide da parte sua nemmeno poteva osare un’aperta opposizione. O, meglio, ha cercato di farlo, intendendo bruciare il poema, ma non gli è stato possibile, in quanto è stato contraddetto dalla volontà ottavianea. Lui anticipava la fine del mecenatismo che avrebbe interessato la seconda generazione, il disimpegno ideologico dei poeti successivi, di Ovidio in primis. Una sublime dimostrazione di tale ambivalenza è data da La morte di Virgilio di Hermann Broch, dove è teatralizzato il dialogo finale, a Brindisi, tra Virgilio e l’imperatore, che respinge la volontà del morente di distruggere il manoscritto. Io sono andato oltre Broch. A tal proposito, voglio cogliere l’occasione per premettere che il mio interesse per il mondo greco-romano, che definire “pagano” è riduttivo e ingiustamente sprezzante, non è storiografico in senso stretto bensì letterario. Così per i protagonisti di cui mi sono occupato e mi occupo: Virgilio appunto e dunque Ottaviano, ma anche Ovidio (ho iniziato a scrivere anche su di lui) e dunque di nuovo Ottaviano. Può essere tutt’al più filosofico, come per Cicerone che ritengo, a dispetto di luoghi comuni tuttora acriticamente circolanti, il primo filosofo romano, essendo Lucrezio un poeta (su Cicerone ho pronto infatti un libro che, appena le condizioni operative attualmente subordinate all’emergenza lo permetteranno, mi auguro possa vedere la luce). Ciò non significa che io non tenga conto delle situazioni sociali, economiche, delle strutture collettive: sono tutti elementi imprescindibili. Ma sempre avendo presenti, per tornare al Fontaine, le mie esigenze estetiche. Altrimenti non sarei io ma un altro, il mio Virgilio non è quello di un altro.
Cosa non andava davvero bene in ciò che il poeta aveva composto fino a quel momento, al punto di volerne rigettare la paternità e considerarla un’opera da dare alle fiamme?
Sia chiaro che ci sono difetti nell’Eneide. Fondere il materiale mitico con quello storico era molto difficile. Dobbiamo fare uno sforzo per notare i difetti ma ci sono. E, come osserva il Norden, difficilmente avrebbero potuto essere eliminati in base alla revisione finale che l’autore aveva in animo di attuare. Sono difetti strutturali, non correggibili puntando ai particolari. Noi ci troviamo comunque di fronte a un capolavoro, ma a un capolavoro molto più barocco che non aderente ai pieni canoni del classicismo, più vicino in questo alle Argonautiche di Apollonio Rodio. D’altra parte, lo stesso Virgilio non riteneva indispensabile la levigatezza delle parti, ciò che lo preoccupava era altro. Ma in fondo questi non sono nemmeno dei veri limiti. Se si pensa che il pre-classicismo romano è coevo del post-classicismo greco, ecco che l’antico barocco accerchia anche il classicismo augusteo. Lo stesso Orazio, nonostante il suo famoso equilibrio, è più dionisiaco di quanto ci voglia far credere.
In che modo la vicenda virgiliana consente di riflettere sul tema più ampio dei rapporti tra arte e potere politico?
Tematica più attuale che mai. Oggi esistono altri poteri, non occorrono censure o condanne a morte, non servono roghi, è sufficiente silenziare, non far arrivare nei circuiti mass-mediatici maggiori un determinato autore, laddove non sia funzionale a quello che oggi ci martella dalla mattina alla sera, il “politicamente corretto”. E la vicenda di Virgilio ci dice ancora molto. Se vogliamo fare una battuta amena, potremmo dire che Virgilio è politicamente più scorretto di quel che siamo da sempre stati abituati a credere. Ma è soltanto una battuta, perché la Storia romana non ha punti in comune con l’oggi. Però il classico non accade una volta per tutte, esso è sempre di là da venire, questa è la sua funzione, questa è stata la ricerca dell’altrove per i neoclassicisti. L’esperienza recente di Oleg Nitikinski, autore, tra l’altro, di un dialogus in lingua latina intitolato De eloquentia latina (saec. XVII et XVIII), pubblicato a Napoli nel 2000, è paradigmatico di una continuità perfino linguistica che arriva fino ai giorni nostri. Né ciò deve sorprendere più di tanto, se pensiamo che l’Impero Romano d’Oriente è finito solo meno di sei secoli fa, nel 1453. Noi italiani abbiamo finanche il privilegio di usare una lingua grazie alla quale ci risulta facile leggere in latino (nella pronuncia ecclesiastica), viste le affinità riscontrabili nelle due lingue a livello fonetico. Voglio dire che, considerando con Paul Veyne il tutt’uno di Grecia e Roma, dove la funzione di quest’ultima è stata mediatrice e non culturalmente subalterna, non è fuori luogo affermare, sia pure un po’ estremisticamente, che il post-ellenismo ancora ci interpella, al pari della traccia degli dèi fuggiti di cui parla Heidegger. Dell’imperatore Adriano mi sono occupato addirittura in versi, ho fatto poesia sulla Villa Adriana di Tivoli. Anche lui ha gestito un potere enorme, ma in una misura umanistica talché, per quanto se ne voglia dire contro, quella di Augusto e di Adriano sono state le migliori età della Storia romana per l’attenzione data alla cultura.
Sandro De Fazi è laureato in Filosofia e docente di italiano e latino. Ha pubblicato: Più romano che greco, in Off-side 3 (Croce, 2000), Ti scrivo brevemente per chiederti scusa dei miei silenzi. Vita di Gaetano Dimatteo (prefazione di Elio Pecora, Croce, 2009, presentato alla Biblioteca del Senato), Il dramma dell’ultimo Virgilio (Saecula, 2017), Defending Bosie (Telemaco, 2018). Di poesia: Vacuo cielo (Gabrieli, 1986), ampie pagine in “Poeti e poesia” (N. 14 – 2008), Chiesi al vento di Tivoli (Controluna, 2019). Scrive per “l’EstroVerso”, “Eidoteca”, “Amedit – amici del mediterraneo”.